Minima Cardiniana 410/5

Domenica 26 febbraio 2023, Prima Domenica di Quaresima

LA PAROLA A DUE VERI COMPETENTI
ASCOLTIAMO SERGIO ROMANO E FABIO MINI
“È UNA GUERRA CONTRO LA RUSSIA, CHI L’HA VOLUTA NON SA COME USCIRNE”. INTERVISTA A SERGIO ROMANO
Se c’è una persona che conosce come le proprie tasche la realtà russa come quella americana, questa persona è l’ambasciatore Sergio Romano. Nella sua lunga e prestigiosa carriera diplomatica, è stato, tra l’altro, ambasciatore presso la Nato e ambasciatore a Mosca (1985-1989), nell’allora Unione Sovietica.

24 febbraio 2022-24 febbraio 2023. Un anno di guerra. Doveva essere un blitzkrieg si sta invece rivelando una guerra di logoramento. Una guerra infinita. A che punto siamo?
Credo che anzitutto bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni per cui questa guerra è scoppiata e quali sono le motivazioni che tendono a farne un conflitto quasi inarrestabile. Tenga presente che in questa guerra c’è una forte componente antirussa. In altre parole, è una guerra contro la Russia. Non è presentata come tale per una serie di ragioni, alcune giustificabili altre no, ma il Nemico c’è e per tutti quelli che sono impegnati nel conflitto quel Nemico è la Russia. Naturalmente la Russia si difende. Quelli che maggiormente hanno desiderato una guerra contro la Russia non hanno ottenuto, quanto meno per il momento, i risultati che speravano. La Russia si difende con una certa efficacia e a questo punto è diventato estremamente difficile per coloro la desiderano e l’hanno desiderata mettere fine al conflitto.

Perché Ambasciatore Romano?
Perché ne va della loro sorte politica. Non dimentichiamo che anche le guerre hanno delle persone dietro, persone che su quelle guerre molto spesso hanno giocato il loro futuro.

Il suo ultimo saggio ha come titolo La scommessa di Putin. Russia-Ucraina, i motivi di un conflitto nel cuore dell’Europa. Le chiedo: qual è la scommessa di Putin in questa vicenda?
Putin avrà anche delle ambizioni legittime, è un uomo di Stato. Ma la cosa più importante è che in questa vicenda sta giocando se stesso. E questo è molto pericoloso essendo persona autorevole nel suo Paese. L’unica possibilità di mettere fine alla guerra temo sia mettere fine a Putin. Brutte parole, mettere fine, ma la sostanza è questa.

Ambasciatore Romano, lei conosce come pochi altri la realtà russa. Ritiene che l’eventuale fine di Putin apra davvero la strada in Russia ad una stagione di democrazia o potrebbe anche esservi del peggio?
Io credo che l’assenza di Putin creerebbe un vuoto che molti cercheranno di riempire. In Russia esiste una corrente democratica. È una corrente che non è riuscita ad affermarsi sufficientemente sinora ma che certamente cercherebbe nella scomparsa di Putin di esercitare un ruolo nazionale.

A un anno dall’inizio ufficiale del conflitto che Europa si presenta a questa triste ricorrenza?
A me sembra che l’Europa non abbia cercato di assumere un ruolo. Non era facile, questo va riconosciuto, mettere d’accordo un numero di Paesi sufficienti per agire con efficacia. Un gruppo di Paesi indispensabile per avere un ruolo nel post-Putin. Temo che non ci sia. E qui purtroppo dobbiamo constatare che l’Ue in questa vicenda non ha avuto un ruolo. Era l’Ue che avrebbe dovuto esercitarlo. Perché rappresenta il gruppo di Paesi che maggiormente sono coinvolti nella vicenda e maggiormente ne soffriranno le conseguenze. Francamente non mi pare che l’Europa sia stata all’altezza delle nostre speranze, delle nostre attese, delle sue potenzialità.

