Minima Cardiniana 411/1

Domenica 5 marzo 2023, Seconda Domenica di Quaresima

ANNIVERSARIO
IOSIF VISSARIONOVIČ DŽUGAŠVILI STALIN
(Gori, Georgia, 18 dicembre 1878 – Dacia di Kuntsevo, 5 marzo 1953)
Di Stalin, oggi si può dire quello che si vuole: a patto che il giudizio sia negativo. Ma così non va bene: tutti siamo soggetti di storia, come ne siamo argomenti. Ricordiamolo, quindi, scegliendo l’anniversario di un personaggio del quale sembra si possa dire soltanto male. Abbiamo volutamente evitato il racconto storico: scegliamo invece la via del racconto, scegliendone una forma che ci aiuta forse a penetrare in modo più spregiudicato.

L’INTERVISTA “IMPOSSIBILE” DI FRANCO CARDINI
Che buon odore, in questa stanza!
Davvero? Mi fa piacere che lo notiate: ma venite avanti, accomodatevi qui di fronte a me, vicino al caminetto. E, vi prego, seguite la nostra vecchia usanza russa. Vedete? Davanti a voi c’è un piattino di legno laccato con un pezzetto di pane di segale cosparso del nostro buon sale grezzo; e, accanto, un bel bicchiere di vodka gelata. È il simbolo della nostra ospitalità. Prendete il pane e il sale, gustateli… ecco: perfetto. E adesso la vodka, tutta d’un fiato, mi raccomando. Non importa che spezziate il bicchiere, quello si vede nei film ma si fa solo durante le feste solenni. Così, d’un fiato… bravissimo!

Beh, così, di mattina… comunque è andata. Vi dicevo che questa stanza sa davvero di buono… è molto piacevole, molto confortevole!
Sono d’accordo con voi. A parte il buon odore delle boiseries di cui le pareti sono tappezzate – è ciliegio, sapete? – e quello della legna che aspetta di bruciare accanto al camino, e che voglio sia sempre resinosa: ci ho messo il mio aroma preferito. C’è chi lo giudica troppo penetrante, o troppo dolce: ma nessuno ha mai avuto il coraggio di farmelo notare. È il tabacco della pipa, che uso marinare nella vodka insieme con un po’ d’essenza di fiori, di quelle che si distillano nella mia terra. Ce le hanno insegnate i persiani, ai quali dobbiamo tanto: anche i bei tappeti che vedete sul pavimento di questa stanza; anche l’aver protetto la nostra libertà di georgiani e di alani per lunghi secoli, contro i turchi e i russi. Quella che preferisco è l’acqua di aranci; ma ne abbiamo anche di ciliegio, di pesco, di melograno. Ne facciamo anche di limone, che però è troppo aspra; e di mandorlo, che a me tuttavia sembra amara.

Siete un cultore di essenze profumate, signor Primo Segretario?
No, sono solo uno che ama fare dei lunghi bagni e che usa un po’ di eau de toelette perché sa che piace alle donne e disorienta gli uomini. Uno che emana un buon odore di aranci, ti soffia in faccia una nuvola profumata ma molto forte di fumo di tabacco e ti guarda dritto negli occhi ti mette subito in uno stato d’inferiorità: ti fa sentire piccolo, sporco e insicuro. Mi diverte un sacco veder la gente che ha paura: la paura li spoglia, li fa apparire quel che veramente sono al di là delle loro astuzie e delle loro ipocrisie. Ma fatemi il piacere di non chiamarmi “signor Primo Segretario”. È un appellativo ridicolo.

Preferite “compagno generale”, o semplicemente “compagno Stalin”?
Va già un po’ meglio. Beh, di appellativi strampalati ne ho collezionati parecchi. Anche quelli mi divertivano: un po’ come le uniformi. “Generalissimo”, “Maresciallo”, naturalmente “Piccolo Padre”, che in fondo m’inteneriva. Sono un sentimentale, sapete? Uno che ama i fiori, i bambini, i gatti. E quel “Piccolo Padre” era la vecchia Russia contadina che parlava attraverso quel modo di riferirsi a me: la vecchia Russia che sa di pane, di sale, di semi di girasole, di vento, di fiume e di fatica. Poi c’era roba come “Faro dei lavoratori”, che però faceva troppo Terza Internazionale.

Vi dà fastidio che vi abbiano anche chiamato Vojd, che equivale a “Duce” o a Führer, o a Caudillo?
Ma no, chiamavano così anche Lenin. E quell’insopportabile ma ohimè geniale Mustafa Kemal i suoi turchi lo chiamavano gazi, ch’è un po’ troppo musulmano ma è la stessa cosa. Era nello spirito del tempo: e poi Vojd è una vecchia parola del linguaggio epico russo, quello delle mie care, vecchie Byline. Comunque, fatemi il piacere di chiamarmi alla vecchia maniera, col vocativo e il patronimico.

