Domenica 5 febbraio 2023, Sant’Agata
IN MEMORIAM
AMERINO GRIFFINI
IN RICORDO DI MASSIMO MARLETTA
Caro Massimo, non ce l’ho fatta a dormire la notte scorsa, il dolore e la memoria che vagava tra i mille ricordi di spezzoni di vita comunitaria, infine mi hanno costretto ad alzarmi dal letto e a scrivere qualcosa di te, di noi.
L’ho saputo ieri notte, quando sono salito nella mia stanzetta a spegnere il computer e a vedere le ultime notizie. L’ho saputo allora, che non ci saremmo più rivisti, in un modo che non avrei potuto immaginare; non da uno degli amici da una vita, ma da una amica comune, una cara amica, di Padova (punto d’incontro tra i tuoi giri goliardici di clerico vagante e i miei ormai stanziali di Facebook).
Avremmo dovuto incontrarci in questi giorni, come ci eravamo detti prima di Natale quando ci sentimmo al telefono per farci gli auguri, tu dovevi partire, non ricordo se per la Germania o per St. Moritz, al tuo ritorno ci saremmo rivisti all’Impruneta, luogo dell’ultima nostra foto scattata nell’autunno scorso. Lo sapevo che stavi male, me lo dicesti senza lamentarti (non è da noi), gli occhi, i reni… e mentre fumavi le tue eterne Gauloises: “Ho vissuto, va bene così, non ci siamo fatti mancare niente, tra canti e vino”.
E mentre snocciolavamo come i semi di un rosario, i nostri ricordi, i nostri amici, le nostre memorie, arrivò una telefonata di Sandro, da Gleneg, Australia.
Lo sapevamo che anche lui era alla fine della corsa. Quella corsa iniziata a Firenze, tra piazza Dalmazia (dove sono nato io) e il Romito; proseguita a Siena per studiare medicina e poi in Africa, medico dei lebbrosi, e infine il lungo periodo a Capo Verde, prima di stabilirsi a Ginevra, all’Organizzazione Mondiale della Sanità, e al bar a disegnare quelle quotidiane fantastiche vignette dei passanti che poi riversava nella sua bacheca in Facebook.
In quella telefonata Sandro mi chiese di mandargli un libro di Franco Cardini sulla questione che ci sta a cuore, quella della nostra amata Russia che cerca di sottrarsi allo strangolamento imperialistico USA-NATO. Libro che non ha fatto in tempo a leggere; è arrivato in Australia troppo tardi.
Ma con te, caro Massimo, quel giorno abbiamo davvero ricordato un po’ tutti, quelli con i quali sono più in contatto io e quelli più vicini a te: come sta l’architetto Vito che è nella sua terra al Sud? E Manrico che fa la guida alpina in Tirolo? E Pepè che forse è a Parigi dalla figlia. E Maurizio fa ancora il regista?
E il ricordo è andato anche a quelli che non ci sono più, come Patrizio; qualche anno fa ci vedemmo con lui, noi tre, nell’ultima unica bettola non per turisti di San Frediano, dove si va ancora a ribollita, fagioli, spezzatino e a un vinaccio indigeribile. Son finiti i tempi di Nello, dell’Armida e della Cantina Capponi, ormai c’è rimasto solo Sabatino sotto Porta San Frediano.
Già, le cene, quelle dell’Armata che da un po’ si fanno solo a casa di Francesco, l’unico che sta ancora a Firenze; quelle per le quali ci si sintonizzava prima, tu ed io, e che per problemi di lontananza e di vista (scarsa), noi si finiva con l’andare di rado e si cercava di convincere gli altri a farle di giorno, pranzi, non cene.
E stanotte, mi sono tornati alla mente tanti momenti di vita.
E le tue canzoni che abbiamo cantato assieme tante volte, quelle scritte e musicate da te (“Guardo migliaia di occhi vuoti, falsi sorrisi senza luce, larve di un popolo che fu, che sembran dire: non esistiamo più…”).
In fondo i canterini del gruppo eravamo noi; ti ricordi di quando “Lello” ci propose di andare a Roma a metter su un Cabaret? Quante cazzate.
E i canti attorno al fuoco, la chitarra era sempre, solo, la tua.
E il resto? Quella volta che ci perdemmo nella nebbia in montagna, portando un bidone del latte preso dai pastori e portato a spalla su un bastone? E quella volta che facemmo il bagno in una cascata, ancora in montagna, con l’acqua gelida, nudi come bachi.
Venni a casa tua a presentarti il mio ultimo amore, fosti il primo tra tutti gli amici, quella che è mia moglie da più di quarant’anni.
E quando venivo a trovarti nel tuo studio di avvocato. Mi rimaneva comodo visto che era proprio davanti alla casa dei miei suoceri. Pratiche non ne avevi molte da smaltire e si stava delle ore a chiacchiera.