E in tutto questo, l’Italia?
L’Italia non può far nulla da sola. Qualche tentativo c’è stato. Mi è parso, ad esempio, che Draghi avesse delle idee piuttosto chiare e anche qualche ambizione. Peccato che queste ambizioni non si siano materializzate.

Un tema sempre all’ordine del giorno è quello delle sanzioni. Molto si discute sugli effetti reali che hanno avuto nell’indebolire la Russia e Putin.
Sul piano economico hanno certamente avuto un impatto ma non nelle dimensioni sperate da coloro che l’hanno più fortemente volute. E poi c’è un altro discorso da fare che riguarda la psicologia di una nazione. Le sanzioni hanno alimentato un patriottismo russo anche dove non c’era. Gli americani sono convinti che le sanzioni servano a impedire una connivenza economica tra Europa e Russia.

Nel suo discorso al Castello di Varsavia, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha rivendicato con orgoglio come un importante risultato di questo anno di guerra l’allargamento della Nato a più di cinquanta Paesi. È una medaglia questa?
Questo mi sembra essere un altro modo di fare la guerra alla Russia. Perché parlare di Nato significa parlare di Russia. Tanto tempo fa, dopo la firma del Patto Atlantico, a quei tempi ero un giovane funzionario del ministero degli Esteri, ho creduto all’utilità della Nato. Poi mi sono reso conto col tempo che alla fine della guerra fredda abbiamo perso l’occasione della convivenza tra Paesi che avevano culture diverse. Gli Stati Uniti hanno aperto le battaglie della guerra fredda. Ho l’impressione che avessero bisogno di un nemico per continuare ad essere vincitori. Il potenziale nemico è stata l’Unione Sovietica. Ad un certo punto ha prevalso, nell’élite politica e diplomatica militare degli Stati Uniti, la convinzione che c’era un mondo che si era liberato della Russia, ciascuno di quei Paesi ex-satelliti aveva bisogno di essere aiutato per sviluppare la propria economia, per sviluppare il proprio Stato, per modernizzarlo e allora si sono detti “aiutiamoli e inseriamoli nel quadro di un’alleanza”, che è egemonizzata dagli Usa, la Nato. Allora hanno accolto uno dopo l’altro tutti i Paesi fino alle vecchie frontiere dell’Unione Sovietica, sono andati oltre le frontiere di questa, con i paesi del Baltico e se ci fossero riusciti nel 2008 avrebbero fatto lo stesso con la Georgia e l’Ucraina. Ora la Nato è considerata un’alleanza. Certo lo è ma è sui generis, non come quelle del passato. Le alleanze ottocentesche erano promesse reciproche: ci aiuteremo se abbiamo lo stesso nemico e soprattutto diamoci una mano anche in altre cose. La Nato è un’alleanza politica e militare in cui esiste un esercito permanente integrato, esiste un comando militare che lavora h24 con un comandante supremo che è in realtà un capo di stato maggiore, di tutti i Paesi che ne fanno parte, ma è sempre americano. Questo capo di stato maggiore fa esattamente quello che fanno tutti quelli che stanno al suo livello: preparano alla prossima guerra. Per farlo bisogna innanzitutto sapere con chi farla. E allora bisogna che ci sia il nemico, e guarda caso l’establishment militare americano non rinuncia a quel nemico. Non ha intenzione di rinunciarci. E quel nemico è la Russia. Continuare a dire che la Nato è un’organizzazione pacifica in cui si studia il mondo, si fanno studi, non mi sembra che si possa dire. Mi sembra anche ipocrita cercare di farlo credere.

Restando sulla “super Nato”. Quello di Biden è anche un messaggio rivolto alla Cina?
Non saprei dire se è anche un messaggio indirizzato a Pechino. Non mi sorprende che gli Stati Uniti continuino a considerare la Russia un rischio, un pericolo, un Paese che potrebbe a certo punto ridiventare un rivale importante. C’è una parte della società politica americana che ragiona ancora come se il rischio russo potesse esserci ancora. È quella parte degli Stati Uniti che vorrebbe che l’America avesse ruolo ancora più elettivo di quanto già non abbia.