Jozip Vissarionovich, allora. Mi sembra un po’ troppo cechoviano o dostoevskiano chiamarvi così, ma in fondo lo trovo bello.
A me invece non fa granché piacere dovermi ricordare del vecchio Vissarion; ma alla fine, perché no? Va bene così.

Su Vissarion, se permettete, torneremo tra poco… Ma come faccio a sapere che voi siete proprio voi?
Ah, conoscete anche voi la storia dei miei molti sosia? Sapete, qualcuno ho dovuto farlo fucilare, o perché era incapace o perché era diventato troppo bravo e cosciente di esserlo o perché era venuto a sapere troppe cose. Ma la maggior parte di loro era fatta di professionisti seri e ben consci dei loro limiti: e anche di gente simpatica. Con qualcuno, ho fatto sul serio amicizia. Mi è perfino capitato di parlare con alcuni di loro che si erano tanto immedesimati nella parte da fornirmi sul serio ottimi consigli politici.

E io, ora, come faccio a sapere che voi siete voi e non un vostro sosia?
Ve lo assicuro io.

Ma i vostri sosia non erano soliti appunto assicurare i loro interlocutori di essere voi?
Certamente sì.

E allora, io, come posso essere tranquillo?
Non lo so. È un problema vostro, non mio.

Bene, vedo che amate giocare come il gatto col topo. Starò al gioco e correrò il rischio.
Mi pare proprio che non abbiate scelta.

Siete sempre così, uno che vuol vincere e aver ragione a tutti i costi?
Sempre.

Bene: se non ho scelta, correrò il rischio. Riprendiamo un istante il discorso del Vojd. Lo sapete o no che per molti voi siete il più grande di tutti?
Di tutti chi? E sono che cosa?

Francamente, ho un certo timore a introdurre questo discorso con voi. Temo di contrariarvi: e le vostre tremende sfuriate sono famose…
[fragorosa, divertita risata] Ma dite davvero? Sfuriate? Arrabbiarmi io? Ci siete cascati proprio tutti! Sono i deboli, gli incerti, i timidi, i vigliacchi a perdere le staffe e la testa… era quel matto di Hitler che quando si arrabbiava smarriva il lume degli occhi e la ragione… Io no davvero, vi assicuro. Io non c’entro. Certo, a volte ho simulato degli attacchi d’ira: mi divertivo un mondo a constatare gli effetti della paura nelle mie vittime. Però non mi sono mai arrabbiato sul serio in vita mia, come non ho mai perso la testa. Del resto, non mi sono mai sul serio nemmeno impaurito. Neanche da ragazzo, quando ero il giovane Soso che guidava le capre sulle pendici del Caucaso, scriveva poesiole e giocava con quei serpentelli grigi e gialli che stanno tra le rocce e di cui tutti avevano paura: io invece li aiutavo a scalare le rocce, quando era piovuto e i poverini scivolavano sulla loro superficie. Ne ho salvati parecchi, che altrimenti sarebbero stati schiacciati o ammazzati a colpi di bastone. Invece, quando loro morsicavano qualcuno mi faceva piacere. Non ho mai provato paura nemmeno più tardi, quando facevo scoppiare le bombe e svaligiavo le banche: mai un tremito nelle mani, mai una stilla di sudore freddo, mai un rossore spontaneo o un’accelerazione cardiaca. È stato il mio grande segreto, quello che mi rendeva tanto enigmatico e che mi faceva sembrare più terribile. Del resto, sono sempre stato più pericoloso quando apparivo calmissimo. Chi mi stava più vicino lo sapeva. Io sono come i leopardi del mio Caucaso, splendidi animali che ormai non esistono quasi più: ma mi ricordo di averne visti e anche affrontati, da giovane, per difendere le mie capre. Di solito evitano l’uomo: a volte però l’affrontano, e allora bisogna stare attenti. Finché ruggiscono, abbassano le orecchie e agitano la coda, non c’è pericolo: sono come grossi gatti. Poi, a un tratto, tacciono e ti guardano fisso negli occhi senza un moto, senza un tremito. Perfettamente muti e tranquilli: solo quello sguardo, dritto e intenso. Allora sei spacciato.

State parlando dei leopardi del Caucaso o di voi stesso?
Non c’è differenza. Ma dicevate che per molti io sarei il più grande di tutti… tutti che cosa?

Di tutti i tiranni della storia; e della terra
[ride] Accidenti! Anche di Alessandro? Di Genghiz Khan? Di Tamerlano? Di Ivan iv?

