Domenica 12 marzo 2023, Terza Domenica di Quaresima
PAULO MAIORA CANAMUS/1
Non è la prima volta che ci proviamo. E vogliamo sperare che non sia l’ultima. Minima Cardiniana non ha ambizioni: è un quadernaccio di appunti o – come dicevamo noialtri eversivi molto tempo fa – un foglio di lotta e di provocazione.
Di solito voliamo basso: o perché non sappiamo far di meglio, o perché in fondo siamo restati tutti – anche i più anziani fra noi – dei poveri militanti, degli straccioni che sognano di esser cavalieri (non a caso ci siamo a lungo baloccati con Tolkien e con l’Armata Brancaleone).
Ma di tanto in tanto, invece della solita sbobba del rancio – roba da “Campo Hobbit” – ci prendiamo la libertà di servirvi qualcos’altro. Non è Nouvelle Cuisine, ci mancherebbe; ma è qualche piattino che può aiutarci nella lotta contro il New World Order, che per noi ragazzacci continua ad essere la Terra di Mordor dove l’Ombra Cupa Scende.
Beccatevi dunque una serissima meditazione di Fabrizio Foschi sul senso della storia (e su ciò, se volete, apriremo un dibattito), un severo esame di Alexey Dobrinin sull’ipotesi di un “mondo multipolare” alternativo al New World Order e una coraggiosa denunzia, da parte di David Nieri, di quel che si sta combinando nel Caucaso per ampliare il raggio della Felice Democrazia che ruba ai poveri per dare ai ricchi.
QUALCHE APPUNTO SUL SENSO DELLA STORIA
di Fabrizio Foschi
Fernand Braudel, diviso interiormente tra l’interesse per le strutture immobili della storia e la costante attenzione per l’apparente evanescenza della superficie costituita dagli eventi, il cosiddetto événementiel, giungeva ad affermare che “per conoscere veramente nella sua totalità e pienezza la storia umana occorrerebbe un Dio, bisognerebbe essere Dio…[ma] quel poco che la nostra scienza permette di conoscere, ci fa intravedere la struttura della storia, e nella sua realtà concreta la rivela come una struttura di tale complessità che mai il pensiero umano può esaurire e cogliere per definire tutti i rapporti infinitamente possibili” (Braudel, 1986). La lezione non potrebbe essere più suggestiva e drammatica nella sua evidenza: noi umani, della storia conosciamo poco o niente; se conosciamo, è solo la complessità. Tuttavia Dio sa tutto, anche se il dio braudeliano sembra troppo trascendente (o trascendentale?) per curarsi di comunicare col piccolo essere pensante. Eppure la domanda sul fine della storia è troppo bruciante per essere esclusa dal piano di lavoro dello storico o di chi, magari come insegnante ed educatore, vorrebbe godere di qualche certezza oltre che nutrirsi di sani dubbi.
Noi esseri umani, animati dalla sete di conoscenza e dal desiderio di infinito, ci poniamo lecitamente la questione del senso della storia non per semplificarla ma proprio perché, immersi nelle sue apparenti contraddizioni, vorremmo trovare il bandolo della matassa. Sì, perché in fondo la conoscenza vera della storia è conoscenza del suo senso, del disporsi delle azioni umane secondo una prospettiva che collega l’effimero ad una qualche ragione d’essere valida universalmente. Questa sete di eterno che ci anima, per cui vorticosamente vorremmo salvare dall’oscurità dell’oblio ogni attimo, ogni istante che passa (e i dispositivi informatici hanno potenziato questa attitudine), investe la vita nella sua interezza ed è la condizione fondamentale perché ciò che è estraneo entri a fare parte costitutiva del nostro essere. Tutto ciò che è “altro” da noi, entra a fare parte costitutiva del nostro io se è conosciuto nel suo orizzonte di scopo. Cerchiamo beninteso il fine della storia, non la sua “fine”, come erroneamente annunciava Francis Fukuyama nel suo dibattuto saggio di un trentennio fa (Fukuyama 1992).