Nel discorso di Varsavia, Biden ha toccato le corde della democrazia, dei valori condivisi dal mondo libero che oggi si oppone alla guerra di aggressione russa all’Ucraina. Siamo ad una riedizione di quella “guerra di civiltà” di irachena memoria?
Io credo che gli Stati Uniti siano in un certo senso convinti che il ruolo storico che hanno avuto per una larga parte del ’900 e che ha permesso di avere una posizione internazionale da difensori della libertà, possa essere perpetuato. Stanno rifacendo un po’ quello che hanno tentato, spesso con successo, con le guerre che hanno vinto, nelle quali hanno incarnato la funzione dei difensori della libertà.

Lei ha definito quella in atto una guerra alla Russia. Sarà una guerra infinita?
Di guerre infinite non ne conosco. Conosco delle guerre a singhiozzo, in cui ci sono fasi di relativa pace, o di pace anche, ma poi i vecchi i problemi, i vecchi dissidi, le vecchie ostilità alla fine ritornano sulla scena.
(Intervista di Umberto De Giovannangeli, Il Riformista, 24 febbraio 2023)

L’EUROPA IN GUERRA
INTERVISTA AL GENERALE FABIO MINI
di Chiara Madaro
Nell’immaginario collettivo, un militare d’alto rango non può che esprimere bellicismo. Il Generale Fabio Mini, già comandante NATO, con esperienza di lungo corso sui campi di battaglia, svela, invece, un profondo intellettualismo etico. La sua prosa chiara, illuminante, invita il lettore a porsi degli interrogativi che vadano oltre la ‘teatralità tragicomica’ di giornalisti e politicanti offerta nella rappresentazione del conflitto russo-ucraino, cuore di tenebra dell’Europa.
Presto o tardi, afferma, ogni guerra si rivela per quel che è: uno strumento al servizio di interessi inconfessabili e non collettivi. Per la Russia, mantenere relazioni energetiche con l’UE in ottica Eurasiatica, per gli Stati Uniti l’obiettivo è estendere la propria egemonia fino agli Urali e oltre ma anche demolire l’Europa energeticamente ed economicamente. Una opportunità unica per le esportazioni e gli affari, per entrare nel business della ricostruzione. In questo gli Stati Uniti hanno trovato, proprio nel Vecchio Continente, sodali della dottrina del Destino Manifesto anche a scapito degli interessi europei.
Per il Gen. Mini l’etica della guerra è cambiata: dalla Seconda guerra mondiale gli obiettivi erano militari ma il numero delle vittime civili, oggetto di gratuita ferocia, ha sorpassato quello dei soldati al fronte. In Ucraina il rapporto è tornato alle guerre arcaiche: l’ecatombe tocca ai soldati ma gli obiettivi veri e “paganti” sono i civili. Assordante il silenzio di chi dovrebbe sedersi al tavolo delle trattative e, anzi, mitizza questa ‘guerra su commissione’. Si rivelano, così, gli interessi di onnipresenti speculatori finanziari e del complesso militare industriale che sta inducendo gli Stati europei a disfarsi del parco bellico accumulato dagli anni della guerra fredda per rinnovarlo con armi di distruzione di massa di nuovissima generazione. Nel nome della deterrenza. Ma questa guerra che, a volerlo, potrebbe concludersi oggi stesso non terminerà con la proliferazione militare. Può spegnersi, al contrario, se dall’alto si inducono mandanti e attori del conflitto ad accordarsi. L’intervento della Nato sarebbe impossibile se anche solo uno dei Paesi membri lo rifiutasse, in funzione del requisito di unanimità delle decisioni che di fatto consente a qualsiasi Paese di porre un veto. E la guerra cesserebbe se gli sponsor diretti e indiretti si astenessero dal sostegno politico, popolare e militare al conflitto. È successo già nelle guerre di Corea, Afghanistan, Iran e Iraq, Vietnam.
Invece si fomenta l’escalation militare e l’ingresso diretto degli Stati Uniti in guerra. Sarebbe la Terza Guerra mondiale, la guerra di distruzione totale. Dopo, il genere umano – o quel che ne rimane – tornerebbe a combattersi con la clava.
Le argomentazioni del Generale Mini ci dicono come non sia possibile rimanere in silenzio davanti ad una congiura che può degenerare e rimanere impune solo se assecondata da un’opinione pubblica indifferente, ignara, inesperta, inconsapevole di certi meccanismi.

