Minima Cardiniana 407/6

Domenica 5 febbraio 2023, Sant’Agata

DIO: QUELLI DI “TRADIZIONE, FAMIGLIA (E SOPRATTUTTO) PROPRIETA’”
LUIGI COPERTINO
QUANDO DIO È USATO PER LEGITTIMARE IL LATIFONDO E LA GEOPOLITICA OCCIDENTALE
Il ritorno sulla scena di correnti culturali e politiche identitarie comporta una necessità di chiarimento e di discernimento onde evitare la trappola di derive retrive sul piano dei rapporti socio-economici che con la difesa e conservazione dell’identità storico-culturale della singola persona e del popolo cui essa appartiene – identità che è estensione, sul piano immanente, del radicamento spirituale dell’umana natura nella Sapienza trascendente e nel Sacro – nulla hanno a che fare, costituendone invece forme di manipolazione strumentale a disegni politici intesi a legittimare o restaurare assetti sociali di predominio classista.
È un problema che interroga, in modo particolare, i cattolici. Perché se è vero che l’amore per la patria è una legittima espressione dell’Amore di Dio e nondimeno il nazionalismo bellicista o, peggio, la pretesa del primato dell’etnia e della razza sono un inaccettabile “neopaganesimo”, allo stesso modo deve affermarsi che se è innegabile il dato reale della pluralità e della differenziazione sussistente nel genere umano, sicché non potrà mai esserci alcun livellamento sociale meccanico tra gli uomini – e tutti i tentativi di realizzarlo sono inevitabilmente falliti essendosi scontrati con la realtà –, cionondimeno non è per i cattolici accettabile un modello sociale che si fondasse sul predominio di una casta o di un ceto sulle altre componenti della città politica, anziché sull’avvicinamento tra le classi nella redistribuzione della ricchezza prodotta secondo il principio della “giustizia distributiva” sempre di necessità da affiancare a quello della “giustizia commutativa”.
L’essere gli uomini ed i popoli figli, nel Figlio, dell’Unico Padre genera l’esigenza della “fratellanza”, che si esprime nella comunità intesa come forma organica del convivere, nella quale soltanto la libertà non degenera in individualismo solipsista e l’eguaglianza non degenera in collettivismo livellatore. Sotto tale profilo, il noto motto politico proprio della destra “Dio, Patria e famiglia” si presta a molti equivoci che potrebbero agevolmente essere risolti laddove nella triade predetta fosse inserito un aggettivo per diventare “Dio, Patria sociale e famiglia”. L’aggettivo “sociale”, infatti, richiama una gamma di posizioni che si estendono da un più gradualistico interclassismo, benché socialmente avanzato e riformista, fino ad un più estremo “socialismo” tuttavia comunitario, quindi spiritualmente ed antropologicamente identitario, ma non marxista.
Invece, proprio l’assenza di tale aggettivo diventa foriera di equivoci che appaiono in modo evidente in taluni gruppi che si richiamano al tradizionalismo cattolico dimenticando che l’“antimodernismo” del tradizionalismo è stato ed è soprattutto una critica delle conseguenze non solo etiche ma anche sociali dell’individualismo introdotto dalla modernità e non giustificazione – almeno non più – della gerarchia sociale da Ancien Régime. Qui di seguito una breve disamina delle posizioni di taluni da tali gruppi.

