Domenica 15 gennaio 2023, San Mauro Abate
IL PADRE DANTE, IL MINISTRO SANGIULIANO, LO SCRITTORE RABONI, LA POLITICA, LA CULTURA
LA POLITICA ITALIANA ODIERNA E LE CATEGORIE DEL POLITICO
di Franco Cardini
Evviva la faccia, finalmente! A voler essere ottimisti ad ogni costo – nonostante la guerra in corso, ribattezzata continuamente dai media con fantasiosi eufemismi, e nonostante il ritorno dell’epidemia e il minaccioso riaffacciarsi di recessione e inflazione (della guerra abituali compagne) – si dovrebbe comunque esser grati al neoministro della cultura Gennaro Sangiuliano per aver finalmente avuto il coraggio di ricondurre in primo piano il discorso sul tanto opportuno e necessario quanto ohimè negletto rapporto fra politica e cultura.
D’altronde, la cultura non è mai stata protagonista del dibattito culturale contemporaneo, né in Italia né altrove: al massimo, alcuni partiti hanno sviluppato in certi periodi un qualche apparato culturale, una “politica culturale” con l’obiettivo del consenso. Il regime fascista, nonché soprattutto alcune aree “movimentistiche” al suo interno, furono maestri in questo senso: ma il discorso sarebbe lungo. Oggi, la cultura ha un peso modesto per non dire irrilevante nella società: e la politica si adegua a tale trend.
Il mio caro amico Gennaro Sangiuliano, nelle sue esternazioni televisive del 14 scorso, si è dimostrato molto solidale con la linea politica di Giorgia Meloni: la quale è a sua volta sia pur lontana erede – sia detto senza polemica: al contrario! – di un’area del Movimento Sociale nella quale (e ne sono stato testimone diretto fra gli Anni Cinquanta e Sessanta) si faceva molta più cultura, e di molto miglior qualità, di quanto non apparisse all’esterno data la sua emarginazione. È evidente che l’attuale premier ha nelle sue intenzioni una decisa riqualificazione del livello culturale del suo partito. Glielo auguro, per quanto sia legittimo manifestare al riguardo un certo scetticismo.
Con tutto ciò, l’insistere oggi sul binomio politica-cultura, e collegare la cultura alla Destra odierna, appare comunque problematico: specie se s’intende insistere sui parametri “nazionali”. D’altronde, già alcuni anni or sono Massimo Cacciari e qualcun altro fecero scalpore insistendo sul fatto che la grande cultura europea otto-novecentesca fosse stata “di destra”: il che era e resta verissimo, come peraltro resta vero il fatto che il fascismo, almeno quello italiano, si sia proposto come una forza tendenzialmente piuttosto “di sinistra”: e qui aveva ragione De Felice.
Ciò non toglie che Sangiuliano, parlando di Dante come “padre della cultura di destra” in Italia, si dimostri più meloniano della Meloni stessa: e anticipi pericolosamente i tempi, cosa che egli del resto, data la sua ottima preparazione anche storica, sa benissimo. Non si può parlare né di “destra” né “di sinistra” se non partendo dalla situazione della borghesia europea sette-ottocentesca e dai grandi temi della costruzione della nazione moderna e dalla nascita della questione sociale. Al di là di tali scenari, al massimo si potrebbe impiantare un discorso metapolitico: ma si dovrebbe essere arcipapiniani, o straevoliani, per riproporre i parametri di una “destra cosmica”.
Sangiuliano, evidentemente, non ha alcuna intenzione di giungere a tanto. Ma allora il suo discorso su Dante resta singolarmente astratto e contraddittorio. Il pensiero politico dantesco, in termini trattatistici, è valutabile principalmente attraverso un trattato latino, il De Monarchia, e uno – programmaticamente divulgativo, e per giunta incompiuto – in lingua volgare, il Convivio. Da tali due trattati (il resto della politica dantesca è impegno “di parte” nella politica comunale, e solo con molta fantasia si potrebbe definire l’area “guelfo-bianco/ghibellina” come “di destra”) si deduce che il pensiero politico dantesco si radica profondamente nelle tesi dell’impero “universalistico” di diritto giustinianeo (contrario pertanto alla nascente politica statuale-assolutistica quale la riscontriamo ad esempio nei giuristi “regalisti” di Filippo IV di Francia) e nel concetto di publicum bonum quale emerge dalla trattatistica aristotelico-tomistica. Invano si cercherebbero nell’Alighieri i presupposti “laicisti” presenti ad esempio nell’averroistico Defensor Pacis di Marsilio da Padova, del resto posteriore di diversi anni: mentre al publicum bonum di Tommaso d’Aquino ben si collega – e non contraddittoriamente – l’alto elogio della Povertà come si legge a proposito di Francesco d’Assisi nell’XI del Paradiso. Se una sfumatura di “destra” c’è, in Dante, essa non ha nulla di filoliberista: anzi, i toni danteschi riguardo la polemica contro l’usura ricordano semmai da vicino (et pour cause) quelli usati da Ezra Pound. Quanto al concetto di persona, anch’esso dantesco in quanto tomista, ne va sottolineata la dimensione profondamente “sociale”: il che non ha rapporti con la destra, a meno di non eliminare da essa la componente liberal-liberistica tesa all’“individuo assoluto”.
