Minima Cardiniana 403/6

Domenica 4 dicembre 2022, Seconda Domenica di Avvento

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
UNA SERA CON MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO
di Eleonora Genovesi

Colui che elevò la povertà e l’umano peccato a divina bellezza e sublimò la penitenza

Prendo in prestito dei corpi e degli oggetti, li dipingo per ricordare a me stesso la magia dell’equilibrio che regola l’universo tutto. In questa magia l’anima mia risuona dell’Unico Suono che mi riporta a Dio
(Michelangelo Merisi da Caravaggio)

In questo tempo di intemperie o forse dovrei dire di bufere di informazioni televisive e giornalistiche che si accavallano l’una sull’altra facendoci sentire terribilmente instabili, e reduce da fatiche che contraddistinguono la scuola del terzo millennio, ho deciso di regalarmi una sera con l’immenso Caravaggio, andando a vedere il bellissimo film L’Ombra di Caravaggio diretto dal grande Michele Placido con Riccardo Scamarcio nelle vesti del protagonista. Se dovessi condensare in una sola parola questo film sceglierei quella di Capolavoro. Sì, perché si tratta di un film davvero particolare in cui non si narra del solito Caravaggio rissoso che trasforma le prostitute in Madonne e i ladri in Santi, ma di qualcosa in più: la battaglia combattuta dal pittore affinché la sua creazione artistica non venisse intrappolata in rigide regole moraleggianti che ne avrebbero negato la libertà creativa. L’Arte è fatta di luci ed ombre che possono mostrarsi a patto che non sia ostacolato il percorso creativo dell’artista, come ci mostra con le sue creazioni il grande Merisi. Che modernità: in una Roma di inizi Seicento, una Roma a due facce: quella sdrucita, stracciata e triviale dei diseredati, e quella fastosa, dissoluta, lasciva dell’alto clero, il Merisi rivendicava la libertà creativa, iniziando così a creare i presupposti del libero arbitrio che caratterizzerà il pensiero moderno e contemporaneo. Ma come ci viene raccontato Caravaggio nel film?
Siamo nel 1610 e il Merisi, condannato a morte per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, vive in una perenne fuga dai suoi nemici. Lo spettatore è condotto nel cuore della Napoli di quel 1610, città dove l’artista trova riparo dalla sentenza di condanna a morte.
Il Papa Paolo V prende in considerazione l’ipotesi di graziarlo ed a tal fine incarica un misterioso inquisitore, chiamato l’Ombra (da cui il titolo) di indagare sulla vita dell’artista, parlando con tutti coloro che lo hanno conosciuto, al fine di stabilire se Caravaggio sia un folle o un genio. Ed in questa rocambolesca narrazione a cavallo tra storia e fantasia, una parte rilevante spetta ai leggendari dipinti di Caravaggio. Sparsi tra la bottega del pittore ed i palazzi dei facoltosi committenti, per poi materializzarsi come tableau-vivant, i capolavori di Caravaggio calamiteranno l’attenzione dello spettatore, non solo per la loro bellezza, ma anche per quella sua visione rivoluzionaria di osmosi tra l’arte e la realtà con la quale l’artista sconvolgerà la Roma dell’epoca. La prima opera che appare è Ragazzo morso da un ramarro, uno dei primi capolavori realizzati dall’artista poco dopo essere giunto a Roma. Di questo dipinto esistono 2 versioni differenti realizzate da Caravaggio: la prima dipinta tra il 1593-1594, conservata attualmente alla National Gallery, la seconda del 1594-1596 esposta alla Fondazione Roberto Longhi di Firenze. Protagonista della tela è un giovane ragazzo un po’ effeminato e vanitoso, con una spalla nuda e un fiore in testa che si ritrae di scatto e grida al morso di una lucertola. Il ragazzo è abbigliato, non secondo la moda dell’epoca, bensì con abiti che ricordano quelli degli eroi dell’antica Grecia. Ma la sua espressione è tutto fuorché eroica. Essa denota il forte spavento causato dal morso di un ramarro che si annidava silenziosamente tra gli innumerevoli oggetti presenti nella scena. Vicino a lui si trovano una brocca con fiori e alcune ciliegie sul tavolo. Estremamente rilevante è la qualità esecutiva del dipinto con la sua attenzione ai dettagli, agli oggetti, agli effetti di luce, al particolare curato, tutti elementi che rinviano alla conoscenza della pittura fiamminga. Ma se la pittura fiamminga insiste sulla minuzia dei particolari soffermandosi su ogni dettaglio, Caravaggio si concentra sulla visione d’insieme e sugli effetti luministici. La luce investe il ragazzo di spalle, in modo casuale ed ogni oggetto presente nella scena “risponde” in modo differente alla presenza luministica. Questo dipinto di Caravaggio è indiscutibilmente debitore al Trattato di Pittura di Leonardo da Vinci, trattato in cui attraverso innumerevoli studi di fisiognomica, Leonardo studia i moti dell’anima.