Tradizione, Famiglia e Proprietà (TFP)
È questo, probabilmente, il gruppo che ha avuto maggior influsso sugli altri del tradizionalismo “contro-rivoluzionario”. Si tratta di una associazione di origine brasiliana presente anche in Europa, Stati Uniti, Australia e Africa del Sud. In Italia ne esiste una sezione, con sede a Roma, il cui presidente è Julio Loredo. La denominazione integrale è “Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Família e Propriedade”. È stata fondata nel 1960 dal pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira – professore di storia all’università pontificia di San Paolo, discendente da parte di madre da una ricca famiglia “paulinista” e da parte paterna dall’aristocrazia terriera della Stato di Pernambuco – con lo scopo di combattere il comunismo. Come altri gruppi tradizionalisti assume a modello politico e sociale la Cristianità premoderna della quale, tuttavia, propone una idealizzazione astorica trasformandola in una vera e propria utopia – nel senso letterale del termine ossia u-topos, non luogo – di perfezione, ordine e giustizia. Il pilastro di questo modello è la “proprietà privata” base della famiglia tradizionale e veicolo della “Tradizione”[1].
La legittimità morale della proprietà non è certo contraria alla Dottrina Sociale della Chiesa, ma quando si approfondisce cosa intende la TFP per “proprietà privata”, “famiglia tradizionale” e per “Tradizione” si scopre che essa intende soprattutto il latifondo agrario, la famiglia di retaggio aristocratico-oligarchico mentre la Tradizione sembra piuttosto la giustificazione dell’auspicato assetto gerarchico, appunto da Ancien Régime, della società anziché essere il Deposito teologico e sapienziale della Fede rivelata. Plinio Corrêa de Oliveira è morto nel 1995 ma il suo pensiero ha continuato ad influenzare il residuale mondo tradizionalista provocando al suo interno una frattura tra il tradizionalismo “controrivoluzionario” e quello “popolare”. Quest’ultimo, a differenza del primo, rivendica l’eredità antirivoluzionaria, piuttosto che controrivoluzionaria, della resistenza popolare sette-ottocentesca al giacobinismo. Una resistenza che, storicamente, sulla scia del rigetto popolare della modernizzazione capitalista ma anche sulla scia del riformismo sociale delle monarchie settecentesche, fu opposizione antinobiliare che identificava i giacobini nella nobiltà e nella borghesia rampante. Da questa opposizione popolare antirivoluzionaria scaturirono successivamente forme, più adeguate ai tempi e più aggiornate, di organizzazione e presenza politica e sociale dei cattolici nella società, dall’Opera dei Congressi fino alla Scuola Sociale di Giuseppe Toniolo solo per rimanere nel XIX secolo.
La visione del mondo della TFP è delineata nell’opera principale del suo fondatore, “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”, pubblicata per la prima volta nel 1959 e successivamente aggiornata. Vi si sostiene una teologia della storia tipica del tradizionalismo, connotata tuttavia in senso romantico ed idealizzante. Rinascimento, Riforma protestante, Illuminismo, Rivoluzione Francese, Rivoluzione comunista in Russia ed altrove, ed infine la Rivoluzione culturale e dei costumi del ’68, sono state fasi progressivamente sempre più virulente di una aggressione alla Cristianità ed ai suoi fondamenti spirituali. In questa prospettiva, dal XV secolo la Cristianità ha subito una drammatica decadenza spirituale. Una lettura che, sotto il profilo spirituale, non è affatto peregrina, perché effettivamente è un modo di interpretare ciò che con altro termine è chiamato secolarizzazione mettendone in luce le dinamiche filosofiche e culturali. Il punto è che poi si pretende di applicare meccanicamente tale interpretazione anche alle dinamiche politico-sociali sicché la modernizzazione sul piano immanente da un lato viene fatta dipendere automaticamente dalla decadenza spirituale e dall’altro lato si costringe la Tradizione al ruolo di quadro teologico a giustificazione della “rettitudine” della società medioevale ossia dell’“Ordine gerarchico”, definito “naturale”, senza, oltretutto, nessuna distinzione concettuale tra ordinamento per casta o semplicemente cetuale-corporativo, entrambi presenti nel medioevo, e senza che alcun notevole rilievo assumano “dettagli” come il fatto che proprio nel medioevo il concetto di “proprietà” fosse così poco accentratore, rispetto al latifondo moderno, perché la proprietà, anche quella aristocratica ed ecclesiastica, era spesso confusa con il semplice possesso e fortemente limitata da diritti di uso da parte delle comunità nonché, piuttosto, distribuita secondo la scala gerarchica e diffusa secondo modalità consuetudinarie e comunitarie.