Il che ci condurrebbe d’altronde, e ne siamo consapevoli, a un’indicazione certo “di destra”: ma di una “destra” ben altra da quella verso la quale la Weltanschauung dei Fratelli d’Italia – neonazionalista-“sovranista” ma paradossalmente anche iperatlantista, erede molto tiepida della “destra sociale” e del suo impegno – sembra fino ad oggi tendere. Se poi vogliamo cogliere residui o sottintesi “giustizialisti” ante litteram nella preistoria di alcuni aspetti di un pensiero che ha optato nel tempo per la destra politica, può anche esser vero. Ma allora ci poniamo in un’ottica che davvero potrebbe portar lontano. Era “di destra” Balzac? Era “di sinistra” Dostoevskij?
Allora: siete soddisfatti? In caso vi manchi ancora qualcosa, ecco che al fin della licenza – come diceva Cyrano de Bergerac – io tocco. E tocco duro. Beccatevi questo “a fondo” nientemeno che di Giovanni Raboni, e non venitemi a dire che era di destra anche lui. È roba di vent’anni fa, ma sembra scritta apposta stanotte per noi.
I GRANDI SCRITTORI? TUTTI DI DESTRA
di Giovanni Raboni
Se c’è qualcosa sui cui destra e sinistra sembrano essere, da un po’ di tempo, sorprendentemente d’accordo è che in Italia non esiste una cultura di destra degna di questo nome: con il corollario o, invece, per il motivo che i cosiddetti intellettuali – categoria di cui fanno naturalmente parte, fra gli altri, i romanzieri, i poeti, i drammaturghi, insomma gli scrittori – sono “tutti di sinistra”. Si tratta di una convinzione talmente diffusa e soprattutto, si direbbe, così profondamente radicata, da trasformarsi nell’immaginario collettivo in una sorta di luogo comune metastorico: come, insomma, se non soltanto adesso e qui da noi, ma ovunque e da sempre vi fosse un nesso consolidato e in qualche modo fatale fra l’essere scrittore e l’essere “di sinistra”.
E una delle conseguenze di questa credenza o diceria è l’atteggiamento di incomprensione se non di rifiuto, di estraneità se non di malanimo, di diffidenza se non di disprezzo nei confronti dell’intera categoria, ravvisabile in larghi strati dell’opinione pubblica piccolo borghese, a cominciare da alcuni dei più pittoreschi rappresentanti dell’attuale maggioranza politica. Peggio per loro, si potrebbe commentare; ma anche, a pensarci bene, peggio per noi.
Ma c’è anche, forse, un altro modo di porsi di fronte alla questione, ed è quello di andare e vedere e il luogo comune che ne costituisce il fondamento non sia, per conto suo, almeno in parte infondato. È quanto, personalmente, mi sono proposto di fare, sforzandomi in primo luogo di ampliare decisamente la prospettiva, cioè di spostare l’attenzione dell’angusta e, ahimè, molto significativa attualità italiana a quanto è successo durante gli ultimi cento anni in ambito mondiale.
E il risultato è quello che mi permetto qui di sottoporre alla riflessione dei lettori (di destra e di sinistra) eventualmente interessati all’argomento. Per dirla nel più diretto e disadorno e a prima vista (ma solo a prima vista) provocatorio dei modi, la verità dei fatti è la seguente: che non pochi, anzi molti, anzi moltissimi tra i protagonisti o quantomeno tra le figure di maggior rilievo della letteratura del Novecento appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra – dalla più illuminata alla più retriva, dalla più conservatrice alla più eversiva, dalla più perbenistica alla più canagliesca – che si sono intrecciate o contrastate o sono semplicemente coesistite nel corso del ventesimo secolo.