Certo, siete quantomeno uno di loro, fatto di quella stoffa. Uno di quelli per descrivere sul serio i quali sono necessari Plutarco o Shakespeare…
… già. Per gli altri, ad andar bene Gogol e Balzac bastano e avanzano; o magari Chevalier, o Buster Keaton, o anche Stanlio e Ollio. Comunque, lasciamo perdere i grandi del passato: quanto ai miei contemporanei, il fatto è puramente politico. Il secondo quarto del xx secolo è stato il tempo degli spettacoli e dei grandi protagonisti: i capi di governo, le stars, i gangsters, i campioni sportivi, gli inventori. Churchill, Caruso, Greta Garbo, Charlie Chaplin, Al Capone, Jessie Owens, Guglielmo Marconi. Era la nascita della grande cultura di massa: il cinema sonoro, la radio, gli stadi, i giornali, poi anche il cinema a colori e la televisione. E gli spettacoli, poi: L’Olimpia e le Ziegfeld Follies come le grandi adunate oceaniche. Se facevi il politico, dovevi anche essere per forza un grande attore: altrimenti non ti filava nessuno. Chaplin, con la sua satira di Hitler, l’ha capito benissimo. Ma anche il mio Eisenstein l’ha capito: e mi ha fatto diventare Aleksandr Nevskij oppure Ivan il Terribile. La differenza è che Chaplin era contro Hitler, invece Eisenstein era dalla mia parte.

Voi state dicendo che in fondo sono stati i media a creare i giganti politici. Eppure fa impressione, in questi tempi di piccoli governanti e di leaders semianonimi o prestati alla politica dalle lobbies e dalla finanza, che voialtri siate stati tutti più o meno coetanei: voi stesso, Jozip Vissarionovich, e Lenin prima di voi, ma anche Teddy e poi Franklin Delano Roosevelt, Mussolini, Churchill, Hitler, Franco, Gandhi, De Gaulle, Mao, Haile Selassie, Jabotinsky, Vargas, Perón, Nasser, Tito… Poi, tra gli anni Quaranta e la metà degli anni Settanta ve ne siete andati tutti, uno per uno, morti di vecchiaia o di malattia o ammazzati. Della vostra tempra, della vostra razza, forse sono rimasti solo Fidel Castro e madre Teresa di Calcutta.
Beh, diciamo che il periodo tra le due grandi guerre e quello immediatamente successivo sono stati i tempi dell’eccezione e della decisione, come li hanno chiamati alcuni scrittori di Hitler che, perdinci, erano tutti bravi (e tutti filorussi): Spengler, Jünger, Von Salomon, Schmitt. Oltre la Grande Guerra ci sono stati i conflitti civili, le rivoluzioni e i “corpi franchi”, le Guardie Rosse e le Guardie Bianche, poi lo straordinario sviluppo dell’industria, poi la crisi del ’29, di nuovo la guerra del ’39 ch’era la prosecuzione di quella del ’14, e la ricostruzione, il boom economico degli anni Sessanta che ha sembrato dar ragione al liberismo, mentre dopo il xx Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica il socialismo – o quel che ne restava, dopo che mi avevano tradito – cominciava ad andare in crisi…

… già: entrò in crisi proprio mentre cominciava a cambiare la rotta rispetto all’indirizzo che voi gli avevate impresso, e nonostante provasse a correggerla.
[gelido] Qui vi sbagliate. Non avete capito nulla. Entrò in crisi perché abbandonò quell’indirizzo.

È questo il tono che usavate quando volevate far paura? Chapeau: vi assicuro, per un istante l’avete fatta anche a me. Davvero, non scherzo. Dite la verità: se avessi fatto un’osservazione del genere a voi e in vostra presenza, diciamo nel 1948, non sarei uscito vivo dal vostro studio.
Per carità: detesto il Grand Guignol. Quelli che crepano sono gente che implora, singhiozza, rantola, magari vomita o sanguina e sporca i miei bei tappeti persiani. Vedete questo? È un regalo di Reza Shah, un purissimo Kirman del xvi secolo: ce ne sono esempi così ritratti nella pittura fiorentina cinquecentesca. Non vi avrei mai consentito d’imbrattarmi una cosa tanto preziosa con i vostri spregevoli liquami biologici.

Quindi, grazie a un tappeto persiano, l’avrei fatta franca…
Nemmeno per sogno. Sareste sparito in modo discreto, pulito, tranquillo, di lì a qualche notte. Un’auto nera che vi arriva sotto casa, oppure due funzionari cortesi che vi affiancano una sera in una strada solitaria, o se preferite un bigliettino che vi chiede di presentarvi a una certa ora in un ufficio della nkvd, ed è fatta. Ad ogni modo, diecimila come voi non valgono un tappeto persiano.

Scherzate, esagerate per restar fedele al vostro personaggio: o alla vostra caricatura.
Mai stato così serio.

[severo] Sentite, Jozip Vissarionovich Jugasvili: voi potete essere stato un despota, una belva, un mostro o tutto quel che si dice di voi. Ma siete un uomo troppo intelligente per non rendervi conto che anche la crudeltà va commisurata alle situazioni e agli scopi che si vogliono raggiungere.
Appunto, amico mio: e badate che dico “amico” per dire, perché voi mi siete del tutto indifferente come la stragrande maggioranza dei bipedi con cui ho avuto a che fare, con l’eccezione di qualche donna e di qualche bambino, e forse anche di Vjaceslav Michajlovic Molotov e di Mihail Afanasjevich Bulgakov.