Nell’opera pliniana la modernità ossia la “Rivoluzione” è contrapposta alla “Controrivoluzione” in modo paradigmatico ovvero facendo dei due tipi in questione concetti astratti, alieni da qualsivoglia verifica storica che invece ne metterebbe in luce la reciproca contaminazione che immancabilmente sussiste in tutte le vicende umane, e piegati ad una lettura spirituale del conflitto tra bene e male trasposta però nello “scontro di civiltà” sul piano storico anziché riservare tale conflitto – che certo ha anche le sue esteriorizzazioni sociali – al cuore dell’uomo e come tale presente in ogni uomo, a qualsiasi ceto sociale appartenga, ed in ogni epoca, nell’antichità come anche nel medioevo cristiano e nella modernità post-cristiana, tanto quella solida del secolo scorso quanto quella liquida attuale.
Così trasposto, in modo meccanico e schematico, sul piano immanente il conflitto tra bene e male, ne consegue, alla luce della decadenza spirituale, dell’eclissarsi della fede e del sacro – che senza dubbio è un processo storico in atto e perfino preannunziato “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà la fede sulla terra?” (Lc. 18,8) –, che l’ordine gerarchico castale, già medioevale, diventa inevitabilmente l’assetto sociale conforme al bene mentre le tendenze democratiche, anche quando sono interclassiste, diventano ipso facto l’assetto di un contro-ordine votato inevitabilmente al male.
Se la Rivoluzione è il disordine, la Contro-Rivoluzione è la restaurazione dell’Ordine. E per Ordine intendiamo la pace di Cristo nel regno di Cristo. Ossia la Civiltà cristiana, austera e gerarchica, sacrale nei suoi fondamenti, anti-egualitaria e antiliberale[2].
Una lezione come quella di Giovanni Paolo II, nella “Veritatis Splendor” o come quella di Benedetto XVI nella “Deus Caritas est” o nella “Caritas in Veritate” intesa a evidenziare la minaccia che relativismo e nichilismo, compresi i loro aspetti finanziari, rappresentano per una fraterna convivenza umana, è troppo “tiepida” nella prospettiva controrivoluzionaria di chi aspira, illudendosi, a restaurare qualcosa di simile all’Ancien Régime, in quanto quell’insegnamento legittima la democrazia purché essa non si voglia estranea a un superiore contesto di eticità e di spiritualità.
Il problema che rende controverso, ed alla fine inaccettabile nel suo non recondito fine politico, il pensiero pliniano è che esso è tutto incentrato non su una critica dell’individualismo – benché sia criticato il liberalismo ma solo per il suo immoralismo libertino e non anche per i suoi esiti sociali – e quindi non su una critica al primato dell’individuo sulla comunità, che è l’essenza della modernità, quanto sulla critica dell’egalitarismo sociale al quale viene opposta, come ideale, la “gerarchia naturale” identificata con il dominio dei proprietari sui non proprietari. Questo assunto del pensiero pliniano, non essendo ad essa possibile restaurare effettivamente una società di antico regime, rende funzionale la TFP alle strategie capitaliste intese ad assicurare l’egemonia assoluta del capitale sul lavoro. Ecco perché la perorazione del ruolo delle “élite tradizionali”, con tanto di sollecitazione alla restaurazione integrale della civiltà cristiana attraverso il ripristino delle gerarchie sociali e quindi anche dei titoli aristocratici – già di per sé retorica (se abbiamo avuto santi di origine aristocratica e persino monarchi, è innegabile che a quelle élite siano appartenuti anche veri e propri farabutti) –, che Plinio Corrêa de Oliveira spende, anche sulla scorta di allocuzioni pontificie che devono essere piuttosto lette nel loro contesto storico e circonstanziato anziché farne una sorta di manifesto dottrinario[3], finisce per essere, inevitabilmente, un supporto alle attuali élite tecnico-finanziarie del capitalismo globale, quelle di Davos per intenderci, che ben accetterebbero una verniciatura di “cristianità” pur di essere accreditate come “pie” agli occhi dei cattolici.
