Minima Cardiniana 408/5

Sabato 11 febbraio, Apparizione della Beata Vergine Maria a Lourdes
Domenica 12 febbraio, Santa Eulalia, Sesta Domenica del Tempo Ordinario

JOHN RONALD REUEL TOLKIEN E IL MONDO CLASSICO
LUIGI COPERTINO LEGGE ARIANNA PARISSI
La professoressa Arianna Parissi ha affrontato in una spessa monografia alcune figure archetipiche presenti nell’opera di Tolkien e ispirate alla mitologia ellenica, quella che almeno dalla metà del Settecento – ma con una lunga e complessa preistoria, che affonda le radici già nel Trecento petrarchesco-boccacciano – si definisce per eccellenza “classica”, usando un aggettivo categorizzante per la verità alquanto banale ma destinato a un’irreversibile fortuna.
Il suo lavoro ha ispirato al nostro collaboratore Luigi Copertino quella che sul piano dei sottogeneri letterari si definirebbe una “recensione lunga”. Ma dove finiscano le “recensioni lunghe” e comincino i “brevi saggi”, non lo si è mai capito.
Ed ecco quindi a Voi la Parissi letta da Copertino. Definite lo scritto come vi pare.

Arianna Parissi, La dama, il re, il ritorno. la mitologia e il mondo classico nell’opera di Tolkien, Rimini, Edizioni Il Cerchio, 2022, pp. 252, euri 29,00
Si tratta di un libro scritto con notevole competenza e tale da destare nel lettore ammirazione. L’autrice, docente liceale di Letteratura italiana, è una classicista laureata in Archeologia e Letterature Classiche del Mediterraneo. A chi, come lo scrivente, è un lettore affascinato benché non particolarmente esperto dell’opera di Tolkien, la lettura del libro della Prof.ssa Parissi ha ridestato reminiscenze liceali e, soprattutto, passioni adolescenziali, di quelle che poi ti formano per tutta la vita.
Quando, appunto adolescente, parliamo del periodo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, approcciai “Il Signore degli Anelli” (non a caso nei tipi delle edizioni Rusconi), John Ronald Reuel Tolkien era un caso culturale ed anche politico molto dibattuto. Il fatto che il libro in Italia fosse stato adottato dalle giovani generazioni di “destra” – le quali, impegnate ad uscire da una sub-cultura incapace di relazionarsi da un lato con la Tradizione e dall’altro con il mondo moderno, non a caso chiamarono “Campo Hobbit” i loro campeggi estivi – costituì per l’opera di Tolkien un marchio di infamia agli occhi dell’egemone establishment culturale di una sinistra che già all’epoca stava perdendo colpi e consistenza travolta dal libertarismo individualista imposto dalla “rivoluzione” sessantottina, nata nei campus americani laddove Tolkien era stato “manipolato” per farne uno scrittore naïf in linea con il cosmopolitismo dei “figli dei fiori”. Il grande mainstream culturale italiano, dominato da paradigmi marxisti, recepì l’opera di Tolkien come una pericolosa fuga romantica strumentale al mantenimento delle relazioni socio-economiche della società borghese. Tolkien fu accusato di “escapismo”, di proporre cioè una “evasione” dai problemi politico-sociali reali, di dirottare il lettore in mondi paralleli che lo distraevano dall’impegno politico.
Mai fraintendimento fu più ridicolo, perché se in effetti Tolkien porta il lettore in un “mondo secondario” al tempo stesso gli fornisce la consapevolezza che quel mondo non è soltanto immaginario ma anche un modello per quello “primario”. Il Professore di Oxford si è assunto il grande compito di riportare all’attenzione del pubblico contemporaneo categorie religiose, culturali e antropologiche, sulle quali hanno poggiato per millenni tutte le civiltà umane, come il Mito, l’Epica, l’Epopea. Egli – in un panorama, quello novecentesco, nel quale prevalevano i paradigmi dello scientismo, del neorealismo, del sociologismo, che d’altronde continuano ad essere egemoni anche oggi benché sempre più stancamente – ha avuto l’ardire di richiamare in causa il Sacro, il Simbolo, la Trascendenza nei suoi rapporti con l’immanenza.
Tolkien ha riscoperto in letteratura ciò che parallelamente, nello stesso periodo, nell’ambito della storia delle religioni, andava riscoprendo un Mircea Eliade. Ossia che l’uomo non è solo e neanche in primo luogo homo oeconomicus, che l’uomo non è solo e neanche primariamente homo politicus – pur essendo certamente anche l’uno e l’altro – ma che l’uomo è prima di tutto, e come tale si definisce e caratterizza rispetto alle altre creature, Homo Religiosus. Tale egli è anche quando elabora sistemi di pensiero in apparenza secolari. É cosa ormai assodata che le ideologie, dietro un linguaggio altro, in realtà ripropongono, in forma “sconsacrata”, sistemi di tipo teologico, aspettative pseudo-escatologiche e pseudo-messianiche. Non a caso si parla di “teologia politica”. Anche il pensiero economico è nascostamente debitore di modelli religiosi: la “mano invisibile” di Adam Smith, ad esempio, è una parodia in ambito economico dell’idea religiosa di “Provvidenza”. Come sostiene Eliade, infatti, il Sacro non è una sovrastruttura, come ha creduto Marx, ma è la struttura portante e fondamentale della coscienza umana.
Il fatto che Tolkien ribadisse, contro la mimesis moderna di una sacralità sconsacrata, il carattere vero e autentico del Sacro come espresso nei Miti antichi, che egli rielaborava per crearne di nuovi intorno a temi sempre eguali e sempre diversi perché perenni presso tutte le culture, gli attirò, inevitabilmente, anche l’accusa di essere sostanzialmente un anti-moderno. Una accusa, questa, comprensibile nel contesto di un paradigma dominante di tipo storicista, di matrice idealistico-razionalista, ma incapace di cogliere l’esistenza nell’uomo di una dimensione imperitura, espressione di una originaria aspirazione all’Eternità, pur modulata sul piano storico in forme molteplici e dinamiche. Questa dimensione imperitura collega, nella sua essenza, l’uomo a ciò che i perennialisti chiamano Tradizione Primordiale e che è rintracciabile nei miti e nei riti di fondazione di tutte le civiltà umane. Almeno fino al Medioevo. L’Occidente moderno, post-medioevale, infatti, è comparso sulla scena storica come l’unica civilizzazione che ha inteso rescindere ogni legame con detta Tradizione.
In realtà quel genere di polemiche erano molto provinciali in quanto, a ben vedere, esse avrebbero potuto essere rivolte – ed effettivamente sono state rivolte – anche ad un Pier Paolo Pasolini, il quale, al di là dell’iconografia edificante ricorrente, è stato un autore – se proprio si vogliono usare certe categorie – profondamente antimoderno. Ad esempio, laddove il poeta friulano difendeva, contro l’imperante operaismo/industrialismo del suo tempo, le “pale d’altare”, l’Italia contadina e popolare, con la sua cultura identitaria ed ancestrale, che il “nuovo potere”, quello del capitale finanziario apolide, che ai suoi tempi aveva il volto dei “petrodollari”, stava distruggendo mentre andava ponendo, senza che quasi nessuno lo avvertisse, i fermenti del passaggio alla postmodernità liquida la quale avrebbe distrutto anche il vecchio operaismo. Oggi Pasolini, per le stesse ragioni per le quali difendeva l’Italia antica, difenderebbe il posto fisso e l’industria reale contro la speculazione finanziaria che ha modernizzato, in linea con il cosmopolitismo neoliberale, le relazioni sociali imponendo il precariato globale ed anti-identitario[1].
Non sembri fuori luogo questo accostamento tra Tolkien e Pasolini perché, ad esempio nelle descrizioni della vita pacifica e comunitaria della Contea, ritroviamo nel Professore di Oxford la stessa denuncia e la stessa critica di Pasolini verso una modernità che pretende di fare a meno delle “radici profonde che non gelano”. E già qui, come evidenzia nel suo libro qui recensito la professoressa Parissi, è possibile un accostamento tra Tolkien e la cultura classica laddove la Contea appare immediatamente come il “locus amoenus”, ossia il topos mitico dell’Eden impenetrabile dal male entrato nella vicenda del mondo. Un modello che porta l’autrice ad accostare l’opera di Tolkien alla “poesia pastorale” del poeta alessandrino Teocrito.
I tolkieniani – tra essi lo scrivente si annovera – ribattevano a tali accuse respingendo l’immagine della “fuga del disertore” per sostituirla con quella della “fuga del prigioniero”. Tolkien non invita affatto a disertare dai problemi reali quanto piuttosto a fuggire dalla gabbia di un mondo sempre più totalitario e disumanizzante per poi rifondarlo secondo l’indispensabile necessità di Sacro e di Comunità insita nell’uomo.
Orbene, di questo dibattito nel libro della professoressa Parissi abbiamo una attenta ricostruzione. Ci riferiamo, in particolare, al capitolo “Omnia Vincit Amor et Nos Cedamus Amori”, laddove l’autrice rammenta la stroncatura che di Tolkien, negli anni ‘50/’60, fece Elio Vittorini impedendo la pubblicazione delle sue opere presso Mondadori. Motivo per cui esse – nella traduzione della allora ventunenne Vittoria Aliata, autenticata e certificata dallo stesso Tolkien che conosceva bene l’italiano – furono poi pubblicate dalla Rusconi, a quel tempo casa editrice non allineata al paradigma egemone, in una collana diretta dal compianto Alfredo Cattabiani.
Ha dunque ampie ragioni la Parissi quando mette in rilievo l’incapacità di Vittorini nello scorgere ne “Il Signore degli Anelli” una metafora della realtà. La nostra studiosa ricollega la cecità di Vittorini nei confronti di Tolkien all’ignoranza della rivoluzione esegetica che era intervenuta nell’ambito degli studi su Dante introdotta da Erich Auerbach. La scoperta che le opere dell’Alighieri si comprendono soltanto attraverso l’utilizzazione della “tipologia”, un metodo che deriva dall’esegesi patristica della Scrittura, aveva consentito di comprendere le figure dantesche come attinenti in modo analogico al reale. Come nella Scrittura le figure anticotestamentarie sono figure tipologiche del Cristo Venturo e quindi profezie reali, anche in Dante – sostiene Auerbach – sussiste la stessa dinamica esegetica. La “figura” è in verità qualcosa di assolutamente reale, di storico, che rappresenta ed annuncia qualche altra cosa anch’essa reale e storica. La Parissi estende il criterio auerbachiano all’opera tolkieniana evidenziandone il carattere di “profezia reale”, di metafora della realtà, di – ci si lasci aggiungere – chiave di lettura della nostra umanità. Ma questo la Parissi può affermare perché in verità il Mito ed il Sacro, intesi in senso ampio e non solo quindi in quanto contenuti nell’opera di Tolkien, ma anche la Fiaba – che altro non è che il precipitato folklorico di antiche mitologie – sono essi stessi metafora della realtà, profezia reale e chiave di lettura dell’uomo.
Se per Aristotele la tragedia aveva una funzione di “catarsi”, di “purificazione”, per Tolkien la fiaba ha un ruolo analogo benché egli parli piuttosto di “consolazione” e di “liberazione”. Tolkien accoglie la dottrina aristotelica nell’interpretazione di John Henry Newman, maestro del suo maestro, padre Francis Morgan, che gli consente di superare i limiti della teoria di Aristotele ed anche la critica di Platone all’arte. Per lo Stagirita la catarsi è un processo mentale che si risolve in una “mimesis” ossia in una imitazione della realtà sicché l’arte è il risultato di tale imitazione. Platone, per il quale la vera realtà è quella dell’Iperuranio mentre la realtà fisica è solo ombra ossia una pallida imitazione del Mondo delle Idee, condanna tout court l’arte in quanto “imitazione della imitazione” che allontana ancora di più l’uomo dall’essenza del Reale. Newman critica questo genere di posizioni perché esse non tengono conto della fondamentale capacità sub-creatrice della poesia. La concezione tolkieniana dell’“uomo come sub-creatore” risale a questa critica di Newman. L’uomo, l’artista, non si limita ad imitare la realtà né a trasporre mentalmente una visione che quindi sarebbe evanescente ma, attraverso la sua potenza immaginifica, sub-crea un universo altrettanto realistico di quello primario. Questo mondo “altro” non è semplicemente “secondario”, non è una platonica imitazione dell’imitazione, ma ha la forza di portare il lettore a riflettere sulle idee basilari di Vero, di Bene, di Bello alle quali lo stesso Platone attribuiva importanza capitale. D’altro canto anche l’Ateniese ha fatto ricorso all’allegoria, molto simile al mito e alla fiaba. L’esempio più noto è il “mito della caverna”, con il quale egli intendeva esprimere e raffigurare allegoricamente la via della liberazione dell’uomo dalle catene dell’ignoranza – “avidia” ossia “oida”, il “vedere”, preceduto dall’alfa privativo – e lo sforzo del Maestro, del Sapiente, per aiutare gli altri in questo processo spirituale ed “iniziatico”.
Nel suo libro la Parissi insegue nell’opera del Professore di Oxford le tracce delle fonti mitologiche classiche ma anche, lo accenneremo, le fonti più vicine alla filosofia ed alla storia antiche. Una ricerca condotta con somma maestria e grande competenza nonché padronanza della materia tanto mitologica che tolkieniana. Il lettore non può non rimanere – almeno così è capitato al recensore – stupefatto dalla lettura del suo libro. Gli accostamenti tra l’opera di Tolkien e la mitologia classica – attenzione: non quella nordica, alla quale di solito si riconduce l’oxfordiano in quanto maestro in antiche lingue di ceppo sassone e germanico, ma quella ellenica, romana, mediterranea – che la nostra autrice ci propone sono senza dubbio fondati e lei ne dà ampia dimostrazione. Nello spazio di una recensione non è possibile che anticiparne qualche suggestione ma sufficiente per dare idea dell’ampiezza e valenza di un tale lavoro.