In questo libro ogni capitolo è scandito da massime di generali cinesi. Tutte invitano alla ragionevolezza, a meditare prima di intraprendere una guerra, a capire come uscirne il più indenni possibile senza coinvolgere civili e infrastrutture. Chi si aspetta cieco bellicismo da un militare del Suo livello ed esperienza si ritrova davanti ad un personaggio che – proprio per diretta conoscenza della guerra e della sofferenza che comporta – invita alla diplomazia. È una strada percorribile ancora?
Sì, e lo dico con rammarico perché è la strada che si poteva percorrere ben prima della guerra ed evitare la tragedia. Ogni giorno che passa senza dare spazio alle soluzioni ragionevoli è un insulto all’intelligenza e all’umanità ma anche a principi della guerra riguardanti l’economia degli sforzi e delle risorse oltre che la sicurezza dei propri uomini e delle popolazioni.

La guerra in Ucraina sta coinvolgendo l’Europa intera con i rifornimenti di armi. Vaso di coccio tra vasi di ferro? Contesi tra il progetto Eurasiatico e quello Atlantista. Perché non possiamo avere una nostra autonomia?
Non ci è concesso e anche se lo fosse, in questo Occidente abbiamo perso la mentalità dell’autonomia e dell’indipendenza. Riteniamo più comodo dipendere da qualcuno e da qualcosa come le armi.

Durante una Sua intervista questa estate Lei ha parlato della tattica militare russa: avanzare per poi arretrare con i carri armati senza mai usare l’aeronautica. La propaganda in Occidente parla di sconfitte russe, dell’esercito ucraino che costringe i russi al ritiro. Da un punto di vista militare che senso ha questa tattica
In quel periodo la situazione era effettivamente gestita soltanto dalle forze terrestri. Ciò era dovuto ad alcune disfunzioni organizzative, sottovalutazioni e cautele russe. Le disfunzioni riguardavano la cronica separazione delle forze operative più in concorrenza che in cooperazione fra loro. Le cautele negli attacchi aerei cercavano di non innescare la misura della No-fly zone minacciata dall’Occidente. Le sottovalutazioni riguardavano la misura dell’intervento americano militare e privato. I sistemi di intercettazione e antiaerei del Pentagono e la costellazione di satelliti messa a disposizione da Elon Musk limitavano l’efficacia dell’arma aerea. Il tutto era condito dalla iniziale convinzione di poter fare una guerra “al risparmio”. Oggi mi sembra che la guerra aerea sia preponderante nella forma missilistica e di bombardamento. La ratio della guerra è in questo momento la distruzione strutturale dell’Ucraina e mi sembra che funzioni. Non ho mai visto sconfitte clamorose russe e tatticamente ho visto soltanto assestamenti e adeguamenti degli obiettivi alle forze disponibili. Le grandi battaglie e controffensive della propaganda sono frammenti di combattimenti in cui la sola ragione è ammazzare più soldati possibile: russi e ucraini.