Nulla, pertanto, a che vedere, nonostante le dichiarazioni in proposito della TFP, con la Dottrina Sociale Cattolica la quale ha una concezione della proprietà di tipo sociale e distributista, per dirla con Gilbert Keith Chesterton, ed una visione organicista ed interclassista dei rapporti sociali volta verso soluzioni di equità redistributiva della ricchezza prodotta e di riavvicinamento dei ceti – nel nome della “fratellanza” che discende dalla comune figliolanza degli uomini e dei popoli dallo stesso Dio Padre – nonché di contenimento ed attenuazione dei conflitti. Non a caso negli ambienti tieffepini si fa riferimento ad una non meglio precisata “dottrina sociale cattolica tradizionale” sottolineandone la lontananza dai non graditi aspetti personalisti e comunitari del Magistero pontificio, il quale non legittima l’assolutizzazione che la TFP fa della proprietà-latifondo.
La presenza della TFP nella vita pubblica nazionale del Brasile, ed in quella internazionale, si è caratterizzata, puntualmente, come oppositiva a qualsiasi proposta o progetto di riforma sociale intesa a redistribuire la ricchezza anche se non con metodi di tipo marxista. In Brasile la TFP si è segnalata per la sua battaglia contro la riforma agraria nella quale essa vedeva il tentativo di introdurre il socialismo anche laddove si trattava soltanto di dare o far partecipe il contadinato della proprietà della terra, superando il latifondismo e modernizzando l’agricoltura del Paese[4].
Date queste sue posizioni la TFP non poteva non scontrarsi con la Teologia della liberazione, denunciata quale infiltrazione marxista nel Cattolicesimo[5]. In realtà, la TFP rappresenta la posizione speculare alla teologia della liberazione perché ne rovescia in senso controrivoluzionario tutti gli errori di quest’ultima ossia la “mondanizzazione” della fede. Nello schema dialettico adottato da Plinio Corrêa de Oliveira, del resto, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione non possono che sostenersi a vicenda e replicare, in senso rovesciato e speculare, gli stessi assiomi ideologici e politico-sociali. Non a caso la TFP nel 1985 è stata pubblicamente dichiarata sospetta con una nota dalla Conferenza Episcopale Brasiliana per il suo “il carattere esoterico, il fanatismo religioso, il culto nei confronti del capo e fondatore, l’abuso del nome di Maria Santissima” (il riferimento è alla venerazione idolatrica che nel gruppo, a detta di molti transfughi, sarebbe stata imposta ai militanti verso la madre del fondatore equiparata alla Vergine). Con ciò la Chiesa cattolica brasiliana, benché soltanto con un comunicato, reso tuttavia noto attraverso l’edizione in lingua spagnola de L’Osservatore Romano, e non con un vero e proprio decreto apostolico, negava ufficialmente qualunque legame con l’associazione ed esortava i fedeli a non iscriversi ad essa né a collaborare con essa[6].
La TFP ha intessuto rapporti anche con l’arcivescovo Marcel Lefèbvre, immediatamente dopo il Concilio Vaticano II, quando il prelato era Superiore Generale della Congregazione del Santo Spirito. I contatti andarono, però, affievolendosi dall’una e dall’altra parte già all’epoca in cui l’arcivescovo tradizionalista fu sospeso a divinis, nel 1976, per scomparire del tutto al momento della sua scomunica nel 1988. Uno dei motivi del raffreddamento da parte lefreviana fu l’emergere di un sospetto analogo a quello al quale faceva riferimento la nota della Conferenza Episcopale Brasiliana. Mons. De Castro Mayer, vescovo lefreviano, dopo aver collaborato con la TFP se ne allontanò denunciandone il carattere “settario” e gli elementi di “eresia ed esoterismo”[7]. Nel 1995 in Francia una commissione parlamentare di inchiesta ha formalmente incluso la sezione locale della TFP nell’elenco delle sette religiose. Il rapporto della Commissione parlamentare di inchiesta, denominato “Rapport Guyard” dal nome del suo artefice, il deputato socialista Jacques Guyard, è stato fortemente contestato dalla TFP ma un’altra inchiesta similare, il cosiddetto “Rapport Joyeux”, proveniente dai genitori degli allievi, dai docenti e da ex allievi della scuola Saint Benoît, fondata e gestita dalla TFP, ha denunciato la “incredibile durezza di cuore”, frutto dell’anti-egualitarismo della TFP, nella quale venivano educati gli alunni, frequentanti l’istituto scolastico in questione, che erano indirizzati verso “il disprezzo di classe” e “il gusto del lusso e dell’oziosità”. In particolare, in detto Rapporto, pur riconoscendo che nella Dottrina Sociale Cattolica non è contemplato nessun egalitarismo meccanico e negatore delle differenze di attitudini e capacità tra gli uomini, si evidenziava che la fede cattolica “non può ammettere … il disprezzo di classe” al quale porta “La durezza di cuore e l’odio manifesto per le persone semplici [che] caratterizzano la condotta quotidiana … dei militanti TFP[8].