Il Fëanor Prometeo
Nella figura e nella vicenda dell’Elfo Artigiano Fëanor, il creatore dei Grandi Gioielli ossia i Simarilli, che suscitano le brame di Melkor, il Valar decaduto, la Parissi individua un richiamo al Prometeo della mitologia greca, l’ultimo dei Titani che sfida la deità per portare il fuoco agli uomini. Nell’una e nell’altra vicenda, la buona intenzione iniziale si rovescia in un evento che consente al male di entrare nella scena del mondo con conseguenze infauste. Le stesse che costituivano il motivo della proibizione divina. È il medesimo tema di un altro mito classico, quello del Vaso di Pandora, per sottolineare come ad un atto di übris corrisponda sempre ed inevitabilmente un contrappasso.

Il Fato e l’incesto
Un altro modello mitologico classico presente, secondo la Parissi, in Tolkien è rintracciabile nel racconto tolkieniano della vicenda dei figli di Húrin, Niniel e Túrin, che finiscono per innamorarsi nell’inconsapevolezza di essere fratelli. I due fratelli separati sono ricongiunti da un fato inesorabile. Túrin nel tentativo di fuggire dal suo passato, ed infatti si fa chiamare Turambar per nascondere la sua identità, uccide per errore l’amico Beleg. Mentre la sorella Niniel, il cui nome viene cambiato in Niëmor, rimane vittima dell’incantesimo del drago Glaurung, che la priva della memoria. I due fratelli quando si incontrano, ignari della loro parentela, scambiano la reciproca attrazione, causata dall’impulso inconsapevole della consanguineità, per amore e contraggono matrimonio. Glaurung sarà ucciso da Túrin, per liberare il popolo dalla sua feroce dominazione, ma prima di morire il drago, per vendetta, libera sua sorella dal sortilegio e così Niniel riacquista la memoria riconoscendo in suo marito il fratello. Questo racconto tolkieniano viene solitamente accostato al mito di Kullervo e Wanona tratto dal Kalevala finnico. Per la Parissi, invece, l’ispirazione di Tolkien va rintracciata nell’Edipo Re di Sofocle. Il Túrin di Tolkien è l’Edipo di Sofocle, il drago Glaurung è la Sfinge del mito greco che sfidava mortalmente i viandanti ponendo loro indovinelli trabocchetto, l’amico Beleg ucciso da Túrin prende il posto di Laio ossia del padre di Edipo che viene ucciso dal figlio ignaro della sua identità, la sorella Niniel, che Túrin sposa, altri non è che la Giocasta della tragedia greca ovvero la madre di Edipo da lui presa in moglie inconsapevole di essere suo figlio. Anche le origini delle due vicende sono simili. In quella greca vi è agli inizi l’oracolo dell’indovino Tiresia, sacerdote di Apollo, il quale annunzia la fine dei Labdacidi per mano del figlio, appena nato, di Laio e Giocasta. Nel racconto tolkieniano abbiamo l’anatema di Morgoth che svolge un ruolo più pressante dell’oracolo di Tiresia, in quanto Morgoth, a differenza dell’indovino greco, non si limita a svelare un oracolo ma, anatemizzando, mostra di possedere il potere di influire sulle vicende della vita di Húrin e della sua discendenza. Il nascondimento della sua precedente identità da parte di Túrin/Turambar è manifestazione di un atto di übris perché, contro la volontà della deità, egli pretende di essere padrone del suo destino. Il dimenticare ed il ricordare di Niniel chiamano in causa la “memoria” che nel mondo greco ha una valenza iniziatica. La (ri)scoperta del sé più autentico – quello al quale invitava il “conosci te stesso” scolpito sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, era per l’uomo ellenico un ricordare, un tornare a ciò che era stato dimenticato.