Allora è vero l’episodio della vostra famosa telefonata a Bulgakov, nel ’30, quando, esasperato dai soprusi di cui era oggetto voleva espatriare?
Certamente. Fui io a chiamarlo per pregarlo di restare e a trovargli lavoro. E accidenti se non mi ripagò. Quel suo Molière del ’36 è un capolavoro: rileggetelo. Il dissidio tra arte e potere, eppure la loro complementarità: tutto perfetto. Il rapporto tra Molière e il Re Sole è quello tra lui e me. E poi, Il Maestro e Margherita: l’ha lasciato incompiuto morendo nel ’40 e finché ho vissuto non ho permesso che vedesse la luce. Ma, vivaddio, è il più bel romanzo che sia mai stato scritto al mondo; potrebbe essere la prosecuzione del Faust di Goethe. È uno splendido commento a quel capolavoro di Musorgskij perfezionato da Rimskij-Korsakov, Una notte sul Monte Calvo. È buffo che se ne sia reso conto solo l’inventore di Topolino, Walt Disney: ma quell’americano era un genio, avrei voluto averlo tra i miei collaboratori, insieme con Khaciaturian…

… già: quello del Poema a Stalin del ’38…
… e quello di Spartaco, e della Danza delle spade. Che belle musiche avrebbero potuto scrivere, lui o Prokofiev, per la Cenerentola di Disney! Ma anche noi sovietici, e per mia volontà, abbiamo saputo produrre splendidi cartoni animati; come eccellenti film, del resto.

Eppure il vostro Zdanov è riuscito a disturbare anche Prokofiev, con quella storia dell’antiformalismo.
Zdanov era un buon cane da guardia. Come Vishinskij, che però era superiore a lui: un vero Grande Inquisitore, roba degna di Dostoevskij. Ma si trattava comunque di strumenti. Non come il vecchio Gorkij. Lui non si lasciò mai manovrare, nemmeno nel ’34, quando pronunziò al Congresso degli scrittori sovietici quella splendida relazione ch’è il vero manifesto della grande letteratura bolscevica. Non lo capii subito: ma è da Gorkij che ho imparato che anche i russi hanno un’anima.

… anche se voi, Jozip Vissarionovich, all’anima non credete.
Certo, non esiste. Però i russi ce l’hanno lo stesso, quasi come gli osseti, questo sì: l’ho imparato da Gorkij.

E io sto imparando da voi uno dei segreti del vostro successo e del vostro potere. Forse, se posso definirla così, della vostra grandezza.
Certo che potete: anzi, dovete. Ma quale sarebbe questo segreto?

Voi siete un grande incantatore, Jozip Vissarionovich; si vede che venite dal Caucaso, da quell’incomparabile terra di fiabe, e che siete uno che si è nutrito di Mille e Una Notte e dei romanzi cavallereschi di Chota Rustaveli.
[dolcemente] Ah, il Caucaso! Chi non ha visto il Caucaso in primavera non può immaginare come potrebbe essere il Paradiso. L’erba odorosa, il vento, i fiori, i cavalli; e le ragazze che cantano quando portano quel buon vino rosso frizzante ai loro uomini al lavoro; e i fuochi la sera, i canti, lo scintillar d’oro delle cartuccere dei cosacchi. E quel pane croccante, caldo di forno, dalla curiosa forma di violino. E Tbilisi, la più incantevole tra le piccole grandi capitali del mondo…

Così può parlare solo un georgiano…
Osseta, se non vi dispiace. Mio padre era georgiano: e non ci siamo mai amati. Mia madre era osseta e io sono come Gesù Cristo, spirito divino e carne umana. La divinità, lo spirito di vita, l’avrò anche preso da mio padre: ma il materiale, la carne, è roba solo di mia madre. E siccome a differenza di Gesù io sono un materialista, dello spirito di quel brutale ciabattino manesco e ubriacone di mio padre non so che farmene. Io sono figlio solo secondo la carne, ch’è quella dolce e robusta e profumata di una donna che amavo: e mi piace pensare che sia rimasta sempre vergine. È così che l’ho sempre immaginata: come la Vergine Maria.

Questo vi è restato della vostra giovanile carriera di aspirante sacerdote? Il rispetto per la Vergine?
L’ho appreso dalle preghiere e dagli studi di quando ero giovane, e dalle icone di Rublev. Bisogna vegliare da soli al Cremlino, di notte, poter entrare nelle sue cattedrali e sentir risonare i propri passi nella semioscurità, per capire che cosa sia la forza della Vergine Maria.

È colui che ha fatto saltare la chiesa del Redentore a parlare così.
Appunto, era la chiesa del Redentore: il santuario d’una fanatica gelosa immagine paterna eretto da quello stupido masochista dello czar Nicola. Aveva ragione quell’ebreo viennese, quel Freud, vivaddio. Ne so qualcosa perché nel Caucaso i miti si aspirano con l’aria e si bevono con il latte: quelli della maga Medea o del gigante Prometeo, che fu il primo socialista del genere umano, il primo ribelle alla divina tirannia. Fosse stata consacrata a Maria, la cattedrale del Redentore sarebbe ancora lì.

