Domenica 5 febbraio 2023, Sant’Agata
IN MEMORIAM
FRANCO CARDINI
IN RICORDO DI MARIA MERCEDES CARDINI
Maria Mercedes. Un nome da principessa. Invece era una donnina non troppo alta, con un faccino rotondo e una pelle bellissima che rimase tale sempre, anche nei suoi ultimi istanti di vita. “La sóra Mercede”, o “Mercèdesse”, come la chiamavano là tra Porta Romana e San Frediano. La mamma era nata nella famiglia Calamai il 5 febbraio del 1906: oggi – ma sarebbe stato troppo chiedere alla Provvidenza – avrebbe pertanto la bellezza di 117 anni. Invece gliene spettarono molti di meno. Morì nel “nostro” Ospedale di Santa Maria Nuova, quello fondato dal padre della Beatrice di Dante, il 4 aprile del 1980, poco meno di tre mesi dopo la scomparsa di mio padre – il suo amatissimo Gino – che se n’era andato davvero precocemente, ad appena 65 anni: era infatti del settembre 1914, sensibilmente più giovane (8 anni) della mamma. A quei tempi era un po’ strano. D’altronde, al cuore non si comanda. E da giovane la mamma doveva essere davvero molto carina.
Ho un sacco di rimorsi, nei confronti della mamma. A volte mi rimprovero di non averle voluto abbastanza bene, non certo comunque quanto ne avrebbe meritato. Non è vero, ovviamente: certo però spesso facevamo scintille. La sóra Mercede, ad onta del suo faccino ridente e della sua pelle di seta, era una donna straordinariamente energica, le sfuriate della quale erano temibili; metteva in riga e faceva filare tutti: anche il nonno anarchico e brontolone, anche lo zio ex-squadrista e Sciarpa Littorio. Con me, poi, era sveltissima di mano. Vero è tuttavia che io ero un ragazzino difficile: e, almeno nei primi tre lustri della mia vita, del tutto privo di voglia di studiare.
D’altronde, anche in ciò le somigliavo. La Mercede di scuola non aveva mai voluto saperne. Ai suoi tempi avrebbe dovuto prendere almeno la licenza elementare, ma alla terza classe mollò tutto e non ci fu verso d’indurla a più disciplinati consigli. È vero che a casa mia non aveva studiato granché nessuno: il nonno era addirittura analfabeta, e da buon anarchico dei vecchi tempi se ne vantava (la scrittura, invenzione dei preti e del governo per imbrigliare il popolo!). Gli altri membri della famiglia, però, erano diversi: tutti gli zii andavano matti per la musica; le canzonette certo, ma anche le operette e l’opera lirica. Il babbo, ch’era anche un violinista e un pittore dilettante di buon livello, era un serio competente di musica sinfonica, soprattutto beethoveniana: una passione che da lui ho ereditato.
Ma aveva davvero tante qualità, la mamma. Da giovane era stata una brava sarta e sapeva cucire in modo straordinario; era una cuoca eccellente; e sapeva sul serio voler bene. Perfino a me, ch’ero un ragazzo scontroso e insofferente di còccole. Mi difendeva sempre dalle ire del babbo, scontento per il mio rendimento scolastico; e credo solidarizzasse in ciò con la mia scarsa simpatìa per la scuola. Poi d’un tratto o quasi, un po’ dopo i quindici anni, mi trasformai misteriosamente in un maledetto secchione. Credo fosse soprattutto opera di un mio straordinario professore di greco al liceo, il cesenate Alieto Pieri. E allora, con sorpresa di tutti, anche la mamma si convertì: e sventolava con orgoglio i meriti di quel suo figlio straordinario (che poi straordinario non era per nulla: ma questo lei non l’ha mai saputo).
E infine, la sua vita esemplare: passata interamente nel lavoro e nel servizio alla famiglia, specie ai vecchi quando si ammalavano perché ai miei tempi, negli Anni Quaranta-Cinquanta, finché si poteva i vecchi si tenevano in casa e là si facevano morire.
A lei, non toccò nemmeno questa grazia. Del resto, almeno che io ricordi, l’ho quasi sempre vista sofferente. Quando era sulla cinquantina, e io appena quindicenne (avere un figlio a 35 anni per una donna era allora un bel rischio), si ammalò di una cosa che con le capacità diagnostiche del tempo fu presa per artrosi. Era viceversa una forma dolorosissima di osteoporosi, che la mamma si è tirata dietro per un quarto di secolo e che non solo la ridusse progressivamente all’immobilità, ma che la fece soffrire atrocemente tutti i giorni e, soprattutto, ogni notte. Ricordo ancora il suo lamentarsi nelle nottate più dure. Ma i medici non cessavano di lodarne la fibra, assicurando che si trattava sul serio di sofferenze tremende.
Anche negli ultimissimi giorni, quando era in ospedale, avrei dovuto esserle più vicino: vero è che avevo perduto mio padre poche settimane prima ed ero anch’io provato. Ma ebbi il conforto di vegliarla quasi continuamente negli ultimi giorni, quando ormai purtroppo aveva quasi del tutto perduto coscienza. Eppure, a volte, riacquistava misteriosamente lucidità e allora parlavamo e parlavamo.
I miei vecchi mi hanno insegnato che, quando uno soffre, ciò dipende dal fatto che il Signore “gli fa l’onore di associarlo alle Sue sante piaghe”. Mi sono sempre ricordato di ciò e ancora me ne ricordo, quando penso a lei e mi pento per non averle tributato abbastanza rispetto quando ero diventato un giovane fiero di quelle quattro miserabili cose che credevo di sapere e “disprezzavo”, che Dio mi perdoni, il suo “disinteresse” e la sua “insensibilità” per l’arte e per la musica. Ora, da vecchio, mi accorgo che le cose più serie, quelle che davvero contano nella vita, me le ha insegnate lei.