La Dama e la Pizia
Come la fata-matrigna della fiaba di Biancaneve, ma con intenti del tutto diversi, anche la Dama Galadriel – la “Signora degli Anelli” – interroga lo specchio ovvero una vasca d’argento piena di acqua di sorgente – nel mondo del mito classico le sorgenti erano ritenute luoghi di comunicazione tra uomini e deità – e, per questo, la Parissi la assimila alla Pizia, ossia la profetessa di Apollo, il dio della conoscenza, che interrogata svelava, attraverso il fumo degli olocausti, il futuro agli uomini. Questo genere di donne, dedite agli oracoli, era molto diffuso nel mondo antico e ne ritroviamo un esempio anche nella figura della pitonessa di Endor, nella Bibbia, I Libro di Samuele 28, 1-25, alla quale re Saul si rivolge per evocare l’ob, ossia una sorta di residuo psichico del defunto da non confondere con l’anima o lo spirito, del profeta Samuele. Lo specchio di Galadriel è a tutti gli effetti un Oracolo ma, sottolinea la nostra autrice, nella Dama si nasconde anche l’antico confronto/scontro tra la religione olimpica e la religione pelasgica mediterranea che ha preceduto l’arrivo degli achei. Qui il richiamo, implicito, è a Johann Jakob Bachofen ed al suo “Le Madri e la virilità olimpica”. La religione mediterranea pre-omerica era fondata sul culto di una divinità femminile e su un ordinamento sociale matriarcale. La stessa che nell’Odissea era propria del popolo dei Feaci sulle coste del cui regno approda Ulisse. In Galadriel possono scorgersi alcuni tratti della Pótnia, la “Signora” dell’antico culto mediterraneo, mai completamente eliminato quanto piuttosto assorbito dalla religione olimpica ed anche, sostiene la Parissi, certe parvenze mariane, benché qui si deve, a giudizio dello scrivente, essere molto più cauti dato che, al di là dei processi di acculturazione, che pur vi sono stati, nella ricezione di forme cultuali popolari, la Madonna, nell’economia della fede cristiana, svolge un ruolo molto diverso e per niente assimilabile a quello della deità matriarcale mediterranea pre-olimpica.

Beren e Lúthien / Orfero ed Euridice – l’eucatastrofe tolkieniana
Nella vicenda dell’amore tra Beren e Lúthien, con il sacrificio di quest’ultima che da elfo rinuncia alla sua immortalità per seguire nella condizione mortale l’amato, fuggendo dall’eternità di dolore che le si sarebbe prospettata a causa della perdita di Beren, la Parissi rintraccia, pur rovesciata nell’identità sessuale dei due protagonisti, la trama del mito di Orfeo ed Euridice riletto in chiave cristiana. Infatti le due narrazioni, quella tolkieniana e quella del mito, a partire dalla morte di Beren sono quasi perfettamente sovrapponibili, salvo l’esito finale che diversifica i racconti facendo trapelare la lettura cristiana dell’Oxfordiano. Lúthien che raggiunge le Aule di Mandos, per convincere il Vala dei morti a restituirle l’amato, agisce in modo identico, anche nel tentativo di persuasione, ad Orfeo. Come questi nel mito cerca di convincere Ade, suonando la cetra, a restituirgli Euridice, anche Lúthien intona un canto che finisce per affascinare Mandos.
… le vicende di Beren e Lúthien – scrive la Parissi – hanno seguito i modelli classici in modo pedissequo, seppur contaminandoli tra loro. Il cattolico Tolkien, però, non poteva di certo accettare che la storia dei suoi innamorati si concludesse come quella di Orfeo ed Euridice … che non ammett[e] … la misericordia neppure di fronte all’amore più profondo. Mandos, al contrario, si lascia commuovere fino ad intercedere per i due amanti presso Ilùvatar, che concede una scelta a Lúthien” ossia quella, appunto, tra immortalità nel dolore della perdita di Beren o la mortalità di una vita da trascorrere insieme all’amato[2].
La decisione presa dalla principessa – continua l’autrice – è durissima e definitiva e di certo non sarebbe stata approvata da suo padre, né condivisa dalla mentalità degli antichi. Lúthien … è la prima, tra i Figli d’Ilùvatar, a capire che la morte non è una maledizione, ma un dono, la possibilità di liberarsi dai travagli e dalle sofferenze della vita. La rilettura tolkieniana del mito di Orfeo ed Euridice giunge qui al suo punto più alto e la sua morale si capovolge: se Orfeo, che ha disubbidito ad un comando divino, è punito con il definitivo ritorno dell’amata nell’Ade, per Lúthien la morte è il premio meritato per il suo amore assoluto. In modo del tutto inedito e inconcepibile per la mentalità classica, che equipara, anche linguisticamente, morte e sconfitta, scegliendo la morte, Lúthien ‘vince’, ottenendo un’esistenza felice ed evitando il dolore di sopravvivere a colui che ama. Beren e Lúthien sconfiggono la morte due volte: nel senso classico, ottenendo ‘kléos àphthiton’ (‘gloria eterna’) con la loro impresa, che li renderà protagonisti dei canti della Terra di Mezzo nelle Ere a venire; e nel senso cristiano, meritando di vivere fino alla fine dei loro giorni uniti e liberi dalla sofferenza[3].
La scoperta della morte come dono, anche se la Parissi non lo dice, ci porta vicino alla francescana “sora nostra morte corporale”. In questa vicenda dell’amore tra una immortale ed un mortale si manifesta, spiega la nostra autrice, ciò che Tolkien chiama “eucatastrofe” ovvero una “buona catastrofe”: un esito buono oltre l’apparente disastro finale. L’eucatastrofe tolkieniana se, da un lato, è rintracciabile nell’esito consolante di molte antiche fiabe, dall’altro lato deve essere ricondotta al suo carattere di “evangelium”, di visione della Gioia oltre la muraglia del mondo. Quando Gandalf, durante uno degli attacchi degli eserciti dell’Oscuro Signore, che sembrano per un momento prevalere, descrive l’aldilà che potrebbe presto aprirsi di fronte ai difensori della fortezza assediata – parlando loro di bianche scogliere e prati verdi – gli Hobbit che lo ascoltano ne traggono quella consolazione – “non è poi così male” dice uno di essi – nella quale consiste, per l’appunto, l’eucatastrofe cristiana di Tolkien.
La Parissi, in proposito, concede la parola direttamente al Professore di Oxford, che in “Il Medioevo e il Fantastico” scrive: “Mi azzarderei … a dire che, avvicinando da questo versante la Storia Cristiana, ho avuto da gran tempo la sensazione (una gioiosa sensazione) che Dio abbia redento i suoi esseri corrotti e creatori, gli uomini, in un modo che si adatta a questo, e ad altri aspetti della loro singolare natura. (…). I Vangeli contengono … la più grande e più completa eucatastrofe che si possa immaginare. Ma questa storia è penetrata nella Storia e nel Mondo Primario; il desiderio e l’aspirazione della sub-creazione sono stati elevati sino al compimento della Creazione. La Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia. (…). Non è difficile immaginare l’eccitamento e la gioia peculiari che si proverebbero se ogni fiaba particolarmente bella si scoprisse vera in senso primario, se il suo contenuto fosse Storia, senza che per questo essa dovesse perdere il significato mitico o allegorico che aveva posseduto. La gioia avrebbe avuto esattamente la stessa qualità, anche se non la stessa intensità, della gioia che dà il “capovolgimento” in una fiaba: una simile gioia ha il gusto proprio della verità primaria. (…). La gioia cristiana, la Gloria, è dello stesso genere; ma è preminentemente (infinitamente, se non fossero finite le nostre capacità) alta e gaia. Perché questa storia è suprema; ed è vera. L’arte ha avuto la sua verifica. Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi. La Leggenda e la Storia si sono incontrate e fuse[4].
Qui al recensore sovviene l’opera di un autore, poco conosciuto al di fuori di taluni ambienti culturali e spirituali, Attilio Mordini, il quale ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca delle connessioni tra Mythos e Logos, demolendo la troppo facile contrapposizione che usualmente si fa tra essi. Mordini nella Parola, che è Verbum, ha scoperto il riferimento a Verità Superiori ossia le stesse tramandate nel Mito, il quale altro non che un “Racconto Sacro” che accade “in illo tempore” e costituisce in qualche modo un “annuncio” ovvero manifesta una Parola rivelatrice. Per questo il Mito è anche Logos Divino. Il Mythos/Logos nella Rivelazione abramitica – qui la differenza con le altre culture religiose – entra nella Storia umana fino a farsi Carne per la redenzione e la glorificazione – eucatastrofica avrebbe detto Tolkien – dell’uomo. In Cristo, per Mordini, il Mito e la Storia si sono incontrati e si sono fusi. Esattamente come aveva intuito Tolkien.