Va detto poi che, riguardo all’espressione del ragazzo morso dal ramarro, un precedente lo si trova nel disegno a carboncino realizzato circa 40 anni prima dalla pittrice cremonese Sofonisba Anguissola, dal titolo Bambino morso da un granchio, che Caravaggio avrebbe avuto modo di vedere nello studio del suo maestro Cavalier D’Arpino. Questo schizzo, in cui la pittrice si concentra soprattutto sul pianto del bambino, rendendolo in modo estremamente realistico, secondo diversi critici d’arte sarebbe stato d’esempio a Caravaggio nella resa del movimento del ragazzo dovuta allo spavento. Infine va sottolineato il forte valore allegorico dell’opera il cui tema portante è quello della Vanitas. È proprio il morso dell’animale ad essere fondamentale: simbolicamente, questa azione rappresenta la delusione e i pericoli che la vita umana riserva; nell’esperienza umana ci si può imbattere in molti ostacoli spesso non visibili, che potrebbero spuntare fuori all’improvviso, proprio come il ramarro.
La rosa fiorita, ricca di vita, posta tra i capelli del ragazzo allude al tipico vigore della giovinezza, sia in senso estetico che morale, al contrario dell’altra rosa posta sulla sommità della brocca: una rosa sfiorita, spenta simbolo della vecchiaia e della morte.
E che dire del ruolo ambivalente dell’acqua nella brocca: da una parte, simboleggia la purificazione e dall’altro la mutabilità, la scorrevolezza e l’instabilità. E accanto alla brocca ci sono diversi frutti che simboleggiano i piaceri della vita. Tutti gli oggetti presenti nel dipinto hanno, per scelta consapevole di Caravaggio un valore palesemente ambivalente. Il messaggio inviato dall’artista è chiaro: bisogna fare sempre attenzione nella vita a non capovolgere le situazioni trasformando il positivo in negativo.
E la soluzione suggerita dallo stesso Caravaggio è quella di non legarsi troppo ai beni terreni, poiché non essi non sono la vera fonte di felicità.
La seconda opera che compare nel film è quella dello Scudo con la testa di Medusa del 1598 (Galleria degli Uffizi, Firenze), in cui è ritratto il volto di Medusa al centro della superficie convessa dello scudo dal fondo verde. Un’espressione di orrore si dipinge sul volto di Medusa reciso da Perseo: la bocca è spalancata in un urlo di dolore e gli occhi sembrano erompere dalle orbite, il sangue che fuoriesce in un fiotto dal collo mozzato ed il groviglio di serpenti che si agita sulla testa della Gorgone ci restituiscono il momento culminante del mito greco. Nello scudo con testa di Medusa emerge già in modo molto forte, a dispetto della giovane età dell’artista, il suo magistrale uso della luce con la quale annulla la convessità del supporto, dando l’impressione che la testa fluttuasse sul fondo verde scuro.