Durante la guerra si è visto come quello della contesa culturale e linguistica delle regioni russofone sia stato un pretesto. La guerra si sta combattendo per ottenere la supremazia su città fondamentali per la posizione geografica: città portuali o che si trovano lungo fiumi navigabili o snodi commerciali importanti o biolaboratori al confine con la Russia. È mai finita la guerra fredda
In effetti questa guerra può definirsi come la prosecuzione o quanto meno la ripresa della guerra fredda. Io propendo per l’idea della continuazione perché dal 1989 in ambito politico-militare non ho mai visto un momento in cui Stati Uniti e Russia abbiano veramente cooperato alla pari. Nei primi anni dopo la caduta del muro di Berlino c’è stata una sorta di cannibalizzazione della Russia accettata da capi idealisti e disattenti. In ambito politico-militare occidentale si cercava comunque di ripristinare la logica del Nemico Malvagio. Per un periodo le minacce diventarono “fattori d’instabilità” e quindi gli avversari maligni erano tutti coloro che si opponevano alla logica bipolare. Poi fu il terrorismo islamico e “finalmente” si scoprì la Cina come Nemico Perfetto in quanto economicamente in ascesa e militarmente impreparato. La guerra sta colpendo le città e gli obiettivi strategici. Tra questi c’è la tenuta della popolazione che non è affatto secondario o collaterale. In questo campo la contesa culturale e linguistica è stata la base per motivare russi e antirussi. Il Donbass è stato il fulcro ma la cosiddetta derussificazione attuata dal 2014 in poi ha colpito i russofoni presenti in tutta l’Ucraina con metodi repressivi e vero e proprio razzismo. La denazificazione invocata dalla Russia si riferisce a questo e non riguarda solo il Donbass ma tutta l’Ucraina e in primis la sua dirigenza.

L’intervento diretto della Nato potrebbe essere evitato se anche solo uno dei Paesi NATO ponesse un veto. Lei dice: è già successo altre volte che una guerra si sia arrestata per “anemizzazione” o esaurimento della volontà di proseguirla. Poniamo che l’Italia decidesse di andare in questa direzione: quali meccanismi diplomatici determinerebbe una posizione di questo tipo?
Nella Nato vige il principio dell’unanimità delle decisioni. I metodi per aggirarlo sono tanti e purtroppo l’Italia da sempre partecipa a questo aggiramento. C’ è il ricorso alla procedura del silenzio-assenso: si danno due ore di tempo per decidere e chi non risponde è ritenuto favorevole alla proposta. Ovviamente è un metodo molto comodo per accelerare le decisioni in momento di crisi ma anche per evitare ai paesi membri “l’imbarazzo” di una risposta negativa. Poi c’è il metodo della negazione: si nega che esista una guerra e s’interviene, si dichiara un’operazione di pace o assistenza o cooperazione o addestramento ecc., e s’interviene contro qualcuno; poi c’è la separazione: i paesi sono liberi d’intervenire come singoli o coalizioni di volenterosi. Ed è solo un caso che i volenterosi facciano sempre ciò che vogliono i potenti della Nato. Se l’Italia si dichiarasse contraria a questi giochetti dovrebbe affrontare una campagna di criminalizzazione feroce e i potenti della Nato potrebbero anche rivedere il principio dell’unanimità delle decisioni. Ovviamente per aumentare l’efficienza e l’efficacia degli interventi. Ovviamente.

Chi governa un Paese dovrebbe aspirare al benessere dei civili e dei militari più valorosi. Qui vediamo attuarsi, invece, logiche distruttive e autolesioniste. Già in passato Lei ha denunciato una rivoluzione nell’etica della guerra: oggi i militari sono al fronte ma le vittime civili anche di torture ormai non si contano. Perché si colpiscono i civili? In virtù di cosa? Di quali interessi?
In virtù del principio barbaro che il nemico non è solo e non più il soldato ma la popolazione che in quanto nemica è per definizione maligna. Nessun nemico è innocente o ignaro, e l’appartenenza o la sola condivisione delle ragioni dell’avversario è sufficiente a considerare i civili armati o disarmati come “non persone”: senza diritti giuridicamente riconosciuti. Se il nemico è una società cosiddetta democratica i civili sono obiettivi intenzionali, deliberati, per la loro capacità d’influire sulle decisioni politiche e militari. Se il nemico è un’autocrazia o dittatura i civili sono l’oggetto della punizione. Questa è la sostanza mentre la vernice di questa barbarie è fornita dall’ipocrisia: i civili sono obiettivi non intenzionali, sono effetti collaterali, tragedie di una violenza voluta dall’avversario. La colpa è sua.