Saruman il Sofista vs Gandalf/Aristofane-Platone
Un altro aspetto, importante, del libro va sottolineato. La filosofia, nella Grecia antica, nasce come una riformulazione, più che come una negazione, del mito che la precede. Una riformulazione che interviene tra il VI ed il V secolo avanti Cristo. Giorgio Colli lo ha spiegato nel suo “La nascita della filosofia” applicando alla filosofia lo stesso metodo che Nietzsche ha applicato alla tragedia per indagarne l’origine. Sembra che Platone sia stato il primo ad adoperare il termine “philosophia” (letteralmente, “amore per il sapere”) per definire la propria ricerca, attribuendole in questo modo anche un inestinguibile carattere di resistenza alla decadenza. Nel senso attribuito al termine da Platone, infatti, ciò che il filosofo va cercando non è un sapere che non possiede ancora, ma un sapere già posseduto e poi smarrito. Per Platone, quindi, la filosofia non è semplicemente una ricerca progressiva ed incrementale, mossa da sete di sapere cose nuove, quanto piuttosto un nostalgico guardarsi indietro, o forse guardarsi dentro, animato da un profondo sentimento di perdita e disorientamento.
Orbene la nostra autrice coglie nell’opera tolkieniana anche un riferimento alla drammaticità del passaggio dal mito alla filosofia, nella Grecia antica, quando fu necessario respingere l’azione sottile ma distruttiva dei sofisti. Questi, utilizzando la dialettica, riuscivano a sostenere tutto ed il contrario di tutto ed a confondere il bene e il male o il vero ed il falso. I sofisti avevano introdotto relativismo, individualismo e nichilismo nel mondo apollineo della cultura ellenica. La filosofia, recuperando in forma nuova la Sapienza del mito, tentò di porre un argine alla tendenza distruttiva della sofistica che avrebbe portato la democrazia verso la tirannide. La Parissi vede nelle argomentazioni, rivolte a re Théoden, suadenti, sottili, apparentemente benefiche, di un Saruman, lo stregone che, mosso da orgoglio e da sete di potere, tradisce ponendosi al servizio dell’Oscuro Signore, la medesima abilità dialettica con la quale Gorgia, Protagora e gli altri sofisti insegnavano agli ateniesi che non esiste verità, che ciò che conta è solo l’utile, che il bene è fare il proprio interesse e che gli amici sono coloro che possono favorire la nostra affermazione ed i nemici coloro che l’ostacolano, che non esiste appartenenza alla polís ma soltanto una unica cittadinanza del mondo sicché ciascuno è libero di mettere le proprie abilità al servizio di qualunque governo o demagogo. In fondo, a ben vedere, l’abilità dei sofisti nel confondere bene e male, vero e falso, possiamo anche riscontrarla nel tentatore ofidico del Genesi, che non a caso insinua il dubbio – dubbio sofistico si potrebbe dire – nel cuore del Progenitori.
A Saruman il Sofista, secondo la Parissi, si oppone un Gandalf a metà strada tra il poeta Aristofane ed il filosofo Platone. Nell’ironia, nel biasimo – lo “psógos” greco –, con la quale Gandalf, spezzando con una risata l’incantesimo delle sue sofistiche parole, affronta Saruman, rivive la stessa metodologia decostruzionista con la quale un poeta comico quale Aristofane metteva alla berlina i tanti politici demagoghi che calcavano la scena delle polís greche in procinto di cadere sotto l’egemonia di Filippo il Macedone, padre di Alessandro Magno.
Gandalf – scrive la Parissi – distrugge l’immagine che Saruman ha creato di se stesso, facendolo apparire come molto inferiore a lui, spogliandolo della sua sacralità che lo ammantava immeritatamente e intorno alla quale egli ha costruito il suo potere …: lo stesso compito … assumeva in Atene il poeta comico: mettere a nudo, in ridicolo, le assurdità del sistema, ‘le debolezze della idolatrata democrazia’, un’azione resa possibile proprio da quella stessa ‘parrhesía’ (‘libertà di parola’) che solo la democrazia poteva garantire. Spettava al comico mettere in luce la disonestà dei politici, ma anche le storture dell’ordinamento costituzionale democratico, che egli, nonostante tutte le sue pecche, difende comunque[5].
La Parissi avrebbe potuto anche aggiungere – senza andare troppo lontano – un riferimento a quel noto passo della “Repubblica” nel quale Platone, che ben conosceva la malizia dei sofisti – anche perché la morte del suo maestro Socrate fu causata dall’essere stato scambiato per un sofista –, descrive molto efficacemente la deriva verso la tirannide di una democrazia priva di riferimenti superiori, etici, spirituali, identitari: “Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanto ne vuole – fino ad ubriacarlo – accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, un servo; il padre impaurito finisce per trattare il figlio come un suo pari, e non è più rispettato; il maestro non osa rimproverare gli scolari, e costoro si fanno beffe di loro; i giovani pretendono gli stessi diritti, la stessa considerazione degli anziani, e questi – per non parere troppo severi – danno ragione ai giovani. In questo clima di Libertà – nel nome della medesima – non vi è più riguardo né rispetto per nessuno. E in mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia[6].

La Misericordia in Tolkien tra Potnia e Provvidenza (Gollum)
Tolkien da cattolico era profondamente convinto dell’agire della Provvidenza nella storia. Tuttavia, secondo la Parissi, egli sceglie di far intervenire nel suo racconto un’altra forza assimilabile al Fato o Destino come inteso dai greci antichi. Una concezione tipicamente indoeuropea sulla quale tuttavia Tolkien innesta evidenti e fondamentali elementi tratti dal Cristianesimo. La Parissi chiama in campo la Moira, la filatrice del destino che stabilisce il momento della morte di una persona. La Moira era un residuo del culto pre-olimpico della Potnia ossia la Dea Madre della religiosità mediterranea detentrice del potere di trasmettere la vita e quindi di dirigerne gli eventi. L’autrice accosta la Madonna cattolica ad una evoluzione del culto mediterraneo della Potnia quando esso incontra il Cristianesimo. Come già evidenziato, sull’accostamento, non tanto sotto il profilo del folklore popolare ma quanto sotto quello del contenuto teologico, ci sarebbe molto da discutere. Più calzante è invece l’accostamento tra l’azione di orientamento riconosciuta all’antica deità e la Provvidenza cristianamente intesa. Giustamente la Parissi identifica, in ambito tolkieniano, l’inaspettato strumento della Provvidenza di Ilúvatar, il Creatore, in Gollum, nell’insignificante e persino ambiguo Smigol (o Smeagol) che, in qualche modo, nella vicenda tolkieniana è una sorta di “ultimo della terra”, di reietto. Il cammino dell’Anello dalla mano di Sauron e quella di Frodo è completamente gestito da una Provvidenza che in Tolkien è la reinterpretazione cristiana della Moira greca. Qui sussistono insieme una implicita professione di fede cattolica da parte di Tolkien ed un omaggio alla visione del mondo precristiana ed omerica. C’è però un elemento di novità nell’Oxfordiano rispetto al mondo classico. Perché se da un lato vediamo in azione qualcosa che ricorda la Moira/Potnia – non a caso il nome della Voragine, dove gettare l’Anello, è Monte Fato – dall’altro Tolkien introduce un tema ignoto agli antichi in età precristiana: “Un greco che avesse ascoltato … le vicende della Guerra dell’Anello probabilmente non avrebbe potuto comprendere le ragioni personali della misericordia di Frodo per Gollum, sicuramente avrebbe interpretato come una follia la scelta di Bilbo di risparmiargli la vita e ancor più illogica gli sarebbe parsa la spiegazione che di questa scelta dà Gandalf a Frodo, ma, una volta giunto alla conclusione del poema, gli sarebbe stata perfettamente chiara l’identità dell’“altra forza in gioco”, che avrebbe riconosciuto allo stesso modo di un lettore cristiano, che pure le dà un nome ed un’origine differenti. Qui entrano in gioco tutta la sottigliezza e la maestria di Tolkien, che riesce a nascondere l’essenza più profonda della sua religiosità cattolica dietro uno dei pilastri di quella classica[7].
Nell’economia della vicenda de “Il Signore degli Anelli”, la misericordia mostrata da Frodo verso Gollum – a differenza di Sam che volentieri sopprimerebbe Smeagol – è un fatto, in un primo momento, apparentemente non rilevante che, invece, è fondamentale nella trama degli eventi ultimi, potremmo dire “escatologici”, della narrazione, quelli che portano alla distruzione dell’Anello. Il cattolicesimo di Tolkien, attraverso l’introduzione del tema della Misericordia, oppone la pietas alla übris in una modalità incomprensibile per un precristiano, dato che, nel mondo greco-romano, il concetto di pietas, benché contrario a quello di übris, era legato all’idea di assolvimento “pio” di un dovere imposto dalla Deità o dall’Ordine cosmico e, quindi, non comportava affatto quella “pietà del cuore” verso i miseri – miserere cordis – tipica del Cristianesimo.

