Domenica 29 gennaio 2023, San Costanzo
Il 27 GENNAIO: UNA “FESTA SACRA” POSTMODERNA
QUESTIONI DI MEMORIA
di Pietro Andrea Annicelli
La Giornata della Memoria avrebbe richiesto un corretto esercizio del dovere di ricordare. Abbiamo invece assistito al solito, costante uso strumentale della storia neppure tanto mascherato dall’inesorabile retorica.
Escludere i russi dalla cerimonia in ricordo della liberazione di Auschwitz è come omettere Garibaldi da una ricostruzione storica del Risorgimento: non si può e non si deve a prescindere da quello che si pensa di loro. Né ha reso onore alle vittime della Shoah, rappresentate da un gruppo di sopravvissuti, la maldestra reductio ad Hitlerum di Vladimir Putin fatta da Piotr Mateusz Andrzej Cywinski, storico e direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau: “I distretti di Wola, Zamojszczyzna, Oradour, Lidice ora portano nomi diversi: Bucha, Irpin, Hostomel, Mariupol e Donietsk. Simile megalomania malata, simile brama di potere. E miti quasi identici dell’eccezionalità, della grandezza, del primato… ma scritti in russo”.
In realtà proprio Cywinski, esperto delle vicende dei confini orientali della Polonia, quella vasta area tra la Lituania, l’Ucraina e la Bielorussia che un tempo era territorio polacco e che i polacchi chiamano Kresy, avrebbe dovuto sapere benissimo che le efferatezze dell’attuale guerra russo-ucraina, per quanto la loro gravità non sia probabilmente ancora evidente, non possono essere neanche lontanamente paragonate alle atrocità della guerra di sterminio di ottant’anni fa. Né Putin, che ha ben altre responsabilità, ha tratti affini al nazismo o al comunismo sovietico, come pretenderebbe certa vulgata nostalgica che, per l’invasione dell’Ucraina, evoca quelle dell’Ungheria e della Cecoslovacchia operando un’analoga reductio ad communistarum.
L’autocrate russo ricorda un po’, anche nella rigidità militare e nel rapporto stretto con la Chiesa ortodossa, Francisco Franco, il dittatore che governò la Spagna dal 1939 al 1975 determinando la lenta transizione dalla guerra civile all’attuale monarchia costituzionale. Putin avrebbe forse potuto fare altrettanto se ci fosse stato un atteggiamento occidentale non aggressivo verso la Russia. O forse i russi, non dovendo temere minacce alla loro integrità territoriale, si sarebbero liberati di Putin in tempi relativamente brevi. Alimentare ed armare il nazionalismo ucraino estendendo la Nato fino ai confini della Russia, con un’Europa supina all’aggressività polacca e baltica, è stata invece la scelta peggiore: a meno di non ritenere che l’obiettivo degli americani e degli inglesi, insieme al ridimensionamento russo, non fosse ricondurre l’Europa a una posizione subalterna, primi fra tutti quei Paesi capaci d’una relativa indipendenza come la Germania e la Francia.
Nella logica di demonizzazione della Russia si è arrivati pure a sostenere che l’esclusione dei russi dalla commemorazione della liberazione di Auschwitz sarebbe stata legittima perché il reparto d’assalto dell’Armata Rossa che vi entrò il 27 gennaio 1945 “era composto al novanta per cento da ucraini e per il restante dieci per cento da bielorussi”. L’idea, sottintesa dall’Istituto “Gino Germani” di Scienze Sociali e Studi Strategici, porterebbe quindi a concludere, almeno ai meno accorti, che l’Ucraina e non la Russia avrebbe rivelato al mondo l’abominio della Shoah impedendo ai tedeschi, come stavano cercando di fare, di nascondere la realtà tremenda dei loro crimini. Il ragionamento non tiene per due evidenti ragioni: la prima è che nel ’45 l’Ucraina era una repubblica sovietica, come la Russia, nell’Unione Socialista delle Repubbliche Sovietiche; la seconda è che l’Armata Rossa non era l’esercito ucraino ma appunto quello sovietico. Incidentalmente era russo, si trattava del generale Ivan Stepanovič Konev, il comandante del maggiore Anatoly Pavlovich Shapiro, a sua volta capo dei soldati che entrarono per primi ad Auschwitz ignari dell’orrore che vi avrebbero trovato.
La forzatura dell’Istituto “Gino Germani” si sarebbe resa necessaria, secondo alcuni, per evitare di portare acqua alla narrazione di Putin che vede nella Grande Guerra Patriottica, come i russi chiamano il secondo conflitto mondiale, la ragione per denazificare l’Ucraina. A parte l’eccesso irricevibile della propaganda russa, che torce a suo uso e consumo verità come la partecipazione di ucraini collaborazionisti dei tedeschi, tra cui l’eroe nazionale Stepan Bandera, alle atrocità sul fronte sovietico tra cui lo sterminio di oltre un milione e mezzo di ebrei, c’è un doveroso riconoscimento che rende imprescindibile, anche di questi tempi, dare ad ognuno il suo. È stata l’ostinata tenacia fino alla vittoria dei sovietici a Stalingrado, forse il più sconvolgente teatro di guerra del secondo conflitto mondiale, tra il luglio 1942 e il febbraio ’43, a impedire che l’Europa continentale fosse dominata dal Terzo Reich per i decenni a venire. Se i sovietici non avessero resistito e poi contrattaccato fino a Berlino al costo di oltre venti milioni di morti, costringendo Hitler a dissanguarsi sacrificando sul fronte orientale oltre il settanta per cento dei caduti tedeschi in tutta la guerra, gli americani non avrebbero mai mandato le loro truppe in Europa aprendo il fronte meridionale in Italia e quello occidentale in Normandia.
Né Putin, né Zelensky, né Cywinski, né l’Istituto “Gino Germani” possono stravolgere questa realtà per i loro scopi. Va da sé che in quegli oltre venti milioni di morti, e nell’Armata Rossa dell’Unione Sovietica che liberò Auschwitz, ci siano stati russi, ucraini, bielorussi e altri popoli dell’impero sovietico.