Generale, dunque questa guerra poteva essere disinnescata fin dall’inizio. Lei racconta (p.53) come i termini sostenuti in campagna elettorale da Zelensky andassero proprio in direzione di un concordato. Poi ha ricevuto minacce di morte. Spesso in questa guerra si è avuto l’impressione che Zelensky risponda ad altrui interessi. Chi ha minacciato Zelensky? Perché?
Nel 2019 Zelensky si è trovato al potere con un voto espresso da una larga maggioranza ucraina grazie a tre promesse elettorali: porre fine alla guerra/repressione in Donbass che durava da cinque anni, parlare con la Russia e dichiarare la Neutralità. Anche a rischio di perdere voti. In quel momento al potere si trovavano anche gli estremisti di Pravy Sector che con meno dell’uno percento dei voti in due elezioni dal 2014 occupavano tutti i settori del potere e del governo e ricevevano aiuti e addestramento militare dagli Usa, dalla Nato, dalla Germania, dalla Gran Bretagna, dalla Polonia e dagli altri paesi baltici. Tre giorni dopo Zelensky è stato minacciato di morte, condotto in Donbass a parlare con i miliziani e ritenuto seminfermo mentale o sprovveduto. Terminare la guerra e parlare con i russi sarebbe stato considerato un tradimento della Patria. “Non avrebbe solo perso voti, ma la testa” disse un capo estremista. Poi, con le pressioni occidentali Zelensky si è reso conto di non avere scelta e forse da attore si è dedicato al ruolo di presidente di guerra. Con un occhio agli americani e ai loro soldi e un occhio alla forca aveva probabilmente esaurito la capacità di vedere cosa succedeva agli ucraini.

Lei affronta con estrema franchezza il tema dell’interesse nazionale cinicamente piegato ai comodi del politicante di turno. E curiosamente questo è possibile perché l’opinione pubblica asseconda certe narrative. È anche questa una guerra cognitiva?
Certamente, ed è una componente essenziale di questa guerra. L’esaltazione e la manipolazione della narrazione sono sempre state gli strumenti per ottenere il consenso o l’indifferenza della popolazione in tempo di guerra. Negli ultimi cento anni non c’è stata guerra che non sia stata scatenata da un falso pretesto formulato in maniera convincente, ma soprattutto c’è stata una educazione alla manipolazione cognitiva. Un po’ per ragioni politiche e commerciali e molto per lo schieramento a favore dei conflitti e dell’indotto da essi alimentato. In questa guerra, si è avuto un anno di verità compromessa e violentata da un caotico uso dell’informazione a senso unico. Dietro l’apparenza apodittica delle affermazioni e narrazioni della propaganda c’è la nebbia sulle fonti, sui dati, sulle ricostruzioni, sugli individui che la gestiscono e sui loro interessi. C’è il caos della legge omonima: da un evento discendono tutti gli altri vincolati a fattori noti ma deformati da un elemento irrazionale/casuale. La guerra cognitiva si occupa di questo elemento, i mezzi d’informazione amplificano gli eventi modificati aggiungendo altre casualità e la rete li diffonde. Così gli eventi si replicano secondo uno schema apparentemente uniforme e sostanzialmente diverso. La verità non esiste più e qualsiasi narrazione, anche se parte da elementi verificabili, gradualmente si compone di mezze verità e menzogne, quando va bene. Quando va male contiene solo menzogne ritenute verità.