La Contea ed il “buon governo”
Ne abbiamo già accennato. La Contea in Tolkien è un “locus amoenus”, un “eden”, tratto dalla descrizione tipica della poesia pastorale del poeta alessandrino Teocrito. Ma proprio nelle vicende della Contea vengono evidenziate le idee “politiche” di Tolkien. Diciamo politiche in senso lato ossia senza alcun riferimento a temi politologici o di tipo ideologico. L’organizzazione politica e sociale della Contea da un lato rispecchia l’ideale tolkieniano del piccolo proprietario di campagna che vive in un contesto comunitario privo della presenza di un governo accentratore. Il decentramento amministrativo ed una vita sociale intrisa di un forte senso di appartenenza comunitaria erano ancora conosciute nella realtà rurale dell’Inghilterra della prima metà del secolo scorso ed è a questo concreto ideale che Tolkien ispira la descrizione del modus vivendi degli abitanti della Contea. Al quale, nelle sue lettere private, oppone, con orrore, ciò che egli chiamava il “cosmopolitanesimo americano” intendendo con tale espressione le tendenze titaniche ed accentratrici che la modernità mostrava ai suoi tempi. Secondo la Parissi sussiste una analogia esplicita tra il sistema di vita della Contea e l’organizzazione della Itaca di Ulisse che, nel racconto omerico, era un regno governato con giustizia “aristocratica” e nel quale la distanza tra il re ed i suoi sudditi era molto ridotta, fino a contemplare in una qualche misura la redistribuzione della ricchezza, come ad esempio nella spartizione equa del bottino tra Odisseo ed i suoi compagni. Orbene, questo modello di “buon governo” viene sconvolto dal sopraggiungere esterno di agenti del male. Ad Itaca come nella Contea. Se la prima cade sotto l’avido dominio dei Proci, la seconda finisce preda di Saruman. Sicché si possono anche qui rinvenire diversi accostamenti tra Tolkien ed Omero. Alle schiave traditrici dell’Odissea, che passano dalla parte dei Proci, corrispondono Pustola e Sabbioso, hobbit collaborazionisti del Nuovo Ordine. Ad un Odisseo che fa cadere, nella sala del trono di Itaca, gli stracci di mendicante sotto i quali cela la sua identità fa riscontro un Pipino con il suo gesto teatrale di aprire il mantello, mostrando l’armatura, di fronte al Guardiacontea al servizio di Saruman. D’altro canto anche l’Aragorn di Tolkien come l’Ulisse di Omero entrano in scena in incognito.

Il Ritorno del Re
Secondo l’autrice, infatti, l’intera vicenda di Aragorn, del Ritorno del Re sul trono di Gondor – una vicenda che costituisce l’obiettivo ultimo dello scontro epico del “Signore degli Anelli”, al quale è preordinata la distruzione dell’Anello del Potere e del dominio di Sauron, l’Oscuro Signore – è ricalcata sullo stesso tema mitico de l’“Odissea”, la quale narra, appunto, del ritorno a casa del re di Itaca, con tanto di strage finale, un atto di giustizia, dei Proci usurpatori. L’Odissea d’altro canto – come ci informa la Parissi – è l’unico esemplare pervenutoci di un genere letterario greco, quello dei “Nóstoi” o appunto “Ritorni” che narravano le gesta di condottieri nel loro viaggio di ritorno verso la Patria. I “Nóstoi Anákton”, ossia i “Ritorni dei Re” appartenevano a questo genere epico. Tuttavia Ulisse, nel mito classico, è un ὑβριστής (úbristes) perché, dopo essere tornato ad Itaca, si macchia, come ci è stato tramandato da Dante (non conosciamo in realtà il seguito del mito greco), di übris cercando di raggiungere da solo le Terre Immortali a lui precluse. Invece Frodo si guadagna il diritto di accedervi per via della sua “pietas”, nella reinterpretazione cristiana che Tolkien fa della pietas pagana.

Gondor/Roma
Nella ricerca delle fonti classiche in Tolkien, l’autrice si è imbattuta non soltanto nella mitologia ma anche nella storia antica, in particolare quella dell’impero romano. Il parallelo viene colto tra le vicende del regno un tempo unito di Gondor ed Arnor e quelle appunto dell’impero di Roma. Gli accostamenti possibili, infatti, sono molteplici, dall’estensione geografica fino alla crisi. Sia Roma che Gondor/Arnor occupano l’intero Occidente (la sola Gondor la parte sud-occidentale del continente), e la loro espansione segue la medesima doppia direttrice verso nord e verso est, costituendone una sorta di riunificazione nella quale le due polarità trovavano un Centro ossia Roma nella realtà storica e la capitale Minas Tirith ne Il Signore degli Anelli. Ma è, forse, nella vicenda della crisi del regno come dell’impero che le similitudini appaiono impressionanti. Le pressioni dal nord e da est di Germani e Parti, nella realtà storica di Roma, e di Mordor e Angmar, nella narrazione tolkieniana, nellìuno e nell’altro caso sono causa della suddivisione politico-amministrativa. Tra una pars Occidentis ed una pars Orientis, dopo la tetrarchia dioclezianea, per Roma. Tra le due parti dell’antico Regno unito di Gondor/Arnor, in Tolkien. Anche lo spostamento della capitale da Roma a Costantinopoli e da Osgiliath a Minas Tirith (originariamente Minas Anor) costituisce un parallelo tra la vicenda storica di Roma e quella fantastica di Gondor. In Tolkien la caduta di Osgiliath, la antica capitale di Gondor, assume un significato analogo alla caduta di Roma nel 410 per mano dei visigoti di Alarico. La stessa descrizione tolkieniana dell’antica capitale abbandonata è molto simile alle cronache medioevali sullo spopolamento della Roma post-imperiale. La conseguenza principale degli eventi che segnano la crisi di Gondor/Arnor è l’inizio della fine della sua parte più debole che implode in una molteplicità di piccole autonomie locali, tra le quali la Contea, facendo della narrazione tolkieniana il corrispondente, nella realtà storica, del formarsi dei regni romano-barbarici sulle spoglie della pars Occidentis dell’impero romano.

La Lotta delle Stirpi e l’arcanum imperii del 69 d.C.
Alla radice del collasso dell’antico Regno unito Tolkien pone una fase di torbidi detta “Lotta delle Stirpi”, causata dal rifiuto dei Gondoriani di accettare come sovrano un esponente del popolo dei Dúnedain del Nord, considerato straniero. La guerra civile che sortì dal questo rifiuto fu tanto cruenta che il suo esito alla fine sarebbe stata l’accettazione da parte della nobiltà e del popolo del potere della forza quale sostituto del legittimo potere tradizionale. Al governo del regno si poteva arrivare anche con la forza militare quando essa è sufficiente a legittimarsi da sola, e non dunque per diritto ereditario di sangue. Qui l’analogia viene scorta dalla Parissi con la realtà storica del periodo di torbidi che seguì la fine, con Nerone, della dinastia giulio-claudia, formalmente rispettosa dei privilegi senatoriali. Alla morte di Nerone, infatti, seguì l’anno dei quattro imperatori nominati non dal senato, che si limitò a ratificarne la nomina, ma dalle legioni delle quali essi erano a capo. Presto eliminati i primi tre, Galba, Otone, Vitelio, da congiure militari, emerse il potere del generale Vespasiano, le cui legioni erano di stanza in Palestina. Con Vespasiano finiva per imporsi una diversa realtà istituzionale fondata non più su un legittimo titolo tradizionale, come era stato fino ad allora, ma su un nuovo potere basato sulla forza dell’esercito e capace di garantire ordine e sicurezza indipendentemente dalla sua legittimità tradizionale. In Gondor La surroga del legittimo potere regale, alla fine del periodo della “Lotta delle Stirpi”, con quello dei Sovrintendenti è il corrispondente tolkieniano dell’emergere a Roma, dopo l’anno di anarchia, del potere militare della dinastia dei Flavi, sicché Vespasiano, che sale al trono appunto nel 69 d.C. e che in quanto originario di Cittareale non apparteneva all’aristocrazia romana e dunque era una sorta di “straniero”, trova il suo analogo in Mardil, il quale non osa proclamarsi re di Gondor ma ne esercita di fatto il potere inaugurando, per l’appunto, il regime dei “Sovrintendenti”. L’ultimo dei quali sarà Denethor tanto ambiguo quanto folle nella sua arrogante ignavia. Ambiguo soprattutto perché – verrebbe da aggiungere in considerazione della coeva fonte cristiana di ispirazione in Tolkien – anche Denethor come il biblico Erode, accostabile in qualche modo ad un “Sovrintendente” del regno d’Israele, teme l’arrivo del Vero Re, del Re legittimo, e non vuole cedergli il potere.