E quello era un posto storico per noi; nel cuore di Firenze, a cento metri da dove c’era stata la nostra sede, la roccaforte della nostra militanza, non lontana dal vinaino dell’Arco di San Piero; che non c’è più, come non c’è più il venditore di roventini, forse vietati da leggi igieniche assurde. E pensare che adesso ci pubblicizzano le farine di blatte.
Già, ma lì vicino c’erano anche i nostri avversari. Ma erano più loro a vederci come tali, perché erano loro che scattavano le foto a quelli che uscivano dalla nostra sede e poi scappavano, fu loro l’accoltellamento di uno dei nostri ragazzini, le bastonate che mi sono preso in testa, il tentato incendio della sede… Chissà che fine hanno fatto quelli? Certo che lo so, qualcuno è diventato famoso, una di loro per un po’ è stata anche sposata con uno dei nostri (ed è mia amica). In fondo eravamo i ragazzi della via Paal; ma noi non li odiavamo.
E allora mi sono tornate in mente alcune strofe di un’altra delle tue canzoni:
“Che strano sognare / sognare a colori
le gesta, i guerrieri, la morte, gli amori
la fede, le spade, l’ebbrezza, il rimpianto
ed ogni colore il ricordo di un canto.
Mi lasci parlare / di un tempo passato
di quando potevi finire ammazzato
per un pugno chiuso, un segno di croce
per un braccio alzato o il timbro di voce.
Per questo, mi creda / non posso far niente
non posso far finta di amare la gente
che prega per moda, che uccide per noia
che vive per sbaglio, in attesa che muoia
e allora…
È meglio sognare / di folli e di Armate
di santi ribelli, di gnomi e di fate
e quindi la prego, con tutta la scorta
spegnete la luce… e chiudete la porta!”
Eccoli lì, presenti nella mia mente, i nostri fratelli dell’Armata Brancaleone.
Quelli con i quali si cantava: “… siamo pronti a morire a vent’anni…”; che poi, con il passare del tempo, dovevamo periodicamente aggiornare “… siamo pronti… a trent’anni”, e ultimamente eravamo costretti a dire “… a tant’anni…”. La metrica comunque era salva.
Ma quei canti, senza di te non ci saranno più. Almeno io, mi dimetto; non ha più senso cantare.
Basta, fine del gioco che era iniziato appollaiati sugli olivi della collina di Monteripaldi, sotto San Miniato, e proseguito con alterne vicende, come quella volta, ti ricordi Massimo? Quando andammo ad una festa quasi al confine svizzero, organizzata da giovani di una famiglia politica che teoricamente (molto teoricamente), vista da fuori, qualcuno avrebbe potuto considerare come a noi “vicina”.
Avevamo preceduto di un giorno l’arrivo di altri due amici che avrebbero dovuto tenere una conferenza, il solito Cardini e Marco Tangheroni (allora medievista nell’Università di Pisa e oggi anche lui non più di questo mondo). Alloggiavamo in un albergo vicino alla festa ma la sera, i giovani festaioli incuriositi, parlando con noi, si accorsero ben presto che c’era un abisso ideologico tra noi e loro. I toni si alzarono e ce la vedemmo brutta. Il giorno dopo beneficiammo dell’immunità grazie alla presenza, a noi afferente, dei due amici conferenzieri.
Mi torna alla mente, nettamente, un episodio che ci consentì di salvare una situazione. Ci mettemmo a sedere per terra, nella loggia della Galleria dell’Accademia, in piazza San Marco, a quell’epoca ancora senza cancellata (sarà stato il 1970 o il 1971), trascorse un pomeriggio, scrivemmo un discorso e lo limammo ben bene.
Sarebbe servito il giorno dopo per un comizio in una grande piazza di Lucca. Un evento per quella nostra realtà (più estetica che politica) che mobilitò quello strano ambiente solo vagamente classificabile se non falsamente da giornalisti grossolani e visionari (e soprattutto di fazione).
La piazza era affollata, lucchesi sì, ma soprattutto ragazzi che arrivavano da tutta la Toscana. L’oratore previsto (un romano! Vatti a fidare…) non si presentò. Per fortuna avevamo il nostro intervento preparato il giorno prima, che consegnammo per la lettura a qualcuno che lo lesse due volte (e forse nessuno se ne accorse perché il bello era stare assieme, mica ascoltare).
Salvammo la situazione. Fu divertente.
Ma non era quella la nostra comunità. Avremmo tanto voluto che lo fosse, ma non lo era.
Era molto più comunità la tua che si chiama Goliardia.
E lo è senza dubbio quella della nostra Armata Brancaleone, nata con questo nome subito dopo la visione del famoso film nel quale ci eravamo immedesimati. Cavalieri nell’animo e nelle aspirazioni, con tutti i nostri limiti individuali. Sono questi i membri della nostra comunità, nella mia mente come lo erano nella tua.