In altri saggi Lei spiega come le guerre ibride (combattute sul fronte cognitivo o dell’attacco biologico) non siano davvero una novità. Storicamente si è sempre fatto ricorso a questi metodi anche nell’antichità. In questa guerra si sta facendo però più uso di missili e carri armati. Lei suggerisce che è un modo per disfarsi del parco militare accumulato nel secolo scorso, ormai obsoleto, in modo da rinnovarlo con armi di nuova generazione. Di che armi si tratta?
Ci sono quelle futuribili che si stanno sperimentando e che non sempre sono poi realizzabili anche per via dei costi esorbitanti. In questo campo la fantasia è superata dalla realtà perché la ricerca scientifica e la tecnologia offrono stimoli alle fantasie. Per avere un quadro di tali armi basta prendere una qualsiasi rivista scientifica e rendersi conto che ai fini bellici ogni possibilità scientifica in qualsiasi campo può essere sfruttata e applicata in guerra a prescindere dalla loro effettiva utilità. Le armi più realisticamente in allestimento sono appunto le nuove generazioni discendenti da quelle vecchie: aerei, droni, carri armati, missili e scudi missilistici adatti ad un tipo di guerra che si “suppone” più avanzato tecnologicamente. Gli arsenali occidentali e sovietici sono colmi di armi vecchie non utilizzate e non utili per la guerra che si suppone, ma molto adatti alla guerra che si conduce in Ucraina. La Russia sta dando fondo ai suoi arsenali e nel contempo si dedica con una parziale economia di guerra alla realizzazione delle nuove generazioni che, comunque sono state concepite almeno venti anni fa. L’ Ucraina è costretta alla questua e non ha più nulla di proprio da spendere. L’Occidente che non ha mai previsto di combattere una guerra convenzionale su vasta scala, si trova in difficoltà di fronte ai consumi di guerra ucraini e alle esigenze di rinnovamento. Si sta tentando un riarmo convenzionale che porta molti vantaggi all’industria bellica ma che ha tempi lunghi e non applicabili alla contingenza ucraina mentre di fatto conduce al salto nucleare.

Lei ha una grande esperienza in molti Paesi del mondo. Tra questi la Cina. Che ruolo ha la Cina? Negli anni più recenti le banche too big to fail hanno insegnato ai cinesi a fare business con la finanza, la Cina, oggi, mostra la versione orientale del colonialismo finanziario. E poi si esercita militarmente nel Mediterraneo con i Russi. Cosa ci dobbiamo aspettare da Xi?
Che commetta l’errore di stare al gioco americano. La Cina da tempo sta maturando e preparando la fine del sistema finanziario e monetario occidentale basato sul dollaro. Le sanzioni applicate dall’Occidente alla Russia sono l’occasione per accelerare il processo di distacco dal dollaro e il ritorno ad un sistema finanziario legato a qualcosa di concreto e non a pezzi di carta rappresentanti una moneta senza corrispettivo reale o un debito che può diventare inesigibile dalla sera alla mattina. L’anticolonialismo finanziario cinese è fatto di strumenti che rappresentano la reale economia di ciascun paese e ad essi viene riconosciuta eguale dignità. I tre quarti del mondo geografico sono fatti di paesi con enormi risorse ma indebitati perché non hanno dollari. Per questi sapere che le proprie risorse materiali e umane possono avere un valore oggettivo riconosciuto da tutti ed espresso dai loro sistemi economici, monetari e finanziari è la vera liberazione dal colonialismo. Almeno nelle intenzioni. L’America è l’obiettivo di questa guerra di liberazione in quanto detentrice attuale della potenza finanziaria sostenuta dalla potenza militare, ma non da quella dell’economia reale. La trappola per la Cina è che le intenzioni si trasformino in voluttà e voracità e quindi perda il sostegno del mondo al quale si rivolge. E che, alla fine, come l’America, sia tentata di appoggiare la propria politica, l’economia e la sicurezza all’uso della forza.
(European Consumers)