La domanda sulla storia coincide con la domanda sulla vita individuale e comunitaria; se non ci fosse risposta dovremmo ripiegare le nostre insegne e arrenderci al nulla. Una prospettiva che contrasta con la struttura umana, fatta di risorse e aperture che non possono derivare dal caso. Ma l’istante presente nel quale riceviamo il contraccolpo della domanda sulla verità della storia che, come segnala Carlo Ginzburg “è il compito fondamentale per chiunque faccia ricerca “(Ginzburg, 2000), non esaurisce in sé stesso la sua motivazione intrinseca. Esiste qualcosa che ci precede, siamo dentro una memoria, una tradizione che rischia di sfuggirci se non ne mettiamo a fuoco l’identità. Posto che la storia sia un cammino, lento e tortuoso, di uomini e popoli, di culture e civiltà di cui noi siamo permeati come eredi, se neghiamo il senso di questo girovagare che cosa resta? Il “cenere muto” dei sepolcri risponderebbe Ugo Foscolo, che comunque non domo, con le tombe dei grandi colloquiava.
Tornando alla storia, è anche vero che occorre distinguere. Un conto sono i destini individuali, altro è parlare e fare ricerca sui percorsi temporali delle società. La storia, lo sappiamo, non è solo un elenco di fatti pulviscolari, ma la loro disposizione in una dimensione comprensibile e fondata sulle tracce, sulle testimonianze. È una forma di scrittura che introduce gli strumenti della comprensione più che della spiegazione in senso positivistico. Il suo statuto si approssima a quello della scienza, sebbene mai esatta e sempre “reformanda” alla luce di nuove scoperte, di nuove tracce e testimonianze. Sarebbe strano dunque che, in quanto tale, non avesse né un senso, né un significato.
E dove cercarlo appunto? E dove trovarlo? Entra qui in ballo la questione del testo storico, dato che la storia, intesa nell’accezione di raccolta e riscrittura dei fatti, esige una loro sistemazione secondo criteri di causalità, di interpretazione delle fonti, di connessione con i fattori più profondi, culturali, politici, economici, che li hanno prodotti. Una certa storiografia ha, come sappiamo, liquidato sbrigativamente il fatto, inteso come “avvenimento”, cioè singolo mutamento sul piano della storia: il fatto fornirebbe una visione distorta della ricostruzione storica perché carico di una forza ipnotica del tutto soggettiva. È qui inutile riproporre la contrapposizione tra fatti (le singole emergenze puntuali nello spazio e nel tempo) e strutture (qualcosa di simile ad una piattaforma stabile che sorregge tutto l’impianto storico resistendo per intere generazioni). È inutile non solo perché già Charles Peguy ammoniva sulla “differenza assoluta che c’è nel valore degli avvenimenti” (Peguy, 1910, 1947), ma soprattutto perché in fondo non c’è contrapposizione ma solo la diversa posizione dello storico, la sua propensione a cogliere le permanenze o le svolte improvvise. La sua disponibilità alla intercettazione non solo delle cicliche ripetizioni dei dati, ma anche dei fenomeni carichi di imprevedibilità e di imponderabilità: frutto del caso, se vogliamo, o della libertà nel dispiegarsi delle azioni umane.
Scriveva Jean Guitton (1992) che “quando la storia universale, sospesa ad una sorte temibile, trova improvvisamente una soluzione semplice e nuova […] allora sentiamo che nell’esistenza interviene qualcosa che non è prodotto da noi. È un dono”. La cosiddetta “rinascita dell’avvenimento” è sotto gli occhi di tutti. Prima una pandemia del tutto imprevista ha obbligato l’intera umanità ad uscire dallo stato abitudinario della comfort zone e a porsi domande radicali sul valore della vita di fronte al pericolo di una possibile morte incombente. Le successive risposte, politiche, educative, economiche e anche dei sistemi sanitari non hanno potuto evitare il confronto con un bisogno esistenziale di comprensione dell’umano del tutto nuovo o da tempo dimenticato (che poi ci siano riuscite è un altro paio di maniche).