Alleanza Cattolica
Tra i gruppi cattolici italiani, che si definiscono tradizionalisti, più influenzati dal pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira, e che hanno contribuito a diffonderlo mediante la pubblicazione in italiano delle sue opere, va annoverata Alleanza Cattolica, associazione laicale la quale ufficialmente si propone lo studio e la diffusione della dottrina sociale cattolica ed un’azione di apostolato culturale e civile per la promozione e costruzione di una società “a misura d’uomo e secondo il piano di Dio”.
Fondata da Giovanni Cantoni nel 1960, Alleanza Cattolica nel 2012 ha ottenuto il riconoscimento ecclesiastico come associazione privata di fedeli da parte del vescovo di Piacenza-Bobbio Gianni Ambrosio. Dallo stesso anno al fondatore reggente si affiancava, come reggente vicario, Massimo Introvigne, noto studioso di religioni comparate. Dopo le dimissioni di entrambi nel 2016, un comitato di reggenza, composto da 6 membri e presieduto dal prof. Mauro Ronco, ha guidato provvisoriamente l’associazione sino all’elezione del nuovo reggente nazionale avvenuta nella riunione del capitolo nazionale del 28 e 29 maggio dello stesso anno, nella persona dello scrittore Marco Invernizzi che è rimasto in carica anche dopo la morte nel 2020 di Cantoni, che aveva conservato la qualifica di reggente emerito. Dal 1973 l’associazione ha come organo informativo ufficiale la rivista “Cristianità”.
Il motto dell’associazione è “Ad maiorem Dei gloriam et socialem” (“Per la maggior gloria di Dio anche sociale”) ed è proprio in quel “anche sociale” che si esprimono le posizioni dottrinarie del gruppo per lo più analoghe a quelle della TFP, tanto nella visione complessiva quanto nell’impostazione anti-egualitaria ma fermamente filo-occidentale. L’Occidente viene considerato, benché in crisi a partire dalla Riforma e dalla Rivoluzione francese, comunque la filiazione trasparente e diretta del Cristianesimo. Con la TFP Alleanza Cattolica intrattiene rapporti da tempo immemore. Infatti, in ordine alla concezione della società anche Alleanza cattolica guarda al modello inegualitario del reazionarismo sposato, tuttavia, al conservatorismo liberale, piuttosto che al modello anti-individualista e comunitario della prospettiva cattolica, e quindi ad un modello gerarchico ma privo di partecipazione sociale e di solidarismo interclassista. Alleanza cattolica, come già la TFP, nell’impossibilità della restaurazione della idealizzata “Cristianità”, sposa le politiche liberal-conservatrici nobilitandole con l’apporto del pensiero anglo-conservatore risalente ad Edmund Burke e, per tale, via con quello del conservatorismo di marca statunitense, in particolare nella forma presbiteriana di Russel Kirk continuatore nel secolo scorso del filone inaugurato da Burke[9].
Mentre, attraverso il suo organo, “Cristianità”, difende i valori cattolici in accordo con la morale cristiana (contro omosessualità, aborto, divorzio, contraccezione), Alleanza Cattolica si oppone al World Social Forum, definito “laboratorio di sovversione”, laddove non mostra affatto altrettanta ferma opposizione verso il World Economic Forum di Davos, ovvero il Concilio Globale delle multinazionali occidentali. Politicamente vicina al centro-destra, oscillando di volta in volta tra le sue componenti, dalla Lega a Forza Italia fino An e poi Fratelli d’Italia, annovera tra i suoi esponenti il giurista Alfredo Mantovano già parlamentare di An ed ora sottosegretario di Stato nel governo Meloni.