La terza opera che compare nel film è quella della Madonna dei Palafrenieri, 1605-1606 (Roma, Galleria Borghese). Quello che per noi oggi è semplicemente un capolavoro all’epoca della sua realizzazione suscitò sdegno e fu oggetto di infuocate polemiche. L’opera fu commissionata dall’omonima confraternita per la cappella di Sant’Anna, nella Basilica di San Pietro a Roma.
I Palafrenieri pontifici erano una confraternita di nobili romani, istituita a Roma nel 1378, i cui membri godevano del privilegio di condurre per le redini l’asino e il cavallo bianco del papa. Inoltre erano e sono tutt’oggi responsabili delle scuderie vaticane. Protagonisti del dipinto sono la Vergine, Gesù Bambino e Sant’Anna: la Vergine si china in avanti, tenendo il Bambino con entrambe le mani e mostrandogli come schiacciare con il piede un serpente, simbolo di peccato ed eresia. Sant’Anna, madre della Vergine Maria, assiste alla scena in modo distaccato, restando immobile come una statua. Le figure che emergono dalle tenebre, grazie alla luce proveniente dalla sinistra del quadro, sono inserite in un ambiente di cui non si distingue nessun dettaglio.
Come in tutte le opere di Caravaggio, la luce ha un’importanza primaria in quanto funzionale a sottolineare il messaggio dell’artista. Parlerei di luce con funzione evidenziatrice. E nella Madonna dei Palafrenieri la luce, proveniente da sinistra, oltre ad assolvere al ruolo simbolico di incarnazione del divino e pratico di definizione dei volumi, investendo la figura della Vergine e del Bambino, in particolar modo il piede del Bambino su quello della madre intenti a schiacciare il serpente, vuole trasmettere il messaggio di gratitudine verso quel piccolo Gesù il cui sacrificio consentirà l’eliminazione del peccato originale. Ma cos’è allora che fece gridare allo scandalo? Il Bambino troppo grande per essere rappresentato nudo o la generosa scollatura della Vergine oppure l’incomprensibile distacco di Sant’Anna la protettrice dei palafrenieri? No ma certo che no. La verità è che la Madonna era la sosia di Maddalena Antognetti detta Lena, modella, musa e forse amante del Merisi.
Inoltre Lena aveva un figlio più o meno della stessa età del Bambino raffigurato nel dipinto, giudicato, come detto troppo grande per mostrarne la nudità. A dispetto del bassissimo costo del quadro di appena 70 scudi che Caravaggio accettò poiché stava attraversando un periodo difficile, l’opera venne immediatamente rifiutata dai committenti con la motivazione ufficiale di opera eretica. Eh sì gli esimi cardinali dalla vita dissoluta videro nel dipinto di Caravaggio anche un esagerato coinvolgimento di Gesù nell’uccisione del serpente tanto da considerare l’opera eretica. A ciò si aggiungeva l’apparente mancanza di decoro nella rappresentazione della Vergine e del Bambino e l’eccessivo distacco di Sant’Anna dagli altri due personaggi. La confraternita interpretò questo “allontanamento” come una negazione del ruolo di Grazia (nella tradizione, sant’Anna rappresentava tale valore) della Santa.