La Cosmogonia del Silmarillion tra Mito esiodeo e Genesi biblica – la concezione del tempo in Tolkien
A conclusione di queste note è importante mettere in rilievo un ultimo ma importante tema affrontato dalla Parissi che meriterebbe ulteriori approfondimenti e che sta particolarmente a cuore al recensore. Tolkien è stato un eccelso conoscitore di mitologie e lingue antiche ma, come si è già accennato, era un cattolico ed un cattolico convintamente conservatore, oseremmo dire tradizionalista. Esistono sue corrispondenze private, nelle quali tratta del Mistero Eucaristico, che sono piccoli gioielli di alta teologia, ed altre nella quali lamenta le devastazioni liturgiche apportate dal Vaticano II con la conseguente secolarizzazione del Rito Centrale del Cristianesimo. Sua madre, vedova, fu espulsa e diseredata dalla famiglia anglicana per essersi convertita al Cattolicesimo. Prima di lasciare questo mondo, ella affidò i suoi due figli piccoli, Tolkien ed il fratello, alle cure di padre Francis Morgan, un sacerdote cattolico allievo di John Henry Newman. Quest’ultimo, come detto, fu il grande pensatore inglese, anche lui un anglicano convertito, al quale si deve quello che è stato chiamato il “Catholic Revival” nell’Inghilterra tra il XIX ed il XX secolo. Una rinascita del cattolicesimo inglese che ha prodotto pensatori di eccezione quali Hilaire Belloc, Gilbert Keith Chesterton, Robert Hugh Benson e, il pur anglicano-cattolico, Thomas Stearns Eliot, influenzando anche poeti e pensatori non cattolici come Ezra Pound.
Tolkien non è stato certo il primo cristiano a lavorare su una materia pre-cristiana e “pagana”. Tutta la Patristica, Agostino, i medioevali come Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri hanno fatto, prima di lui, lo stesso. Se i Padri della Chiesa hanno lavorato intorno a Platone per farne venir fuori il Plato christianus, distinto dal Plato a-christianus, se l’intera classicità ellenistico-romana fu assunta dalla nuova fede quale “propaideia Christoú” o “praeparatio evangelica” (Eusebio di Cesarea) e se lo Pseudo-Aereopagita ha potuto riformulare il neoplatonismo secondo la prospettiva soteriologica rivelata dalla Fede cristiana, tutto questo è stato possibile, aldilà di qualsiasi argomentazione meramente storica, perché esiste una Fonte Primordiale Trascendente alla quale, prima dell’Incarnazione, anche i pagani in qualche modo si sono abbeverati non meno degli ebrei. Giovanni Reale, in una delle sue ultime opere, ha trattato delle “parole non dette” nell’opera di Platone suggerendo che l’Ateniese fosse addentro ad una tradizione spirituale la quale andava oltre la forma filosofica. Nella Teofania mosaica del Roveto Ardente quella medesima Fonte si è appalesata in una modalità ad un tempo apofatica e catafatica, svelatrice e rivelatrice, quella dell’“Io Sono Colui che Sono”, dalla quale prese l’avvio, già prima dell’età alessandrina, l’incontro ed il progressivo avvicinamento tra Gerusalemme ed Atene, tra la fede biblica e la filosofia greca a sua volta, quest’ultima, erede della più antica Sapienza mitologica.
Ne “Il Signore degli Anelli”, e la Parissi non manca di ricordarlo, il cattolicesimo di Tolkien trapela più volte. Ad esempio, come detto, nella misericordia di Frodo verso Gollum oppure laddove il buon Sam – Samvise Gamgee nel cui nome il suffisso inglese “Wise”, traducibile come il “saggio”, deriva dalla radice greca “weid”-”woid”-”wid”, latino “video”, ovvero “vedere” con richiamo alla condizione del Sapiente che nel mondo antico è “colui che ha visto” – afferma rivolto a padron Frodo “che c’è del buono in questo mondo”. Una espressione che l’Oxfordiano trae chiaramente da Genesi 1,31 (“Dio vide quanto aveva fatto ed ecco era cosa molto buona”). Nel Frodo che ascende il Fato, portando tutto il peso dell’Anello per liberarne i popoli afflitti, è visibile con chiarezza l’immagine del Christus patiens mentre ascende al Calvario sotto il peso della Croce per salvare l’uomo. Con la differenza che mentre Frodo non supera la sua tentazione – e sarà l’intervento di Gollum, da lui risparmiato, a conseguire la distruzione del male – Cristo invece la tentazione dell’Orto degli ulivi l’ha superata.
Nell’Anello del Potere, che insieme al dominio universale promette anche l’immortalità, Tolkien ha inteso raffigurare il tema biblico del “non serviam” di Lucifero e dell’“eritis sicut Dei”, Genesi 3,5, ovvero il peccato di orgoglio che spinge l’uomo a tentare l’auto-deificazione, l’autocostruzione dell’immortalità – un antico tema gnostico, ricorrente persino nella filosofia moderna – che è la tentazione perenne cui soggiace l’umanità quando non accetta l’immortalità come “dono” gratuito di Dio attraverso la partecipazione alla Vita Divina.
Nello stesso tema del Ritorno del Re – che la Parissi riporta fondatamente all’Odissea – è impossibile non sentire l’eco della escatologia cristiana, quella relativa alla Seconda Venuta di Cristo, questa volta gloriosa, per l’incatenamento definitivo dell’Anticristo – colui che l’islam chiama Al-Dajjal ed al quale Tolkien attribuisce la qualifica di “Oscuro Signore” ovvero Sauron – e per il ristabilimento della primigenia condizione umana, nella comunione con Dio, che restaurerà/instaurerà “i Nuovi Cieli e la Nuova Terra” (Isaia 65,17; Isaia 66,22; 2Pietro 3,13; Apocalisse 21,1). È il tema della “Terre Gaste”, dell’“Arbre Sec”, di Anfortas il “re ferito” e del “ristabilimento del Regno”, ben noto ai grandi cavalieri-trovatori medioevali, da Chrétien de Troyes a Wolfram von Eschenbach, del ciclo arturiano del Santo Graal. Un tema che sarà ripreso nel XX secolo da Thomas Stearns Eliot ne “La terra desolata”, metafora del mondo moderno segnato dalla crisi e dalla sterilità spirituale dell’Occidente.
Ma, probabilmente, è nella Cosmogonia del “Silmarillion” che il cattolicesimo di Tolkien traspare con evidenza dietro – attenzione: non contro! – l’impianto esiodeo ben evidenziato dalla Parissi. Come nel caso della Moira/Provvidenza, anche nel Silmarillion vi è un gioco di riflessi, corrispondenze e nascondimenti tra l’eredità della concezione pagana e la fede cristiana di Tolkien.
Per quanto sussistano differenze tra gli Angeli della tradizione biblica ed i Valar tolkieniani, il tema del “peccato/dissonanza” di Lucifero/Melkor, entrambi spiriti creati e più di tutti gli altri vicini al Creatore, fa emergere, dietro la concezione mitica precristiana, il tema cristiano dell’angelo viatore decaduto per orgoglio. Ma questo tema è posto all’interno di un quadro “emanazionista”, tipico del mito e della filosofia precristiana, senza per questo non essere suscettibile anche di una lettura/riformulazione in senso “creazionista”, come desunta dal Genesi biblico e dalla Tradizione orale ad esso connessa (infatti, il tema della “caduta degli angeli” e del “peccato di Satana” è tramandamento orale che trova appoggio scritturale in diversi punti dei testi biblici come, ad esempio, nella corrispondenza tra Genesi 1,1 ed Apocalisse 12,3-4 e 7,9).
Il racconto cosmogonico presso i miti antichi descrive il mondo come il risultato di una “caduta ontologica”, attraverso una progressiva frammentazione del Monos indifferenziato originario che procede per la polarizzazione dialettica di “doppi contrari”. La filosofia platonica e neoplatonica ha poi riformulato l’antica cosmogonia nei termini dell’emanazionismo. In ambito cristiano i Padri della Chiesa (Clemente Alessandrino, Origene, Agostino, Dionigi Pseudo-Areopagita) hanno, a loro volta, rielaborato, in sintonia con la Rivelazione cristiana, la prospettiva mitico-filosofica attraverso la categoria, anch’essa mutuata dal platonismo ma già presente nella Bibbia, in particolare nei suoi libri sapienziali, di “partecipazione” onde correggere l’emanazionismo con l’idea biblica della “creatio ex nihilo”. Senza con ciò negare l’Onnipresenza di Dio, nel cui “spazio” sono ricomprese le creature che benché altre da Lui vivono in Lui nulla potendo essere al di fuori di Lui. San Paolo, citando il poeta pagano Arato di Soli, lo aveva ben spiegato in Atti degli Apostoli 17,28 – “In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo” – parlando, non a caso, ai filosofi dell’Areopago ateniese.
A differenza dell’autrice, lo scrivente ritiene le differenze tra gli Angeli biblici ed i Valar tolkieniani molto meno significative di quanto possa sembrare. Non ritiene neanche il Dio creatore, Ilúvatar, del tutto assente nelle vicende della Terra di mezzo. Egli, infatti, pur restando come nascosto dietro le quinte, agisce spesso per mezzo dei Valar al pari del Dio biblico che agisce sovente per mezzo degli Angeli. I Valar tolkieniani sembrano differire dagli Angeli biblici soprattutto in quanto essi svolgono un ruolo di con-creazione che i secondi invece non espletano pur avendo un compito di intermediazione tra Creatore e creature umane molto importante. Pur “con-creatori”, meglio forse dire anche per essi “sub-creatori”, in omaggio alla concezione emanatista del mito antico, i Valar comunque non sono di per sé creatori – ossia non hanno un autonomo potere creativo – ma appaiono soltanto quali esecutori di un piano, in forma di musica ed armonia, del Creatore Unico. In qualche modo sono accostabili al “Demiurgo” platonico. Quest’ultimo, nella filosofia antica, assume il compito di “provocare” l’essere, la manifestazione, attraverso la frammentazione della indifferenziata monade primordiale. Quindi una caduta sarebbe all’origine del mondo e, nonostante Platone attribuisca un significato positivo al ruolo del Demiurgo, non possedendo egli la cognizione biblica della creazione – il mondo nella classicità è eterno nel suo costante e ciclico ripetersi – non può in fondo non ritenere la creazione/manifestazione comunque un allontanamento dall’Unità Originaria[8]. Va osservato, però, che, non a caso, a differenza della Monade unitaria ed indifferenziata cui fanno riferimento il mito e la filosofia antica, l’Eru tolkieniano ha piuttosto il carattere di una Divinità personale che non quello di una Unità indifferenziata cui solo il Demiurgo consente di manifestarsi.
Un analogo gioco tra emanazionismo e creazionismo possiamo riscontrarlo anche nel tema della invidia dei Númenóreani verso l’immortalità dei Valar. Presi da tale invidia, essi, soggetti “paganamente” alla übris ma cristianamente al peccato di orgoglio, si allontanano sempre più dall’Unico. Anche qui è possibile da un lato scorgere il tema emanatista, dato che i Númenóreani sono mortali perché nell’Ordine Cosmico sono più lontani dei Valar da Ilúvatar – quindi rappresentano un livello di “caduta” più basso ossia, in altri termini, un gradino più basso nel processo di decadenza –, e dall’altro il tema che è cristiano del peccato come tentativo di autocostruzione dell’immortalità, come auto-deificazione, con il rigetto della disposizione, invece santa, a riceverla quale dono kenotico di Dio ovvero per partecipazione gratuita alla Sua Vita Divina.