Non è vero: avete fatto distruggere anche quella sulla Piazza Rossa, dall’altro lato rispetto a San Basilio, vicino al Kitaj Gorod e al Museo Nazionale. E quella era consacrata alla Vergine Odighítria.
Lì c’era un problema di spazio pubblico. La liturgia socialista aveva le sue necessità. Ma non lo feci volentieri. Maria mi ha sempre commosso: è una madre amorosa, che protegge il Bambino neonato con gli stessi gesti con i quali culla il Figlio morto e deposto dalla croce. Che cosa fosse una madre, l’avevo intuito dall’affetto che avevo per la mia; poi, La Madre di Gorkij me l’ha fatto capire appieno.

Credo che da questa intervista stia emergendo lentamente qualcosa del vostro autentico profilo. Un dato: la crudeltà, l’indifferenza per i vostri simili, la disumanità; corretta tuttavia, o forse complicata, da isole di affetto arbitrario e senza misura. E un altro: l’interesse effettivo per la cultura…
Soprattutto per la filologia, la glottologia, la linguistica. È normale, nei caucasici: se non s’imparano sei o sette dialetti, non ci s’intende; e poi s’impara presto a masticare il turco, il russo, il persiano, l’armeno. Il socialismo è anzitutto filologia. Fu grazie a queste cognizioni linguistiche e a questa passione filologica che svolsi tanto bene la funzione di Commissario del Popolo alle Nazionalità.

Non alludevo tanto a quello, quanto all’intelligenza con la quale avete promosso un’incomparabile macchina propagandistica attraverso una politica culturale che non ha pari riscontro in alcun altro sistema totalitario, salvo forse un po’ nel fascismo italiano.
Sì, Mussolini aveva capito l’importanza della cultura, anche se personalmente era un grossolano orecchiante. Comunque, la cinematografia fascista aveva parecchi contatti con quella sovietica: e collaborammo per alcuni anni. Gli italiani avevano il cinema nel sangue, come Eisenstein. Non come quel nevrotico di Berlino, che ebbe solo la fortuna d’imbattersi in un genio della cinepresa come Leni Riefenstahl e in uno della propaganda come Goebbels.

Eppure, voi e Hitler avevate molti punti in comune in tema d’estetica, specie nel campo della pittura: a parte quella strana coincidenza dell’infatuazione di entrambi per L’Isola dei morti di Böcklin, dite quel che volete, ma il vostro “realismo sovietico” e il “realismo eroico” dei nazisti si somigliano. E avevate anche la stessa repulsione, la medesima ostilità per le avanguardie. Siete stato voi a sopprimere le correnti futuriste russe: Mussolini non avrà capito nulla di arte, ma le lasciò prosperare e i suoi consiglieri, almeno fino all’alleanza con Hitler, le incoraggiarono.
Beh, il futurismo aveva anche delle basi socialiste, oltre che nazionaliste. Il socialismo italiano era attento alla cultura. Li ho conosciuti gli anarchici e i socialisti di quel paese, nel 1903, quando portavo lo pseudonimo di Koba e passai da Ancona e da Venezia per andare alla riunione dell’Internazionale a Londra. Erano buoni compagni: Malatesta, Nenni, Mussolini stesso; ch’era un matto, ma era anche il più intelligente di tutti. Lenin diceva che soltanto lui avrebbe potuto fare la rivoluzione socialista in Italia. Del resto, bacchettò i comunisti – e fece bene: a parte il noiosissimo Gramsci, che era un genio, Bordiga e Bombacci non capivano un accidente –, ma fu anche il primo capo di uno stato capitalista a riconoscere ufficialmente l’Unione Sovietica. Diversamente da Gramsci e da Togliatti, io sono sempre stato convinto che fosse rimasto intimamente un socialista. Hitler e i socialfascisti erano molto peggio di lui: il suo massimo difetto era l’ambizione, anzi la vanità. Avrei di gran lunga preferito accordarmi con lui, nel ’39, invece che con Hitler: ma purtroppo in quel momento con l’Italia non c’erano obiettivi comuni; con la Germania sì, la Polonia. Quanto alla mia crudeltà, come la chiamate voi, da una parte è uno strumento di lavoro politico esattamente come la cultura; dall’altra è una mia caratteristica che riconosco volentieri, anzi, che rivendico fieramente.

