Minima Cardiniana 412/2

Domenica 12 marzo 2023, Terza Domenica di Quaresima

EDITORIALE
TOUT VA TRÈS BIEN, MADAME LA MARQUISE, TOUT VA TRÈS BIEN
TOUT VA TRÈS BIEN…
Siamo ormai entrati da tempo in una nuova fase storica, quella segnata dal definitivo abbandono dell’illusione che si era creata e imposta all’inizio degli Anni Novanta del secolo scorso: vale a dire che il mondo avesse imboccato una strada definitiva e irrevocabile, segnata dal progressivo prevalere del “nostro Occidente” e dall’affermazione progressiva di una way of life caratterizzata dalla globalizzazione, dal “pensiero unico” e dall’egemonia ormai in apparenza irresistibile del modello e della potenza statunitensi, dietro i quali potrebbe celarsi la complessità del di quello che è il deep goverment a capo del new world order.
All’inizio del 2023, le vicissitudini di una “guerra non dichiarata” ma duramente combattuta avevano ormai passato i confini di una circoscritta area contesa tra Europa e Asia e tra Baltico e Mar Nero per direttamente o indirettamente coinvolgere il mondo intero: ma al tempo stesso il trauma causato dal ritorno di Marte in una regione non più troppo periferica di quell’Europa che almeno per quasi mezzo secolo si era creduta – nonostante qualche passeggera crisi – definitivamente al riparo da esso e lo aveva considerato costretto a infierire solo in altri continenti (in Asia, in Africa, nell’America latina), era stato con una certa facilità apparente metabolizzato. La quotidianità del conflitto e delle sue vicende, selezionate e frammentate dall’opera di media funzionali alle intenzioni e agli interessi della superpotenza e degli interessi internazionali di cui esso si è eretto da alcuni decenni a tutore e garante, ci aveva (ci ha?) progressivamente abituati a quello che sulle prime era sembrato un trauma intollerabile: l’accettazione della guerra da parte di una società e di una cultura che aveva fino allora vissuto egemonizzata e magari narcotizzata da una convinzione ormai capillarmente penetrata nel nostro immaginario e delle nostre coscienze, nella nostra etica e perfino della nostra estetica alimentata dalle riflessioni di miriadi di maîtres-à-penser e di opinion makers, dalle culture “giovanili” e “alternative”, dalla musica e dallo spettacolo. Credevamo da tempo di aver sul serio messo – come recitava una canzone divenuta celebre nei primi Anni Sessanta” – “dei fiori nei nostri cannoni” e di avviarci decisi verso un domani di pace e anche di prosperità per tutto il mondo. Certo, lo spettacolo della fame e della miseria che minacciavano o avvolgevano gran parte del pianeta ci dava molto da pensare, magari da dubitare: ma la fede generalizzata nelle “magnifiche sorti e progressive” del genere umano incamminato sul sentiero sicuro della democrazia c’incoraggiava a confondere il desiderio con l’illusione, l’illusione con la speranza, la speranza con una colorata e seducente parvenza di certezza.
Quel ch’è stato più sconcertante e terribile, almeno per quanti di noi avevano vissuto quella lunga fase di sonno incantato che nemmeno il crescente fragore della tempesta che si avvicinava – il Vietnam, l’endemica instabilità vicino-orientale, il malessere africano e latino-americano, l’Afghanistan, i Balcani, l’Iraq, la crescita dei nuovi giganti cinese e indiano, le “Due Torri”, l’endemicizzarsi del terrorismo, l’annus terribilis del 2008, l’ondata epidemica a cavallo degli Anni Venti… – riusciva a scuotere, è stato il risveglio, il “disincanto” di weberiana memoria: il Tempio di Giano che riapre i suoi fatali battenti nel cuore dell’Urbe Occidentale, la guerra che torna a bussare alle nostre porte. Perché è vano illudersi, è inutile giocare con gli eufemismi geostorici: Mosca e Kiev sono Europa, sono parte di noi, lo sono ormai da almeno tre secoli. E dalla retorica della pace sempre e comunque anzitutto e dappertutto, dal “Mai più Guerra” di chi si sentiva ormai sicuro ed era convinto che tale sicurezza fosse suo merito, il premio della sua eccellenza, eccoci passati nel giro di pochissimi mesi se non di qualche settimana come niente fosse all’accettazione della e perfino all’entusiasmo per la guerra. Sociologi, antropologi e psicanalisti ci avevano pure da parecchio tempo messi in guardia: il fascino della “guerra, giovane e fresca” ha continuato a serpeggiare nelle nostre vene, per quanto un influencer statunitense di stirpe illustre, Robert Kagan, e abituale frequentatore dei penetralia imperii dove si esercita sul serio il potere durante l’era neoconservative, avesse rimproverato con rigore noialtri europei “figli di Venere”, che comodamente vivevamo e allegramente scherzavamo all’ombra protettrice degli statunitensi, “figli di Marte”, che con le loro guerre condotte in tutto il mondo mantenevano viva l’illusione della duratura pax europea.