La verità è che era impensabile accettare che fosse Lena, una prostituta, a rappresentare Maria. Tuttavia a qualcuno il dipinto piacque. Ad avvantaggiarsi del rifiuto fu il cardinale Scipione Borghese, grande collezionista, che secondo male voci avrebbe fomentato le polemiche sul quadro al fine di impadronirsene. Le due opere successive che attirano lo sguardo dello spettatore sempre più coinvolto sono quelle della Conversione di San Paolo e Crocifissione di San Pietro. A fine settembre del 1600 Caravaggio riceve da Monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere di Clemente VIII e amico del cardinale Borromeo, l’incarico di realizzare due grandi dipinti su tavola per la cappella dove verrà sepolto nella Chiesa di Santa Maria del Popolo. Ma per quanto Caravaggio sia stato bravo nel portare a termine l’incarico in breve tempo, nel 1601, Cerasi morì senza vedere le tavole di Caravaggio ultimate. Inoltre il fatto che la cappella non fosse ancora pronta complicò ulteriormente la situazione. Sta di fatto che la Conversione di San Paolo e la Crocifissione di San Pietro che vediamo oggi nella Cappella Cerasi non sono quelli visti dal Monsignore. E su questo fatto si è quasi inscenato un giallo storiografico. La malevola testimonianza di Giovanni Baglioni, primo biografo di Caravaggio, ma anche suo ostinato denigratore, aveva sparso la voce che i dipinti fossero stati rifiutati dai committenti, insoddisfatti del lavoro del pittore. Oggi l’ipotesi prevalente è che Caravaggio abbia chiesto all’Ospedale della Consolazione, erede del Cerasi, il permesso di ridipingere i due quadri. E così avvenne: Caravaggio ridipinse le due tele che vennero collocate al loro posto nel 1605 e vendette le prime due a Francesco Sannesio. Sta di fatto che i quadri che ammiriamo in Santa Maria del Popolo sono due stupefacenti esempi delle innovazioni pittoriche introdotte dal Merisi: il realismo dei personaggi, un San Pietro e San Paolo presi dalla plebe, l’uso espressivo della luce, il dinamismo compositivo della Crocifissione, attentamente studiato dall’artista per conferire alla scena un potente effetto drammatico, ottenuto mediante una struttura compositiva ad X il cui centro è il ventre di San Pietro, l’anziano apostolo, un vecchio rugoso dalla pelle cascante. Inoltre, la posizione degli esecutori è tale per cui si genera, quasi un movimento dinamico a partire dall’uomo inginocchiato. Ma la spazialità del dipinto è determinata essenzialmente dalla luce, quella luce tutta caravaggesca dal valore evidenziatore che mette in rilievo alcune parti dei personaggi.
Ancora una volta, Caravaggio rappresenta un supplizio che il piano di Dio non sembra nobilitare e che appare come la semplice esecuzione di una condanna a morte. Ma la luce, simbolo della Grazia divina, piove nuovamente dall’alto e investe Pietro e la sua croce, bagnando con il suo potere salvifico anche i sicari. Nel film, la Crocifissione di San Pietro viene proposta allo spettatore come un tableau-vivant: nel suo studio Caravaggio ha posizionato tutti i personaggi del dipinto, si sta finendo di sistemare l’inclinazione della croce.
È incredibile: per un attimo mi sembra di essere davvero lì nello studio del Merisi mentre ascolto le parole farfuglianti di Alessandro Haber che interpreta uno dei reietti preso come modello.
Ancora una volta sarà la stessa luce evidenziatrice ad immobilizzare a terra l’ateo Paolo di Tarso nella Conversione di San Paolo. Se nella Crocifissione dominava il dinamismo nella Conversione dominano l’immobilità, la quiete, il silenzio. Paolo, il persecutore di Cristo, giace a terra con le braccia spalancate al cielo quasi a voler abbracciare qualcuno, illuminato da una luce percepita come innaturale, allegoria dello sguardo di Dio che si posa sull’uomo ormai liberato dal peccato. Nel film il dipinto della Conversione viene presentato nello studio napoletano di Caravaggio già realizzato, coperto da un telo mentre la nobildonna Costanza Colonna, interpretata da una splendida Isabelle Huppert, alza il telo restando affascinata dall’opera. Quella di Costanza Colonna, insieme a quella dell’Ombra è una delle due figure principali che ruotano intorno all’artista. Costanza nobildonna romana infelicemente sposata con Francesco Sforza signore di Caravaggio, luogo di nascita del Merisi, fu la protettrice affettuosa dell’artista per tutta la vita di cui nel film ne rappresenta il passato. Al contrario quella dell’Ombra, personaggio interpretato magistralmente dall’attore francese Louis Garrel, dal carattere burbero e inappuntabile, che si muove mettendo insieme una minuzia di dettagli come un novello Poirot, consentendo così di ricostruire l’opera di Caravaggio, rappresenta la sorte che attende l’artista.