In che senso?
Ascoltatemi bene. Io non mi sono mai divertito a far soffrire nessuno, a parte qualche raro nemico, ma nemico sul serio. Di solito ho fatto solo quel che era necessario, o quantomeno utile: né più, né meno. Senza goderne e senza dispiacermene. L’indifferenza è una qualità fisica: esattamente come la forza, la memoria, la salute. Essa può essere rimossa e superata solo dalla soddisfazione, dalla gioia. Allora bisogna festeggiare. Voi sapete che sono goloso di uova fritte: non posso farci nulla, sono un vecchio contadino del Caucaso. Sapete che da noi, sui nostri monti, ci sono le galline più grosse del mondo? Mi piacciono le frittate, meglio se al lardo o alla cipolla: niente burro, da noi a Tbilisi era troppo caro. Oppure semplicemente uova sunny side up, come le chiamano gli inglesi. Quando potevo vendicarmi di un mio nemico, oppure farne fuori un bel numero di quelli più pericolosi, come capitò nelle purghe del ’36 – ah, il grande Vishinskij! –, poi mi sentivo fisicamente bene: tranquillo, disteso, appagato come un gatto d’inverno ben rimpinzato di aringhe e di latte che sta acciambellato sulla stufa calda mentre la padroncina lo coccola. Una bella frittata di sei uova al lardo, un quarto di litro di vodka Stolichnaya fredda come si deve, un buon disco di Borodin e una bella dormita. La vendetta mi ha sempre conciliato il sonno: e al mattino mi sono sempre svegliato fresco, riposato, di buon umore, con una gran voglia di giocare con un nipotino o di farmi un buon tè e una bella partita di scacchi con il bravo Molotov.

E le donne?
Sì, qualche volta anche loro mi hanno aiutato a tonificarmi. Ma io sono tendenzialmente un monogamo: anche se mi dispiace sinceramente di non essere stato troppo fortunato, né come marito, né come padre, e sempre certo per colpa mia [una pausa di silenzio, con una punta di accoramento]. Ma in fondo il sesso mi ha sempre annoiato un po’. Non ero un satiro fallomane come Mussolini, anche se non ero nemmeno un sessuofobo ossessivo alla stregua di Hitler. Quello che preferivo, compiute le mie vendette, era il silenzio di certe sere nelle stanze buie del Cremlino.

E niente fantasmi come quelli del povero piccolo Dimitri che tormentava Boris Godunov? Niente ombre, come quella di Banquo?
Lo czar Boris e re Macbeth erano due assassini, ma erano anche cristiani. Io sono ateo e servitore del mio popolo: ho la coscienza a posto perché eliminare i nemici del popolo è un mio dovere, mentre il piacere della vendetta è solo il salario che mi spetta in quanto povero funzionario del Partito. Ed è un piacere molto raro. Non lo provavo certo quando ci servivamo della ceka per eliminare i borghesi, o quando ho fatto far fuori i kulaki. Nulla di personale allora, ci mancherebbe: del resto, non avevano fatto niente di male. Giustiziarli non era l’esecuzione di una condanna penale, era un provvedimento amministrativo. Era come disinfestare un collegio o una caserma: ci vuole il metodo più rapido e più efficace per ammazzare cimici e pidocchi. Se è indolore tanto meglio, povere bestie. Era la stessa cosa anche prima, da giovane, quando ammazzavo poliziotti e funzionari di banca, al tempo della lotta terroristica. Era necessario farlo e lo facevo: punto e basta. Non sono mai stato un sadico della genìa del nevrotico berlinese.

Permettetemi di correggervi, Jozip Vissarionovich. Al tempo delle purghe del ’36-’38, o quando si è trattato di eliminare Lev Trotskij, non siete stato meno feroce di Hitler nella Notte dei Lunghi Coltelli.
Appunto, ve l’ho spiegato: in quei casi era diverso. Quelli non erano solo degli avversari: erano dei maledetti nemici personali. Ed erano anche dei criminali: non ho mai capito come si faccia, nel mondo capitalista, a piagnucolare tanto su carogne della risma di Kamenev o di Zinoviev o di Trotskij. Uno dei miei più grandi rimpianti è di essermi fatto scappare quel farabutto traditore di Victor Kravcenko, che si rifugiò in Occidente e fece fortuna con quel libraccio pieno di delazioni e di calunnie, Ho scelto la libertà. Lo avessi acchiappato… Capisco che si possa aver pietà dei kulaki, povera gente trattata da parassiti solo perché aveva qualche palmo di terra da grano, un orto con due girasoli e un maialino da ingrassare per Natale: ma la collettivizzazione e l’industrializzazione avevano i loro costi. Eliminarli era necessario. Invece, far crepare quelle sporche canaglie è stato un autentico piacere. Era gente di cui conoscevo tutte le malefatte, tutti i crimini, tutte le disonestà. Pensate che io sia un criminale? Allora vi assicuro che, se giudicati col vostro metro, loro erano molto peggiori di me. In quel caso, non ero affatto spietato: ero felicissimo di spazzarli via e cercavo di farlo nel modo per loro peggiore. Come nel caso del più infame di tutti, quel macellaio di Trotskij con le sue arie da grande stratega (fece ammazzare Frunze nel ’25 perché sapeva bene ch’era lui il vero grande fondatore dell’Armata Rossa). Trotskij, quel damerino sanguinario che andava ripetendo che io ero solo un burocrate mediocre. Ah, quelle sante picconate…