Ma ancor adesso che quella pax è seriamente compromessa, sembra che continuiamo a illuderci: argomentando magari che in fondo quel conflitto che pur ci minaccia resta però tutto sommato “in stallo” in plaghe relativamente remote dalle nostre e che le sue grida, filtrate dai media, somigliano fin troppo a sussurri: salvo quando dalle Torri di Controllo di Washington, di Wall Street, di Bruxelles o di Davos partono perentori segnali che ci obbligano al sussulto di paura o al fremito d’indignazione. Comunque almeno fino a questo momento il bellum dulce inexpertis dell’accettazione della nuova guerra, come si è configurato negli ultimi mesi, sembra essersi abbigliato delle vesti un tantino indecorose tuttavia comode dell’“Armiamoci e partite” nel nome del quale i nostri governi e gran parte dell’opinione pubblica si sono assuefatti all’idea che una guerra, che pure buona parte dei nostri politici e dei nostri veri o conclamati osservatori competenti non aveva preveduto, possa venir davvero combattuta sì con armi e capitali dell’Occidente, ma pagata esclusivamente o quasi con sangue ucraino (quello russo non pesa ordinariamente sui nostri bilanci morali). Leggetevi al riguardo l’istruttivo libro di Benjamin Abelow, Come l’Occidente ha provocato La guerra in Ucraina (Roma, Fazi, 2023).
D’altronde il nostro persistente ottimismo – qualcuno potrebbe definirlo incoscienza – continua a nutrirsi di segnali giudicati positivi: primo fra tutti il fatto che da noi il conflitto non si fa sentire, non pesa in modo visibile sul nostro quotidiano. Per molti mesi, dopo l’aggravarsi delle sanzioni delle quali la Russia è stata oggetto a partire dalla fine dell’inverno del 2022 e le fosche previsioni che si facevano riguardo la pesantezza delle sue repliche possibili, nulla o quasi sembra essere accaduto. Senza dubbio abbiamo dovuto affrontare un’inflazione piuttosto pesante e che con lo stato di guerra ha avuto a che fare e siamo stati costretti a subìre altri disagi in conseguenza della nostra cobelligeranza de facto: ma su ciò politici e media occidentali hanno deciso – a dirla con un pesante eufemismo – la massima sobrietà nei commenti.
Qualcuno aveva preconizzato, come conseguenza delle ritorsioni russe, un periodo di serio di spese e di privazioni: recessione, crollo dei redditi, rincaro energetico con dure ripercussioni sui costi del riscaldamento nelle nostre case e addirittura dell’alimentazione. Nulla di tutto ciò è accaduto: l’“Apocalisse annunziata” non si è tradotta in realtà. Il che è stato interpretato come esito di due fattori: primo, l’ormai definitivamente compiuto (e da più di un trentennio, dal crollo cioè dell’Unione Sovietica) ridimensionamento della potenza sovietica, che nei primi mesi del conflitto ha palesato segni di un’arretratezza e di una debolezza che per molti fra noi è stata una sorpresa; secondo, la constatazione che i costi economici dell’aiuto militare dell’Occidente all’Ucraina non sono stati astronomici, o comunque non lo sono sembrati quanto meno sotto il profilo delle medie statistiche. Come ha rilevato lo storico britannico dell’economia Adam Tooze, ai primi del ’23 gli Stati Uniti avevano speso per il sostegno all’Ucraina appena lo 0,2 % circa del loro PIL. Se il disastro previsto non ha avuto luogo, si è riflettuto, ciò ha potuto verificarsi grazie ai due elementi-base del “modello occidentale”: flessibilità del sistema liberaldemocratico e rapida risposta dell’economia di mercato che ha determinato la prontezza con la quale i nostri governi hanno risposto all’emergenza mobilitando senza esitazioni le risorse pubbliche al fine di attenuare l’impatto dell’innalzamento della spesa energetica con conseguenti disagi e magari reazioni dell’opinione pubblica. Il che conferma la decisa supremazia da noi dell’economia e della finanza sulla politica; ma fa nascere il sospetto che questa rapidità di riflessi, più simile a una “difesa preventiva” che a una risposta, rientri nel piano di una strategia più ampia e preparata da tempo. Con buona pace dei placidi orizzonti della democrazia “classica” che forse non è mai esistita ma nella quale siamo convinti di esser vissuti finora, e che per sua natura non può permettersi la rapidità in quanto ha bisogno dei suoi tempi parlamentari per decidere.