Per chi non volesse (e farebbe, sia ben chiaro, benissimo) credermi sulla parola, ecco un po’ di nomi, messi in fila secondo il più neutrale dei criteri, quello alfabetico, e mescolando (un po’ per non complicarmi la vita e un po’ perché si farebbe altrimenti, ai fini di quanto sto cercando di dire, più confusione che altro) ogni tipo di destra possibile: Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Croce, D’Annunzio, Drieu La Rochelle, T.S. Eliot, E.M. Forster, C.E. Gadda, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Jünger, Landolfi, Thomas Mann, Marinetti, Mauriac, Maurras, Montale, Montherlant, Nabokov, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Pound, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, W.B. Yeats…
E non è finita; a parte, per un minimo di rispetto alla peculiarità del loro tragitto, ho tenuto infatti i transfughi dalla sinistra, quelli che sono stati folgorati, a un certo punto della vita, dalla rivelazione dei disastri e dei crimini del comunismo storico e che per questo hanno finito con l’attestarsi su posizioni sostanzialmente liberali: Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Malraux, Orwell, Silone, Vittorini… E a parte ancora, perché è impossibile immaginare quali sarebbero state le loro convinzioni e vicende politiche se il destino li avesse fatti vivere altrove, i grandi perseguitati da Stalin: Babel’, Brodskij, Bulgakov, Cvetaeva, Mandel’stam, Pasternak, Solzenicyn… Il tutto, s’intende, salvo (probabilmente) omissioni.
Ma ce n’è già abbastanza, mi sembra, per mettere seriamente in discussione la credibilità della famosa equazione dalla quale siamo partiti: per il sollievo di chi detesta o teme la sinistra ma anche, per motivi magari un po’ più complessi, per il conforto di chi pensa che essere di sinistra sia una scelta etica e non una questione di appartenenza automatica o, peggio, una specie di privilegio di casta. Ma ancora più importante, a mio avviso, sarebbe prendere spunto da questo sommario censimento per cercare di liberarsi da un altro ancora più insidioso pregiudizio, quello secondo il quale una persona di sinistra che scrive libri è ipso facto uno scrittore di sinistra e una persona di destra che scrive libri è ipso facto uno scrittore di destra. Non è così: il senso di un’opera letteraria decidendosi e manifestandosi altrove, su un piano totalmente diverso da quello delle scelte di carattere ideologico e dei comportamenti di carattere politico. Tengo a precisare che non intendo affatto, con questo, pronunciarmi a favore dell’irresponsabilità civile dello scrittore (e, più in generale, dell’artista); al contrario, sono convinto che uno scrittore (un artista) debba rispondere delle idee che professa e degli atti che compie esattamente come ne risponde qualsiasi altro cittadino. Quello che voglio dire è semplicemente che le due sfere non coincidono necessariamente, anzi che molto spesso (per non dire il più delle volte) non coincidono; e che, per esempio, si può essere rivoluzionari nella scrittura e conservatori, o addirittura reazionari, in politica, e viceversa.
E forse, spingendosi un po’ più in là, si potrebbe persino ipotizzare l’esistenza di un oscuro, paradossale legame fra progressismo politico e conservatorismo stilistico da una parte e fra passione sperimentale e sfiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’altra; le inquietanti vicende di due dei massimi innovatori (nel campo, rispettivamente, della prosa e della poesia) che la letteratura del Novecento possa vantare, il collaborazionista e antisemita Céline e il filomussoliniano Pound, sembrano fornire, in questo senso, indizi non facilmente accantonabili.
Ma lasciamo perdere; sarei già contento, per ora, di aver insinuato qualche dubbio sia nell’animo di chi, a destra, vede in ogni scrittore un avversario politico, sia in quello di chi, da sinistra, scambia non meno ingenuamente ogni scrittore per un compagno di fede. Moltissimi protagonisti della letteratura del Novecento appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra.
NEL MONDO Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Drieu La Rochelle, T.S. Eliot, E.M. Forster, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Jünger, Thomas Mann, Mauriac, Maurras, Montherlant, Nabokov, Pound, W.B. Yeats.
IN ITALIA Croce, D’Annunzio, Carlo Emilio Gadda, Landolfi, Marinetti, Montale, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa.
TRANSFUGHI A parte, dai nomi sopra indicati, vanno ricordati i “transfughi dalla sinistra”: Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Malraux, Orwell. E in Italia: Silone, Vittorini.
PERSEGUITATI Sono i grandi perseguitati da Stalin, impossibile dire quali sarebbero state le loro convinzioni e vicende politiche se il destino li avesse fatti vivere altrove: Babel’, Brodskij, Bulgakov, Cvetaeva, Mandel’stam, Pasternak, Solzenicyn.
(Corriere della Sera, 27 marzo 2002)