Mi fate orrore, Jozip Vissarionovich.
Mi dispiace, non posso ricambiarvi della stessa moneta. Io come tiranno vi faccio orrore, voi invece come imbecille non mi fate per nulla pena. Cacciatevi in testa che tutte quelle fesserie che vi hanno insegnato sul mio conto sono spazzatura. Io non sono come Winston Churchill, un dandy alcolizzato che si diletta di storia e di pittura e che è convinto di appartenere per diritto divino agli happy fews padroni del mondo e di aver servito la civiltà e la democrazia ammazzando sudafricani e indiani e facendo bombardare barbaramente città tedesche prive di difese antiaeree per poi andare in giro a dire che glielo avevo chiesto io. Non sono nemmeno un vanitoso falso cesare come Mussolini; non sono un maniaco persuaso che i suoi avversari siano il demonio come Hitler; non sono un ateo che pretende di massacrare il suo popolo nel nome e per la gloria di Dio come Franco. Io ho semplicemente fatto quello che dovevo da quando mi sono trovato a dirigere la rivoluzione e a dover fondare sul serio il comunismo in un solo paese, se davvero intendevo gettar le basi per affermare il comunismo nel mondo. Era necessario prendere le distanze sia dai fanatici sostenitori della rivoluzione mondiale permanente come Trotskij, sia dai furbastri come Bucharin che, con la scusa della “Nuova Politica Economica”, stavano preparando il nuovo Termidoro per tradire la rivoluzione e consegnare l’Unione Sovietica ai banchieri e agli imprenditori occidentali nel nome del sedicente pacifico ed equilibrato sviluppo. Ho imposto il terrore come i piani quinquennali, perché era necessario come forma di educazione collettiva e popolare: si ubbidisce per paura, poi l’obbedienza diventa abitudine e l’abitudine si trasforma in un costume morale, e così si edifica l’Uomo Nuovo che si spoglia gradualmente di ogni orgoglio e di ogni egoismo, finché ciascuno si sente naturalmente al servizio di tutti gli altri. La virtù è un abito: non l’ho detto io, lo ha affermato il vostro Tommaso d’Aquino.

Ma non avete mai pensato che in questo modo stavate distruggendo qualunque libertà, che vi stavate trasformando in uno zar rosso? E che il vostro socialismo in un solo paese era in realtà una forma estrema di nazionalsocialismo, un “fascismo rosso”?
Lo so, hanno detto anche questo. Stupide chiacchiere, giochi di parole, calunnie da quattro soldi, funambolerie giocate tutte sulle apparenze e sulle contingenze. Certo, le bandiere sono bandiere, i tamburi sono tamburi, le marce e le uniformi sono marce e uniformi. Come di sera tutti i gatti sono bigi. Ma la sostanza è un’altra. Io avevo un programma: collettivizzazione della terra, industrializzazione, piani quinquennali per poter misurare periodicamente i risultati raggiunti e dosare gli sforzi che restavano da fare. Stato unico padrone di tutto e terrore politico: non per sempre, anzi, entrambi provvisori ma necessari per quel numero di anni che sarebbe stato utile a fondare la società veramente senza classi. E quindi anche senza esercito, senza polizia, senza magistratura, senza moneta, senza sfruttamento, senza profitti, senza banche, senza forma alcuna di commercio e di compravendita. Una società dove tutti avrebbero dato secondo le loro possibilità e ciascuno avrebbe ricevuto secondo i suoi bisogni.

Un’utopìa. Voi non avreste mai visto una realtà del genere nemmeno se foste campato un secolo.
Certamente no: ma io non lavoravo né per me, né per la mia generazione. E ho dovuto affrontare il tradimento dei nazisti che hanno firmato patti che poi non hanno rispettato, e sono stato costretto a trasformare lo stato sovietico in un paese animato da una nuova forma di patriottismo cristiano avvolto di rosso perché un quarto di secolo di socialismo era stato poco per radicare i valori della rivoluzione, e allora bisognava evocare lo spirito della Santa Russia. Sono stato costretto prima ad allearmi con il peggior capitalismo della terra, quello angloamericano, quindi a fondare un impero sovranazionale, a costruire un mondo socialista da contrapporre all’arroganza di quello capitalista: il patto di Varsavia e la comunistizzazione della Cina sono stati il mio capolavoro, come prima della guerra lo erano state le nuove città in Siberia e il canale Stalin che, unendo il Don al Volga, tracciava una strada dal Mediterraneo attraverso il Mar Nero fino al Caspio, unendo per mare lo stretto di Gibilterra all’Iran e al Turkmenistan. Fuori, il mondo capitalista inorridiva per le deportazioni, lo strapotere della polizia, la coabitazione forzata nelle grandi città, i salari che non consentivano nemmeno l’acquisto in un mese di un paio di scarpe; ma noi stavamo costruendo una società nella quale scuole, università e ospedali erano gratuiti, i trasporti efficienti e a prezzo bassissimo, il riscaldamento centralizzato praticamente gratuito, il tasso di laureati e di diplomati più alto del mondo e il secondo esercito del pianeta a difendere le nostre conquiste. Ho raccolto nelle mie mani un paese in pezzi ai primi degli anni Trenta, ho affrontato la carestia prima e la guerra poi, ho salvato il socialismo restituendo al popolo russo la sua identità religiosa, mi sono diviso il mondo con Roosevelt, in poco più di un ventennio ho fatto del mio paese una superpotenza, sono morto da vincitore. Il xx Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, rifiutando tutto questo, non ha cercato generosamente di salvare il comunismo correggendo gli errori di Stalin: con l’alibi della sfida socialista al capitalismo – una sfida impostata sul terreno del capitalismo stesso, quindi perduta in partenza – ha voltato le spalle al comunismo che Lenin aveva impostato e che Stalin aveva fondato. I sovietici non hanno ceduto al capitalismo perché erano comunisti stanchi e delusi, ma perché non erano ancora – o non erano più – abbastanza comunisti da comprendere l’illusorietà delle perline colorate che l’Occidente offriva loro sotto forma di consumi individuali.