Comunque si sta sostanzialmente confermando, nonostante molti e crescenti segnali in controtendenza, un’ancor solida fiducia da parte dell’opinione pubblica nei confronti del “nostro Occidente”. E, nel ritratto che ce ne viene proposto dalle nostre classi dirigenti e dalle più qualificate voci mediatiche preposte a rappresentarle, “il concetto di Occidente non evoca soltanto una realtà geopolitica, un sistema di alleanze, un modello di valori al quale ci sforziamo di essere fedeli: è anche un aggregato di interessi materiali, costruito in molti decenni di scambi commerciali e investimenti. I nostri mercati di gran lunga più importanti sono e resteranno sempre dislocati sull’asse atlantico, situati nell’Unione europea e nel Nordamerica”. Parola di Federico Rampini, sul “Corriere della Sera” del 7 marzo scorso.
Questo viatico, in tal modo formulato, sembra necessario e sufficiente a delineare e delimitare quindi una dimensione geopolitico-geostorica, un sistema di alleanze politiche, diplomatiche e militari che lo sostiene, un modello valoriale evocato come dato comunemente conosciuto e condiviso ma che resta implicito e comunque inespresso nelle sue concrete linee, infine una quantità d’interessi materiali lentamente costituitasi e affermatasi nonché attestata sull’Atlantico settentrionale, fra Europa e America settentrionale.
Possono essere accettati, questi lineamenti, come base per una definizione dell’Occidente come realtà da intendersi nella sua dinamica storica e socioculturale? È lecito partire, per approfondirne la comprensione, dal dato di fatto di un loro fondamento sugli elementi socioeconomici e materiali? E come comporre questi ultimi con la presenza di altri fattori: ad esempio storici, etnoantropologici, religioso-culturali, addirittura “immaginari”, “immateriali”, “mitici”? Ma come eludere il sospetto – corroborato dall’esame di fatti, strutture, istituzioni – che la dinamica intrinseca alle vicende dell’Occidente (il suo werden, per quanto sia ardua a cogliersi la sua effettiva natura proteica) sia stata tutt’altro che segnata da una serena continuità, che la storia si sia in qualche nodo “spezzata” e che tuttavia molti frammenti del passato siano rimasti nel presente e ormai proiettati verso il futuro? E come affrontare in questo caso la complessa compatibilità, anzi al compenetrazione, tra persistenza e mutamento?
È stato affermato con autorevolezza che l’unico modo corretto per definire correttamente qualcosa è farne la storia. Si può tentare qualcosa del genere a proposito della parola “Occidente” e della cosa (o delle cose) ch’essa ha volta per volta indicato e continua a indicare? Ed è lecito farlo cercando di opportunamente dosare narrazione quanto possibile obiettiva e interpretazioni plausibilmente soggettive?

La necessità di questo articolo un po’ più “pesante” e strutturato del solito si è imposta in seguito all’uscita dell’articolo Le profezie sbagliate sulla crisi e l’Apocalisse mai avvenuta (“Corriere della Sera”, 7.3.2023), con la quale Federico Rampini ha scagliato, con la consueta serena compostezza formale, un attacco durissimo contro chiunque da noi in Europa continui a insistere affinché i poteri decisionali del new world order decidano a desistere dallo sconsiderato attacco all’equilibrio del macrocontinente eurasiatico. Rampini, che di tale order è un sostenitore formalmente equilibrato ma sostanzialmente rigoroso, non affronta qui frontalmente il problema della guerra attuale e della pace futura, ma sostiene con educatissimo cinismo la tesi secondo la quale il conflitto in corso non dà e non darà alcun fastidio né alla nostra economia, né al nostro genere di vita: la prova sarebbe che l’“Apocalisse annunziata” su un inverno al gelo eccetera non si è avverata. Che poi siamo in mezzo al guado dell’inflazione, soggetti a spese straordinarie (irrilevanti, a suo avviso…) e in continuo pericolo che la situazione degeneri, a suo avviso è irrilevante. In fondo, lo sappiamo, in tempo di guerra la produzione va a pieno ritmo e c’è tanta gente (la solita) che ci guadagna. Ora, dal momento che a suo avviso questa guerra non è dannosa per noi (o quanto meno per quelli di noi che stanno nelle stanze dei bottoni o che ne dipendono), la si può continuare spensieratamente. Se e nella misura in cui la guerra non fa male all’economia, essa è cosa buona. Una versione ancora inedita – quanto meno in termini espliciti – della “bella guerra, giovane e fresca” dei poeti provenzali del XII secolo e dei futuristi del XX. Rampini è come al solito efficace, intelligente, convincente, Ne restiamo ammirati. Chapeau. Peccato che a questo mondo esistano anche le ragioni morali, quelle religiose, i diritti della gente che muore: e che non può esser presa in considerazione solo quando e nella misura in cui disturba bilanci e listini della borsa.