La Crocifissione e la Conversione sono la prova provata del nuovo linguaggio pittorico di quel Michelangelo Merisi da Caravaggio, un linguaggio ormai maturo pronto a lasciare un segno nella storia. L’opera successiva è l’Amor vincit omnia, “L’Amore trionfa su tutto” il cui titolo è ripreso da un passo delle Bucoliche di Virgilio, opera conservata allo Staatliche Museum di Berlino. Commissionata dall’agiato collezionista di origini genovesi Vincenzo Giustiniani, uno dei più importanti mecenati di Caravaggio, il dipinto rappresenta la vittoria dell’amore sulle arti, amore vincitore raffigurato come un giovane Cupido completamente nudo e dotato di un paio di ali di aquila. Il modello che posò per l’opera fu Francesco Boneri detto Cecco del Caravaggio, il suo allievo preferito (e forse anche amante). Questo Cupido seicentesco del Merisi è anticonvenzionale e smaliziato con il suo sorriso accattivante e con le sue gambe aperte che paiono offrire la propria sessualità allo spettatore. L’amore vincitore tiene in mano alcune frecce ed ai suoi piedi troviamo i simboli delle arti e delle scienze sconfitte dall’Amore: armi, libri, un globo stellato, una squadra, spartiti e strumenti musicali, che si riferiscono alla musica ed all’astronomia, le due principali passioni del committente marchese Giustiniani.
L’anticonvenzionalità di quest’opera fortemente voluta dal Giustiniani che la mostrava solo ad ospiti selezionati, tenendola per il resto del tempo coperta da un drappo verde, ritenendo che la sua bellezza offuscasse il resto della collezione, attesta la grande apertura intellettuale di questo mecenate, uno degli uomini più colti della Roma del tempo.
All’Amor vincit omnia segue la Dormitio Virginis o Morte della Vergine anch’essa presentata nel film come un tableau-vivant. Il dipinto, ultima opera romana di Caravaggio, realizzato tra il 1604 ed il 1606 su commissione dell’avvocato Laerzio Cherubini per la sua cappella in Santa Maria della Scala in Trastevere, è stata sicuramente una delle tele più contestate tra quelle realizzate dall’artista.
All’interno di una stanza spoglia e misera, come lo era la casa del Merisi, ecco apparire sulla destra, un drappo rosso, così barocco, così terribilmente diverso dal contesto, che, come in una quinta teatrale, si apre a mo’ di sipario svelando il corpo morto della Vergine, gli apostoli e la Maddalena che la stanno piangendo. Ma siamo davvero sicuri che quel corpo vestito di rosso e non di nero come vorrebbe la tradizione, precariamente composto su uno spoglio catafalco sia quello della Madre di Dio? Ma guardate: essa ha il volto livido, il ventre gonfio, i piedi nudi, i capelli in disordine!
E quel braccio steso sul cuscino che toglie ogni dubbio sul rigor mortis del corpo. Può mai essere quella la Vergine Maria? Dov’è finito il corpo incorruttibile della Madre di Cristo, tanto da chiamare l’opera Dormitio Virginis, Dormitio il sonno e non la morte? Quel corpo parrebbe sia finito in quello di una prostituta trovata morta vicino al Tevere, non reclamata da nessuno e scelta invece dal Merisi: l’annegamento può forse spiegare il ventre gonfio… Eh sì perché come sosteneva l’autore, Cristo è venuto sulla terra per i poveri, gli indigenti: gli apostoli erano dei pescatori, la Maddalena una prostituta pentita, la Vergine una fanciulla di umili origini…Gente che conosceva bene la sofferenza. Perché dunque rappresentarli con i volti raffinati ed eleganti di chi non conosce il dolore? Come in tutta la produzione caravaggesca, anche qui la luce ha un ruolo fondamentale nell’evidenziare gli elementi più significativi della narrazione.