La notte è ormai passata – albeggia adesso – e faccio il riepilogo di quelli ai quali ho scritto subito per informarli che sei andato avanti: ho scritto a Luigi che sta in Thailandia, a Claudio che sta a Pesaro, a Franco che chissà dov’è (e che non sono riuscito a raggiungere venerdì ad una conferenza interreligiosa sul Pellegrinaggio), a Gerd che sta a Mannheim, a Gianni che sta ad Atene, a Luca che è quello più vicino, al quale telefonerò oggi e che avviserà gli altri: Alfio, Francesco, il “nonno” Marco B., Guglielmo, Alfonso…
Tutti viaggiatori i nostri confratelli, anzi pellegrini, cattolici o pagani che siano, nella nostra Armata c’era posto per tutti.
Ma quelli che hanno viaggiato di più sono i due “finlandesi”, e Franco che non si sa mai dov’è, tra una lezione a Lucca, una a Parigi, una conferenza ovunque e che spunta sempre in qualche trasmissione televisiva (anche in quelle, purtroppo, dove in tanti gli consigliamo di non andare, ma lui essendo cavaliere, affronta i draghi…), e comunque dove è stato lo si sa con precisione grazie ai suoi libri su Samarcanda, Gerusalemme, Praga, ecc. ecc. Tra quelli più in movimento, c’eravate voi due, Sandro dall’Africa e te che andavi a trovarlo ovunque, e mi sono tornate alla mente le tue esperienze di esule, nelle favelas brasiliane. Quanto ha pesato nella tua vita quell’esperienza.
E sempre a proposito di viaggi. Conservo religiosamente una croce dei Cavalieri di Malta che mi portasti da Gerusalemme.
Forse mi sbaglio, ma associo quel viaggio a quello che facesti al ritorno dalla Terrasanta con Franco, quando, giunti in terra di Provenza aveste una disavventura: fermati dalla Gendarmerie per un controllo (forse dopo abbondanti libagioni), non credettero alle vostre dichiarazioni (“Sono un avvocato del Foro fiorentino” e “Sono un docente dell’Università di Firenze”) e vi risposero increduli di essere loro il Presidente François Mitterand e alcuni ministri. Devo chiedere a Franco se il mio ricordo è confuso o no.
Ti lascio così, caro, caro Massimo, tra questi spezzoni di memoria e tutti quelli che non voglio narrare, che forse sono i più importanti.
Per il tempo che ancora mi resta da vivere, ci sarà a tirarmi su il ricordo della tua allegria; della tua sicurezza di trovare un posto vicino agli Dei, del lungo tratto di strada che abbiamo fatto assieme, spalla a spalla, senza screzi, spesso minoranza della minoranza della nostra minoranza umana e para-politica (o impolitica?).
Salutami Sandro, Patrizio, Marco, gli altri che sai (gli innominabili) e speriamo che ci sia ad aspettarti il tuo cane Otto.
Amerino
L’Amico David Nieri, che non ha avuto la fortuna di conoscere Massimo Agatino, ha con lui tuttavia alcuni punti in comune. Primo fra tutti, entrambi possedevano un cane di nome Otto: due animali molto diversi, ma amati come due cari e fraterni amici. Mi ripugna, in casi come questo, usare l’antipatico termine di “padrone”. Inscriviamo pertanto David d’ufficio tra gli amici di Massimo, certi di far piacere ad entrambi.
Quanto a lui, con tutto il rispetto per il suo venerabile e sonoro nome Romano, anch’io l’ho sempre chiamato Agatino: e così era stato battezzato in omaggio alla martire Agata, protettrice di Palermo, della quale sono ben conosciuti il miracoloso Velo e il “Fistinu” che ogni anno i palermitani le riservano.
Coincidenza (“coincidenza”?) ha voluto che questo ricordo di Agatino esca proprio nel giorno sacro alla patrona della sua città e sua personale. So bene anch’io che Agatino sognava per sé un posto alla rumorosa e rissosa tavola degli dèi del Walhalla. Ma era un uomo buono e ricco di (quasi) tutte le virtù che un cristiano dovrebbe avere. E io confido che il Signore, nella Sua benevolenza, gli abbia mandato ad accoglierlo nel regno dei cieli, insieme col suo cane Otto, anche il santo Arcangelo Michele: quello che, tra i membri della Corte Celeste, somiglia di più a un dio del Walhalla.
P.S. La vicenda del nostro “fermo” da parte della gendarmeria francese e dell’imbarazzante equivoco, peraltro subito chiarito, non è collegata al viaggio a Gerusalemme ma è per il resto tale e quale quella che Amerino racconta. La sera prima, dinanzi alla cattedrale di Clermont Ferrand, avevamo suonato e cantato in omaggio alla Vergine Maria il sonetto di Michelangelo “Caro m’è il sogno”. Confidiamo che la Beatissima Madre di Dio l’abbia apprezzato, e, in risposta a quell’omaggio cavalleresco, abbia interceduto per Agatino presso suo Figlio: come mi auguro che, a suo tempo, si degni di fare per me.