Fondazione Lepanto
Oltre ad Allenza cattolica, un altro gruppo che può considerarsi federato culturalmente alla TFP ed al pensiero del suo fondatore è la Fondazione Lepanto, con sede a Roma. Essa dichiara di avere come fine la difesa dei principi e delle istituzioni della Civiltà Cristiana. È presieduta dallo storico Roberto de Mattei. La rivista “Lepanto” ne è l’organo di stampa. Stando a quanto riporta il suo sito ufficiale la Fondazione Lepanto opera, in particolare, per difendere la vita umana dal concepimento alla morte naturale, contro ogni forma di manipolazione “biopolitica”; la famiglia naturale, una e indissolubile, contro ogni tentativo di eversione dei suoi fondamenti; la proprietà privata, assalita dal socialismo confiscatorio dello Stato moderno e delle oligarchie ideologico-finanziarie; gli Stati nazionali, espropriati della loro sovranità da potentati che inseguono l’utopia di una Repubblica anticristiana universale; la tradizione religiosa e morale cristiana, aggredita dalla “dittatura del relativismo”.
Anche in tal caso la Cristianità è identificata sic et simplicter nell’Occidente considerato comunque “cristiano” benché oggi “malato” a causa degli esiti della Riforma protestante e della Rivoluzione francese. Il richiamo enfatico alla battaglia di Lepanto – storicamente una battaglia vinta, che è stata certamente importante sul piano psicologico avendo dimostrato la possibilità di sconfiggere la Sublime Porta all’epoca all’apice della sua potenza, ma nell’ambito di una guerra, quella di Cipro, sostanzialmente persa dai cristiani – evidenzia la “mitizzazione” che la Fondazione Lepanto coltiva dello scontro di civiltà, sia verso l’esterno, ieri contro il comunismo oggi contro l’islam, sia verso l’interno, contro la Rivoluzione in nome della Contro-Rivoluzione.
La chiave di lettura della storia e della società è analoga a quella della TFP – Roberto De Mattei è autore di un libro su Plinio Corrêa de Oliveira “Il Crociato del XX secolo” (Piemme, 1996) – ossia fortemente anticomunista a tutela della “proprietà” intesa in senso assoluto e senza alcuna distinzione di tipo “distributista” o “comunitario”. Anzi, tutto ciò che ha sapore comunitario è inteso alla stregua di una simpatia verso il “socialismo autogestionario”. Come la TFP ed Alleanza Cattolica, anche la Fondazione Lepanto prende a modello ideale una Cristianità premoderna colta in una astorica “purezza” per poi incarnare questo modello nell’Occidente attuale, a trazione statunitense, in pericolo a causa del comunismo e dall’islamismo e, all’interno, a causa del relativismo morale ma non anche dal liberismo economico. Un tratto peculiare che differenzia la Fondazione Lepanto dagli altri gruppi citati è nella rivendicazione, in sé “moderna”, del ruolo dello Stato nazionale nella sua funzione di contrasto alla globalizzazione dominata dalle oligarchie finanziarie, le quali aggrediscono il diritto naturale di “proprietà privata” non meno del fiscalismo statuale[10]. Qui emerge il vero senso che la Fondazione Lepanto assegna alla difesa dello Stato. Il quale, infatti, è difeso, contro il globalismo, in quanto nazionale ma non contestualmente in quanto Stato sociale. Anzi, sotto questo profilo, lo Stato è criticato perché fiscalmente rapace, secondo le tesi liberiste. Manca, nella prospettiva “statualista” della Fondazione Lepanto, il riconoscimento storico della conseguenziale estensione della forma politica Stato da mero Stato nazionale in Stato sociale, onde evitare la sua dissoluzione a causa del conflitto sociale di nuovo tipo inaugurato con l’industrializzazione. Ragion per cui non viene colto il punto per il quale qualsiasi difesa dello Stato nazionale, contro la globalizzazione, non può non essere anche e soprattutto difesa dello Stato sociale. D’altro canto, nonostante la dichiarata opposizione alle oligarchie finanziarie, e massoniche, la Fondazione Lepanto e lo stesso Roberto De Mattei coltivano stretti contatti con il mondo conservatore inglese e statunitense tra i cui esponenti molti sono membri di quelle oligarchie.
La Fondazione e il suo presidente hanno fatto del messaggio mariano di Fatima una chiave di lettura della storia del secolo scorso in una interpretazione però esclusivamente anticomunista. Questo tipo di esegesi, dopo il 1989, alla luce della fine dell’Unione Sovietica era diventata demodé. I sostenitori di questa interpretazione, infatti, non hanno mai colto la portata più ampia della rivelazione fatimita in una prospettiva che travalica il ristretto spazio temporale di un secolo, pur caratterizzato dalla espansione e dalla caduta del comunismo, per restituirla ad una esegesi rivelatrice – quindi autenticamente “apocalittica” ma senza alcun millenarismo (“Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”, Mt. 24,13; “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno li sa, neppure gli angeli del cielo, neppure il Figlio, ma solo il Padre”, Marco 13,32) – del senso drammatico della storia umana sempre sospesa, in ogni istante ed epoca, tra accettazione dell’Amore di Dio e il suo rifiuto e le conseguenze che ne derivano. Privi di questo approccio fondatamente biblico, gli esegeti del messaggio di Fatima quale invito alla “crociata anticomunista” in difesa dell’Occidente “cristiano” si sono trovati spiazzati dagli avvenimenti del 1989 i quali non si accordavano, a prima vista, con la loro riduttiva interpretazione che costringe Fatima ad un ruolo ristrettamente anticomunista. Oggi con la guerra russo-ucraina, tale esegesi è stata rivitalizzata da Roberto De Mattei attraverso un video, della Fondazione Lepanto, che circola in rete (https://www.youtube.com/watch?v=rBs4FCeSw5Q) e nel quale Putin è definito, inverosimilmente, nazional-bolscevico, il capitalismo protetto di Pechino comunismo anziché dirigismo non dissimile per tanti versi dallo stesso dirigismo economico praticato in Occidente nel dopoguerra, nonché – dulcis, si fa per dire, in fundo – l’Occidente scristianizzato attuale è identificato, testualmente, con la Roma di Pietro. Benché in termini aggiornati la rivelazione mariana di Fatima viene ancora una volta piegata agli interessi geopolitici di Washington che sono gli unici che l’Occidente persegue, fregandosene allegramente delle ubbie “cristianiste” di certuni che lo considerano nonostante tutto la “Cristianità”. Per questo motivo la Fondazione Lepanto può essere ritenuta, in qualche modo, vicina e contigua ai movimenti “fatimiti”, di matrice statunitense, che da tempo utilizzano il contenuto delle apparizioni mariane nella località portoghese come un testo politico-ideologico per arruolare ciò che resta dei cristiani, il “piccolo gregge”, nelle fila di un Occidente sorto sulle ceneri di quella che un tempo fu la “Cristianità” storica.
Chi, tuttavia, non ignora la dinamica spirituale della Chiesa, per la quale al soglio di Pietro può assurgere tanto un aristocratico quanto un eremita abruzzese o un ex operaio polacco della Solvay e per la quale la grazia della santità può manifestarsi tanto in una regina come Elisabetta d’Ungheria o in un imperatore come il beato Carlo d’Asburgo quanto in un figlio di mercante come Francesco d’Assisi o in un figlio di contadini come Pio da Pietrelcina, non sa che farsene delle strumentali pulsioni “controrivoluzionarie” di certi circoli del tradizionalismo cattolico.