Calmatevi, per carità, Jozip Vissarionovich! Siete un fiume in piena! Avete cercato in tutti i modi di convincermi della vostra freddezza e invece ora vi rivelate, vi piaccia o no, un autentico georgiano: dicono che i georgiani siano i napoletani del Caucaso, tutti passione ed estroversione, e voi vi mostrate proprio uno di loro. Comunque, guardate, posso anche accettare la vostra teoria che l’unico metodo d’imporre il comunismo fosse il vostro, fondato sulla sintesi ben calcolata di consenso e di terrore: anche voi moralista, come Robespierre, convinto che si dovesse imporre la virtù; e sicuro al pari di Tommaso d’Aquino – lo avete ricordato anche voi – che la virtù, una volta imposta, divenga poi un habitus permanente. Era questo il vostro “Uomo Nuovo”. Ma resta il fatto che, una volta accettata la sfida con il capitalismo, il comunismo l’ha perduta. Quanti decenni di terrore sarebbero stati ancora necessari per costruirlo, il vostro “Uomo Nuovo”? Nel ’45, erano in molti a pensare che ce l’avevate fatta; ma alla fine degli anni Ottanta è stato palese che non era più così. O l’“Uomo Nuovo” era ormai a sua volta invecchiato? Per battere il nazismo ci sono volute le superfortezze volanti americane e le vostre divisioni corazzate, i vostri magnifici T34; ma nemmeno mezzo secolo più tardi, per battere il comunismo, i capitalisti si sono limitati alla televisione, ai beni di consumo, ai supermarket. Era debole, la vostra utopìa.
Allora rispondete: siete cattolico?

Sapete bene di sì.
Quindi conoscete il processo di secolarizzazione del mondo occidentale.

Certamente.
E non vi rendete conto che il cristianesimo in generale e il cattolicesimo in particolare, che avevano avuto a disposizione secoli per affermarsi e radicarsi, sono stati battuti con gli stessi mezzi e gli stessi metodi che poi sono serviti a spazzar via il comunismo: cioè con il ricorso al principio dell’illimitata libertà individuale, con il primato dell’economico, con la prospettiva dell’edonismo generalizzato, con l’eccesso di libertà delle élites a danno della giustizia? Conoscete le tre tentazioni cui il demonio sottopone Gesù: il desiderio di cibo, quindi i beni materiali; quello del comando, quindi il potere; quello dell’onnipotenza del sapere, cioè della scienza e della tecnica. Il compagno Gesù di Nazareth ha respinto queste tre tentazioni e ribadito che supremo comandamento è l’amore reciproco tra gli uomini. Ma la Modernità figlia del cristianesimo ha ceduto invece a tutte e tre le lusinghe diaboliche: per mezzo di esse sono stati battuti il cristianesimo prima, il socialismo poi. È Faust l’eroe dell’Occidente moderno: il vecchio sapiente che si vende a Satana inseguendo una Felicità che non conosce, l’Istante cui poter dire “Fermati, sei bello”. L’ha capito perfettamente il mio amico Mikhail Bulgakov. Il capitalismo non sarà vinto da nessuna forza esterna: imploderà, si suiciderà da solo. Come Faust, cadrà dannato nella voragine infernale quando sentirà di aver raggiunto l’istante dell’assoluta perfezione, la sua sognata felicità alla ricerca della quale ha farneticato di aver diritto. E quella sarà la nostra e la vostra vendetta.

Decisamente, Jozip Vissarionovich, avete avuto buoni maestri quando studiavate per diventar sacerdote.
Sì; anche al PolitBuro mi rimproveravano spesso perché usavo espressioni del tipo “grazie a Dio”.

E voi, come reagivate?
Ridevo, e caricavo la pipa. Poi, appena ho potuto, li ho fatti fucilare tutti. Grazie a Dio.

(da Franco Cardini, Interviste impossibili, Lucca, Edizioni La Vela, 2019)