La scena, ambientata in un luogo di sconsolata povertà, ha un’intonazione cromatica molto scura che funge da sfondo ideale per la luce che irrompe obliquamente da sinistra da una fonte non visibile. Il fiotto di luce colpisce come in un flash i volti di alcuni degli apostoli, l’abito rosso della Vergine, il suo ventre gonfio e la testa riversa della Maddalena piangente, rendendo drammaticamente evidenti le espressioni dei volti, scivolando poi velocemente sui corpi per relegarli volontariamente nella penombra. Ovviamente quest’opera, priva di qualsiasi attributo mistico, a parte l’aureola dietro la testa della donna), suscitò un vero e proprio scandalo: il dipinto fu rifiutato dai Carmelitani Scalzi, tutt’oggi officianti della Chiesa di Santa Maria della Scala a Trastevere, in quanto considerato indecoroso ed irriverente.
Ma la tela trovò immediatamente un nuovo acquirente: il duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, che l’acquistò, su consiglio di Rubens che aveva immediatamente capito l’immane valore dell’opera. Successivamente il dipinto entrò a far parte, prima delle collezioni di Carlo I d’Inghilterra e poi di quella del re di Francia Luigi XIV. Oggi si trova al Louvre.
Con la sua straordinaria Dormitio Virginis Michelangelo Merisi da Caravaggio sembra volerci ricordare che Dio ha attuato i suoi piani in questo mondo coinvolgendo persone normali, cozzando con i loro umanissimi sentimenti. L’artista vuole dirci che la salvezza è reale nella stessa misura in cui lo sono il dolore e la morte, dolore e morte che anche la Vergine, Cristo e gli Apostoli hanno conosciuto.
La fuga di Caravaggio per scampare alla condanna a morte che gli pende sulla testa prosegue nel 1608 a Malta con il fermo obiettivo di diventare Cavaliere dell’Ordine di Gerusalemme, cosa che gli garantirebbe l’immunità. Ed è proprio per quest’Ordine che l’artista realizza una delle sue tele più imponenti (mt. 3,61 x mt. 5,20): la Decollazione di San Giovanni Battista conservata nella Cattedrale di San Giovanni alla Valletta. Questo dipinto, oltre ad essere dal punto di vista dimensionale l’opera più grande mai realizzata da Caravaggio, risulta anche essere l’unica opera firmata dall’artista.
La scena ha luogo in un ambiente che parrebbe essere una prigione. Sulla sinistra troviamo quattro personaggi, di cui uno è il carnefice che ha appena ferito mortalmente San Giovanni Battista. Questo boia con la mano sinistra tiene ferma la testa del santo e con la destra stringe il pugnale corto, detto la misericordia, con il quale si appresta a decollare il martire. Intorno al carnefice ci sono il carceriere e due donne: la più vecchia che con le mani stringe la testa per l’orrore della visone e la più giovane, probabilmente la stessa Salomè che regge il piatto d’oro sul quale verrà messa la testa del santo. Sulla destra ci sono due carcerati che da dietro le sbarre assistono alla scena. In questo dipinto Caravaggio, a differenza di altre opere, inverte il rapporto figure-spazio a favore di quest’ultimo, creando ampie zone di vuoto e mitigando i contrasti luministici. L’effetto finale è quello di immergere la scena nella penombra. Altrettanto inedita è la rappresentazione dell’episodio evangelico. Caravaggio sceglie infatti di rappresentare il momento immediatamente precedente la decapitazione del santo, al quale si sente in qualche modo legato dallo stesso destino: l’attesa della morte.
A rimarcare il dramma in atto ecco arrivare la potenza della luce caravaggesca, definita dal grande studioso Maurizio Calvesi “sobbalzante” in grado di rievocare “l’ultimo palpito di vita nel corpo del martire che è caduto bocconi, con le mani legate dietro la schiena”.
L’opera che chiude questo racconto della vita artistica di Caravaggio è Davide con la testa di Golia, appartenente al secondo periodo napoletano. Con tutta probabilità il soggetto dell’opera fu scelto dallo stesso Caravaggio che poi inviò il dipinto al Cardinale Scipione Borghese come mezzo per supportare la sua richiesta di grazia a papa Paolo V. Protagonista del quadro è il giovane David, eroe d’Israele, vittorioso sul gigante Golia.