Note

[1] Per una bibliografia favorevole, cfr. Roberto de Mattei “Il crociato del secolo XX. Plinio Corrêa de Oliveira”, Piemme, 1996; Massimo Introvigne “Una battaglia nella notte, Plinio Corrêa de Oliveira e la crisi nella Chiesa nel secolo XX”, Sugarco, 2008.

[2] Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”, Luci sull’Est, Roma, 1998, p. 88.

[3] Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, “Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana”, Marzorati, Milano, 1993.

[4] A partire dal 1960 Plinio Corrêa de Oliveira iniziò una campagna pubblica contro ogni ipotesi di riforma agraria dando alle stampe diversi libri: “Riforma agraria questione di coscienza”; “Dichiarazione di Morro Alto” (1964); “Sono cattolico, posso essere contro la Riforma agraria?” (1981); “La proprietà privata e la libera iniziativa nella bufera agro-riformista” (1985); “In Brasile, la Riforma agraria fonte di miseria per le campagne e le città” (1986).

[5] Anche su questo argomento Plinio Corrêa de Oliveira ha scritto diversi libri: “Gruppi occulti tramano la sovversione nella Chiesa” (1969); “La Chiesa di fronte alla montante minaccia comunista. Appello ai vescovi silenziosi” (1976); “Tribalismo indigeno: ideale comuno-missionario per il Brasile del secolo XXI?” (1977); “Incitamento alla guerriglia rivolto dai sandinisti ‘cristiani’ alla sinistra cattolica dell’America Latina” (1980); “Le CEB… molto se ne parla, nessuno le conosce. La TFP rivela cosa sono” (1982).

[6] È vero che la TFP ha reagito alla nota episcopale chiedendo l’esibizione delle prove di quanto in essa affermato senza ottenerle e tuttavia il silenzio potrebbe essere piuttosto interpretato come l’intenzione di non giungere a più severi pronunciamenti per evitare, mentre li si avvertiva, di colpire canonicamente i fedeli che in buona fede hanno aderito all’associazione.

[7] Cfr. “Tradizione Famiglia Proprietà: Associazione cattolica o setta millenarista?”, Rimini, 1996, p. 6. Si tratta dell’edizione italiana, curata dai lefreviani, del “Rapport Joyeux” del quale si dice di seguito nel testo.

[8] Cfr. p. 45 del “Rapporto” nella edizione italiana di cui alla precedente nota 7, laddove poi esso continua asserendo che “Ciò è stato constatato unanimemente dalla quasi totalità delle persone che hanno avvicinato la TFP, soprattutto dai genitori, dagli insegnanti e dal cappellano. Essi hanno potuto osservare personalmente lo sprezzante atteggiamento dei militanti TFP nei confronti del personale di servizio”.