Queste differenze – quelle tra gli Angeli della tradizione biblica ed i Valar tolkieniani come quelle nel modo di intendere la übris dei Númenóreani, rendono possibile una esegesi ad un tempo cristiana e precristiana della cosmogonia tolkieniana. Ma la possibilità di una tale contestuale lettura, in fondo intrinsecamente coerente, dell’opera di Tolkien emerge, potente, anche a proposito della concezione del tempo presente nel “Silmarillion” e ne “Il Signore degli Anelli”. Nel mito antico, come tramandatoci da Esiodo, la concezione del tempo è ciclica perché connessa all’idea, sopra vista, della manifestazione come progressiva decadenza che si snoda per successive età, ciascuna delle quali peggiore delle altre nel suo allontanarsi dall’Origine, fino all’età più oscura, quella del ferro (il Kali Yuga del Vedanta indù), la cui fine drammatica prelude al ristabilimento dell’iniziale età aurea ma soltanto per avviare di nuovo, in modo identicamente ripetitivo ed, in fondo, insensato ossia senza senso e pertanto senza significato, il ciclo della decadenza. Come evidenzia la Parissi, a pg, 11 del suo libro, Tolkien innesta sulla concezione ciclica di tipo esiodeo del Silmarillion, con lo snodarsi delle sue ere cui seguono azzeramenti e ripartenze cicliche in un “eterno ritorno”, un dettaglio molto interessante. All’inizio della Quarta Era, la nostra, non c’è alcun azzeramento ma un proseguimento senza soluzione di continuità nel computo degli anni.
Se volgiamo … lo sguardo alla Storia della Terra di Mezzo – scrive la nostra autrice –, vi ritroviamo uno schema evidentemente simile [al mito esiodeo]. Seguendo il calcolo dei Regni d’Occidente, essa è suddivisa in quattro grandi Ere, al termine di ciascuna delle quali il computo degli anni viene azzerato (…). È un dettaglio interessante che l’inizio della Quarta Era non comporti, come di regola, un nuovo azzeramento, ma che si prosegua a contare gli anni senza soluzione di continuità. La Quarta Era della Terra di Mezzo è la nostra, il tempo degli Uomini, che succede a quello degli Elfi e vede la decadenza dei Númenóreani. Come riportano le Appendici al Signore degli Anelli, all’inizio della Quarta Era, dopo la morte di Aragorn, gli altri membri della Compagnia dell’Anello e tutti gli Eldar traversarono il Grande Mare, lasciando definitivamente la Terra di Mezzo nelle mani degli Uomini. La traversata può essere interpretata come la rappresentazione simbolica del passaggio dal tempo del Mito al tempo della Storia, in cui il mondo avrà un altro volto e altri protagonisti. La breve disamina fin qui condotta si è posta l’obiettivo di individuare i più evidenti parallelismi tra la concezione esiodea e quella númenóreana della Storia. Sarebbe tuttavia fuorviante interpretarli come espressione della volontà di Tolkien di impostare la cronologia di Arda sulla falsariga di quella del mito classico. Tolkien, autore cristiano e cattolico, sceglie per la sua ucronia una Storia lineare, ricalcata su quella biblica, che ha inizio con la creazione degli Ainur da parte dell’unico dio Eru/Ilúvatar e si sviluppa nel corso di Ere successive. Non ricorrenti. La scansione in Ere fa parte dell’ordine della Storia, non di quella del mondo e riflette un tentativo di organizzare il tempo compiuto dagli Uomini di Númenor ed adottato nel resto della Terra di Mezzo (…). Non potrebbe esistere suddivisione più diversa da quella esiodea, che non è inserita nel Tempo, ma al di fuori di esso. Nella ‘Weltanschauung’ di Esiodo, la stirpe umana che viene ricostruita all’inizio di ogni nuova età non ha alcun legame con la precedente. (…). Così come il Tempo ciclico, anche quello lineare vede l’ingresso del Male nel suo scorrere. A differenza di quello, però, e in accordo con la propria natura, esso è presente dall’inizio, benché solo latente, e non si sviluppa per decadenza naturale dell’uomo, ma per intervento diretto di un agente esterno. Secondo l’Ainulindalë, tale agente fu Melkor, il più splendente degli Ainur, che creò il Male scegliendo deliberatamente di non accordarsi alla Musica diretta da Eru, ma di comporne una in totale autonomia, senza che gli fosse stata accordata facoltà creatrice. (…). La Dissonanza di Melkor è all’origine di tutto il Male del mondo, della tentazione in cui tutte le creature di Ilúvatar possono cadere, anche quelle a Lui più somiglianti: se i Nove re degli Uomini diventano schiavi del potere di Sauron a tal punto da perdere la propria essenza, deformandosi nei Nazgûl, anche la volontà di Galadriel viene messa a dura prova quando Frodo le offre l’Anello[9].
Anche il Dio biblico, come gli dèi pagani, si pente della creazione degli uomini, a causa del loro pervertimento, e con il Diluvio mostra la Sua Volontà di sterminio di questa genìa corrotta. Ma, a differenza delle divinità esiodee, il Dio biblico, che guarda al cuore degli uomini, si ferma di fronte al giusto Noè, salvandolo dalle acque. Il Diluvio e Noè non sono un evento ed un personaggio esclusivamente biblici in quanto li ritroviamo presso tutte le culture mitico-religiose dell’umanità, quasi a tramandare il ricordo di fatti veri in “illo tempore” ma biblicamente accaduti nella Storia. Questo perché – al di là delle troppo facili schematizzazioni a proposito della concezione del tempo, che non resistono, come vedremo subito, ad un più attento approfondimento – anche la Bibbia ha in incipit il Mito, o meglio una Verità – quella dell’Amore creativo di Dio – espressa in forma mitica, mentre la Storia compare in un momento successivo. È stato osservato che nella Bibbia sembra sussistere una sorta di spartiacque tra la narrazione precedente il Diluvio, la quale è narrazione dell’espandersi del male a partire dalla colpa originaria dell’Adamo, ossia dalla indotta ed ofidica pretesa di auto-immortalità, e quella successiva, più propriamente storica nel senso da noi inteso, che, dopo il ristabilimento dell’Alleanza noachica e la promessa divina di non annientare più l’umanità nonostante la sua debolezza verso la seduzioni del maligno, ha inizio con la vicenda del patriarca Abramo, al quale il Re di Salem (Pace) e Sacerdote dell’Altissimo, Melchisedek, rappresentante cananeo della Tradizione Primordiale che ha attraversato il Diluvio, concede la sua benedizione mediante l’offerta delle specie eucaristiche del Pane e del Vino, in vista dell’Incarnazione futura per la redenzione dell’uomo dalla sua colpa.
Alla luce di quanto sopra, diventa necessario quantomeno relativizzare lo schema per il quale alla concezione ciclica del tempo extrabiblica si contrappone quella lineare di radice abramitica, quindi appartenente ad ebraismo, Cristianesimo e islam. È uno schema che, se irrigidito, non coglie la prospettiva sapienziale della Fede monoteistica. Una prospettiva certo diversa da quella pagana ma ad essa non del tutto contrapposta nella misura in cui nella religiosità extrabiblica comunque si cela una parte, sovente irriconoscibile, della Verità Originaria. Un grande pensatore, già citato, purtroppo troppo poco conosciuto al di fuori della cerchia dei suoi amici personali, che lo conobbero in vita, e dei suoi successivi estimatori, il fiorentino Attilio Mordini, in un suo prezioso opuscolo[10], insegna che nel Cristianesimo la storia, intesa come vicenda umana lungo i secoli, ed il Mythos – ovvero la l’Originaria Storia Sacra, “in illo tempore” o “ab illo tempore”, del rivelarsi all’uomo del Logos, della Parola Divina – non si contrappongono, come troppo spesso si afferma, in quanto la prima è piuttosto la continuazione, o meglio, l’“incarnazione” del secondo nell’esperienza e nella memoria di un popolo, Israele, e poi, attraverso quel popolo, giunto il tempo dell’adempimento della Promessa Primordiale, nell’evento storico dell’Incarnazione del Verbo Divino che in Gesù Cristo si fa Carne per l’universalità del genere umano.
La dimensione esistenziale dell’uomo nella sua forma originaria, quella alla quale ci richiama il Mythos, era tale che egli non subiva i condizionamenti naturali della creazione perché viveva in comunione con il Logos Divino. La caduta – che qui non va intesa come caduta dello Spirito nella materia, secondo una accezione che tende a svalutare l’Opus Magnum della creazione in sé buona (Gen. 1,31) ma come chiusura del cuore all’Amore di Dio – ha introdotto nella scena del creato un elemento di disturbo dell’armonia di un Disegno che deve concludersi con la glorificazione dell’intero universo nel ricongiungimento della Fine con il Principio, come attesta l’Apocalisse. Un tentativo di perturbamento dell’Opera di Dio che ha reso necessario un Riscatto, ovvero la Passione, insieme all’Incarnazione la quale, invece, era contemplata sin dagli inizi come l’Asse portante dell’Opera Magna. Il rifiuto dell’Incarnazione, ovvero lo scandalo angelico per un Dio che vuol farsi carne “sporcandosi con la materia”, è insito nel luciferino “non serviam”.
Tutto questo, come è evidente, non ci parla affatto di una linearità del Disegno creativo e redentivo ma piuttosto di una circolarità trans-storica. Una circolarità volta all’Eterno attraverso la storia che si svolge nel tempo naturale. Non siamo certo di fronte ad una visione “ciclica”, senza senso nel continuo ripetersi sempre eguale di una storia modellata sulla ciclicità del tempo naturale o “cosmico” – non siamo, dunque, di fronte all’“eterno ritorno” delle culture extra-abramitiche – ma certamente non siamo neanche di fronte ad una visione lineare ed ascendente, “progressiva”, della storia, come troppo facilmente si afferma. Vi è nella Bibbia l’attestazione di una corrispondenza tra le diverse fasi del Disegno che va dalla Prima Creazione del Genesi alla Nuova Creazione dell’Apocalisse. Tanto è vero che la Bibbia non può essere correttamente interpretata se non cogliendo ciascun suo libro in stretta correlazione con gli altri libri, in una evidente circolarità e costante reciproco richiamo. Non può intendersi il Genesi se non alla luce dell’Apocalisse e viceversa: Alpha et Omega! Lo stesso compimento escatologico sopraggiungerà quando l’Omega sarà ricongiunto all’Alpha nel Ritorno del Re ossia alla Seconda Venuta, questa volta trionfante, di Cristo Signore a gettare per sempre l’Avversario nello stagno di fuoco.
La nostra ottima autrice ha perfettamente intuito ciò che il Mordini insegnava laddove, nel passaggio poc’anzi citato, ha messo in evidenza, con sapiente acume, la scelta tolkieniana di “una Storia … ricalcata su quella biblica” che, tuttavia, non è lineare, come sembra, quanto in sintonia con l’“Io Sono l’Alfa e l’Omega” dell’Apocalisse. La differenza, vera, della concezione cristiana del Tempo, che era quella di Tolkien, rispetto ai miti extrabiblici sta piuttosto in un altro aspetto ossia nel fatto che, nel contesto biblico, il compimento del tempo, se prelude ai nuovi cieli e alla nuova terra, non apre alcun “ciclo” successivo – non è previsto nessun “eterno ritorno” – in quanto il Disegno creatore e redentore è destinato a chiudersi, in eterno, con la Glorificazione – appunto i nuovi Cieli e la nuova terra – del creato che troverà anch’esso la sua trasformazione al seguito dell’uomo risorto nella carne, trasfigurato ma non privato anche della sua parte materiale ora assunta nell’Immortalità Divina.