Il ragazzo affiora dalle tenebre reggendo con la mano sinistra la testa di Golia. Con la destra tiene, invece, una spada, sulla cui lama compaiono delle iniziali di difficile lettura: H-AS OS, la sigla del motto “Humilias Occidit Superbiam”, l’umiltà uccise la superbia.
L’eroe biblico incarna infatti un modello di virtù. In questa tela sembra quasi che David provi nei confronti di Golia un mix di disgusto e pietà, quel Golia che ha il volto di Caravaggio: un volto stanco, provato, spaventato come ci dicono la fronte corrugata, la bocca spalancata per l’ultimo respiro, lo sguardo sofferente: Eh sì quel Golia è esattamente l’autoritratto del Merisi, non solo dal punto di vista somatico, ma anche e soprattutto da quello dell’interiorità. Quel volto è insieme paura della morte ma anche inconscio desiderio della stessa come liberazione definitiva. Ma secondo molti studiosi pare Caravaggio abbia voluto realizzare il proprio autoritratto anche nel volto del David.
Ed ecco a voi il David-Caravaggio, non ancora raggiunto dal peccato, che taglia la testa al Golia-Caravaggio ormai peccatore, colpevole di crimini violenti. E come sempre la luce è determinante nel conferire quel senso di pathos all’atmosfera della narrazione, mettendo violentemente in risalto le parti dei personaggi funzionali al racconto.
La lama di luce artificiale colpisce la parte destra del volto del ragazzo, il suo torace nudo, il braccio sinistro e la mano che espone la testa di Golia.
Al contrario il volto del gigante è scuro, livido, illuminato quanto basta a farne identificare la fisionomia. In basso a sinistra un lampo di luce rivela la lama della spada.
Ma il dono che Caravaggio volle fare a Papa Paolo V fu efficace solo in parte: la grazia fu accordata ma Caravaggio, quasi al termine del viaggio verso Roma, morì sulla spiaggia di Porto Ercole in circostanze mai chiarite.
Il Caravaggio presentato da Michele Placido è un uomo assillato dal desiderio di raccontare attraverso le sue opere una visione religiosa totalmente nuova e rivoluzionaria poiché l’uomo e la donna di strada assurgono a Santi e Madonne. E qui lascio la parola al critico cinematografico Gianni Canova:
Immerso nel buio della Controriforma, illuminato quasi solo con candele e luci naturali, cupo e opaco nei colori, il film emana una potenza visiva davvero affascinante: ogni inquadratura sembra un tableau vivant, Placido e il direttore della fotografia Michele d’Attanasio (Freaks Out, Ti mangio il cuore) ricostruiscono le ombre e le luci dei grandi capolavori caravaggeschi e li animano, ma poi li mescolano anche con echi di certi fiamminghi, di un Bosch o di un Bruegel, con quell’umanità di miserabili, di puttane e di morti di fame che Caravaggio assume come modelli per i suoi quadri, trasfigurandoli di volta in volta in vergini, martiri o santi. Scandalo: per la chiesa dell’epoca è blasfemo dare alla Vergine il volto di una puttana. Ma Caravaggio lo fa. Porta nelle chiese e nelle cattedrali le facce e le storie dei poveri cristi, di chi vive ai margini di chi è respinto e ripudiato dal consesso civile. Per questo la Chiesa controriformista mette sulle sue tracce un inquisitore (L’Ombra, appunto: l’unico personaggio inventato del film) che indaga sulla vita dell’artista e interroga quelli che hanno avuto contatti con lui per confermare o annullare la condanna a morte (per decapitazione) che pende su Caravaggio con l’accusa di aver ucciso un uomo”.
La serata vola, ma sono davvero stata insieme al grande Michelangelo Merisi? Sì, credo proprio di sì, perché quelle luci, quei colori, quei volti sono rimasti dentro di me.
E come sempre l’Arte si riconferma essere un ineguagliabile balsamo per l’anima.

C’è stata l’arte prima lui e l’arte dopo di lui, e non sono la stessa cosa
(Robert Hughes)