[9] Va invece sottolineato, contro l’ingessatura controrivoluzionaria che Alleanza Cattolica fa del pensatore anglo-irlandese, che il pensiero di Edmund Burke, al netto del “disprezzo di classe”, è stato recuperato da Sarah Wagenknecht, una studiosa molto vicina all’estrema sinistra tedesca, già leader del partito Die Linke, nella sua recente opera “Contro la sinistra neoliberale”, Fazi editore, 2022. Un recupero, però, ne siamo sicuri che non piacerà affatto al tradizionalismo di Alleanza Cattolica o della TFP, perché esso riprende la lezione “conservatrice” di Edmund Burke per criticare la deriva liberale della sinistra, che è diventata ormai un club esclusivo di una ristretta élite la quale si ispira ai dogmi del cosmopolitismo, del globalismo, del multiculturalismo, dell’ambientalismo e del politicamente corretto. Una élite che non ha nulla da dire sull’impoverimento della classe media e sullo sfruttamento dei lavoratori, che promuove i vincitori della globalizzazione e ne disprezza i vinti, ossia le classi popolari accusate di essere fasciste, razziste, populiste, sessiste. Una élite, ristretta in termini elettorali, ma che esercita una fortissima egemonia sui media e sul mondo della cultura. In opposizione a questa sinistra elitaria dei ricchi, la Wagenknecht nella ricerca di una visione radicalmente alternativa, per una sinistra che torni a rappresentare le classi popolari, ha riscoperto il comunitarismo fondato sulla critica dell’individualismo moderno e, quindi, ha rivendicato a sinistra concetti aborriti dai progressisti come patria, comunità, appartenenza, identità, concretezza e realismo anziché virtualismo digitale e finanza apolide. Molto interessante quel che la Wagenknecht afferma nelle pagine del suo libro dove, da sinistra, richiama in causa la lezione conservatrice di Edmund Burke: “Il riconoscimento del ruolo importante svolto dalle tradizioni e dalla cultura per il pensiero e il comportamento umani e l’apprezzamento del loro valore per la coesione sociale sono parte dell’eredità intellettuale del conservatorismo. Il padre spirituale di questa corrente, il filosofo anglo-irlandese Edmund Burke, non faceva che rimarcare la saggezza insita negli usi e costumi, senza i quali le società non sopravviverebbero. La parola greca ethos, che descrive il canone di valori di un uomo o di un’intera società, significa letteralmente “abitudine”, “costume” o “usanza”. Anche nelle società moderne molti portano in sé questo ethos che deriva dalle esperienze di comunità di molti secoli. A esso si lega la distinzione in base all’appartenenza e il fatto che ci si senta tenuti ad aiutare i membri di una comunità, di qualunque tipo essa sia, più che coloro che non ne sono membri. Sempre da qui nascono anche le norme di comportamento che danno valore alla reciprocità delle relazioni sociali. Chi pensa in base a queste regole concepisce la solidarietà come l’armonia tra i diritti e i doveri. Equità significa che ciascuno riceve ciò che è giusto in considerazione dei propri sforzi e delle proprie prestazioni. Diritti senza doveri contraddicono questa visione. La narrazione diffusa a metà del XX secolo della società delle prestazioni e di uno Stato sociale orientato al mantenimento dello status quo più che all’assistenza minima sono ancora oggi molto popolari perché si richiamano a una simile concezione della giustizia. Per gli uomini con un forte senso di comunità la loro famiglia non è una famiglia qualsiasi, la loro patria non è un fazzoletto di terra qualsiasi e il loro paese è diverso da qualunque altro paese. Per questo si sentono legati ai propri concittadini più che a coloro che vivono altrove e non vogliono che la politica o l’economia nel loro paese venga diretta dall’esterno. Per questo si indignano quando imprese spregiudicate che non sono ancorate al territorio spostano le loro fabbriche dove la manodopera costa meno. Per questo desiderano uno Stato che garantisca la sicurezza e la stabilità, invece di abbandonare i propri cittadini alle incertezze e alle esplosioni dei mercati globalizzati. Chi la pensa in questo modo e onora i valori descritti, riceve oggi l’appellativo di conservatore. Il concetto non è sbagliato. Gli individui che la pensano così vogliono davvero conservare e preservare dalla distruzione un sistema di valori che, a causa dell’odierno capitalismo globalizzato, è sotto pressione e in parte è già andato in frantumi. Questo sistema di valori è orientato alla comunità, ai legami e all’appartenenza. Esso si ritrova sia nella tradizione del movimento operaio sia in quella del conservatorismo classico, che il filosofo britannico Roger Scruton, scomparso all’inizio del 2020, ebbe modo di definire una volta “la filosofia dell’appartenenza”. Questo conservatorismo dei valori ha però poco o nulla a che fare con il conservatorismo politico, ovvero con i partiti che nei diversi paesi si definiscono conservatori. Il conservatorismo dei valori orientato all’appartenenza e alla comunità ha come avversari non solo gran parte dei partiti conservatori, ma anche il liberalismo di sinistra: quest’ultimo guarda agli individui con atteggiamenti conservatori come a retrogradi, che favorirebbero risentimenti e il ritorno di pregiudizi ormai superati. I liberali di sinistra si sentono perciò chiamati a farli desistere dalle loro idee e a metterli in cattiva luce sul piano morale. Sorge spontanea la domanda: con che diritto? Chi si impegna a screditare e delegittimare il pensiero tradizionale e i valori e l’idea di giustizia che ne derivano è davvero dalla parte dell’Illuminismo e del progresso?”.

[10] In questo c’è senza dubbio un elemento di veridicità, perché effettivamente il fisco attuale è esoso ma soprattutto verso la piccola e media proprietà, in particolare immobiliare, come la casa d’abitazione. Ma non sembra che ci sia da parte della Fondazione Lepanto nella sua posizione critica dell’eccessiva fiscalità alcuna consapevolezza del fatto che se oggi lo Stato tartassa i piccoli è perché il grande capitale multinazionale sfugge, nella sua volatilità finanziaria, al territorio e quindi alla possibilità per lo Stato di tassarlo adeguatamente. Essendo oltretutto il prelievo fiscale funzionale non in via principale al costo dei servizi ma soprattutto al “servizio degli interessi sul debito pubblico” verso le grandi banche d’affari ed i fondi di investimento, alias i “mercati finanziari”, allo Stato, castrato nella sua forza impositiva sui grandi capitali, non resta che tartassare i comuni cittadini che, a differenza, delle ricche élite transnazionali, non possono sfuggire alla territorialità.