NOTE

[1] Circa il Pasolini antimoderno e “reazionario” bisogna ricordare la sua critica al progressismo della sinistra che aggredendo la Tradizione e la religione popolare rendeva un servizio fondamentale al nemico capitalista, perché lasciava la scena politica e sociale sgombra da retaggi atavici in grado di infastidire la trasformazione antropologica che il Nuovo Potere andava imponendo per affermarsi. Il poeta sosteneva che “l’unica contestazione globale del presente è il passato” e che “Solo nella Tradizione è il mio amore” mentre elogiava “La destra divina [che] è in noi”. Pasolini così definiva la critica proposta dalla sua opera: “… nostalgia per un modo di essere che appartiene al passato (e che talvolta dà a Pasolini quasi un timido e sgraziato furore reazionario) e non si restaurerà più per una definitiva vittoria del male … e dei valori nuovi che a Pasolini sembrano intollerabili”. L’ultima sua poesia è dedicata ad un giovane fascista esortandolo a fare quel che lui non poteva fare ossia a “conservare, difendere, pregare”. Per le citazioni in questione si veda Marcello Veneziani “I peana per Pasolini fatti per rimuovere la sua critica radicale a questo presente” in “La Verità” del 16.12.2022.

[2] Cfr. A. Parissi, La Dama, il Re, il Ritorno. La mitologia e il mondo classico nell’opera di Tolkien, Il Cerchio, Rimini, 2022, p. 115.

[3] Cfr. A. Parissi, La Dama, cit., pp. 115-116.

[4] Cfr. A. Parissi, La Dama, cit., p. 119.

[5] Cfr. A. Parissi, La Dama, cit., p. 144.

[6] Cfr. Platone, 427/348 Ac, Repubblica, Libro VIII.

[7] Cfr. A. Parissi, La Dama, cit., p. 42.

[8] Il grande Ateniese sentì senza dubbio il conflitto tra la sua cultura, che gli imponeva di pensare il mondo come eterno, nella sostanza unitario oltre le differenze (da qui la svalutazione del reale a favore dell’ideale), e l’esigenza di un Amore creatore che egli avvertiva nel suo cuore. Tentò così di fare spazio a questa esigenza ricorrendo all’ipotesi di un “Demiurgo” al quale affidava la responsabilità della differenziazione del Monos indifferenziato onde dare vita alle forme del mondo. Per questo, in fin dei conti, il Demiurgo assolveva ad un ruolo positivo perché dava esistenza agli enti in una differenziazione della monade primordiale che diventava, per necessità, un fatto in sé buono, benché comportasse anche la prigionia della scintilla divina nella materia. Questa valutazione di bontà della “manifestazione” in Platone è in controtendenza al contesto generale del suo pensiero che guarda negativamente al reale manifestato come ad un’ombra dell’Ideale non manifestato, un riflesso da cui liberarsi uscendo dalla caverna. Furono intuizioni come quella suddetta, relativa al Demiurgo, che nascondevano l’esigenza di un Creatore e di una creazione, che consentirono ai Padri della Chiesa di parlare di un Plato christianus, diverso dal Plato a-christianus, e quindi di vedere nelle culture altrui, quella ellenistica in questo caso, i “semina Verbi”. Innestando, in tal modo, la Rivelazione sul terreno precristiano anziché fare tabula rasa di quest’ultimo. Perché, appunto, il Dio che si Incarna, in vista della Croce, lo fa non per condannare il mondo ma per salvarlo recuperando anche ciò che buono in origine era andato disperso a causa del peccato.

[9] Cfr. A. Parissi, La Dama, cit., pp. 11-13. Osserviamo, en passant, che la descrizione dell’inferno dei piccoli veggenti di Fatima, ai quali la Vergine Maria ha mostrato in visione l’abisso della perdizione, annuncia una sorta di dissoluzione ontologica dei dannati i quali cadono nel “fuoco eterno” come uomini per uscirne quali demoni o in forme mostruose. Si potrebbe ben effettuare un parallelo tra la deformazione degli uomini trasformati, dalle seduzioni del male, in Nazgûl e quella dei dannati infernali della visione fatimita.

[10] Cfr. A. Mordini, Il mito primordiale del Cristianesimo quale fonte perenne di metafisica, Scheiwiller, Milano, 1976; Il Cerchio, Rimini, 2019.