La guerra in Ucraina, in secondo luogo, per quanto determinata da un pregresso di incomprensioni tra Occidente/America e Oriente/Federazione russa (che comunque non giustificano una invasione), è, paradossalmente, un “dono” che la storia ha buttato tra le pieghe di una umanità divisa in blocchi, dimentica delle proprie origini, percorsa dalla illusione di una felicità fondata sul benessere economico, poco propensa al dialogo e al sacrificio. Un avvenimento “al contrario”, quest’ultimo, si direbbe, ma in un certo senso carico di un’ultima chiamata alla responsabilità rivolta alla comunità mondiale, in ordine alla sorte collettiva e al destino di quelli che, se Dio vuole, verranno dopo di noi.
Chi tra alcuni anni o secoli si accingerà, speriamo, a scrivere di questi anni che stiamo vivendo, quale senso del processo storico includerà se non questo appello che i fatti annunciano a trovare la vera cifra dell’essere umano, la sua dimensione inclusiva e dialogica, al prezzo, in caso di un’ultima smemoratezza, della perdita delle stesse radici costitutive e della sua permanenza su questo bellissimo pianeta?
Ecco allora rilanciato il tema del senso e del significato della storia, da intendere non come filosofia applicata agli eventi, ma come un modo d’essere degli eventi medesimi che parlano alla coscienza dell’osservatore, in un rapporto, si potrebbe dire, da soggetto a soggetto. Più che un senso “della” storia, potremmo virare verso la migliore prospettiva di un senso “nella” storia. Possiamo recuperare questa posizione con le parole di Paul Ricoeur (1994): “I nodi della storia costituiti dagli avvenimenti non sono per nulla dei focolai di irrazionalità, ma piuttosto dei centri organizzatori e, a questo titolo, dei centri di significato […] Si può dire che l’avvenimento più reale è quello che si impone di più alla coscienza come centro organizzatore del divenire storico […] sono in effetti gli avvenimenti in sé che fanno la realtà della storia, che reggono la sua razionalità e le danno un senso. Il significato della storia non è al di fuori degli avvenimenti e, se la storia ha un senso, è perché uno o più avvenimenti centrali le danno un senso, e perché l’avvenimento è di colpo il senso stesso”.
Gli avvenimenti fondanti, quelli che determinano le svolte del cammino della storia, sono da riportare sul piano della ricostruzione testuale della storia, ma non sono “solo” nel testo dello storico. Vi sono inclusi come centri organizzatori della materia storiografica, nella misura in cui sono percepibili fuori dal testo come esistenti sul piano della concretezza storica e non prodotti dalla stessa. Il cristianesimo, per esempio, “è un fatto unico e irripetibile che fonda la specificità di tutto lo “storico”; tutta la storia mondiale marcia verso questo fatto centrale irripetibile e parte da esso […] questo nesso della storia celeste con la storia terrena, nel mondo cristiano ha una configurazione storicamente complessa in cui si rifrangono tutte le forze fondamentali della storia spirituale precedente” (Nikolaj Berdjaev, 1919-20, 1971).
Berdjaev, sebbene più da filosofo religioso che da storico, ci aiuta a cogliere la pertinenza della struttura dell’avvenimento all’idea di un senso “nella” storia, che dal piano della realtà effettuale “entra” nel racconto storico. Il cristianesimo ha espresso nel suo massimo grado, in modo unico, il fenomeno dell’avvenimento. Eppure la configurazione dell’avvenimento si può cogliere in tante vicende umane che in qualche modo riprendono, in chiave analogica rispetto alla matrice originaria, il tema dell’imprevisto, del non programmato, dell’imponderabile che si presenta sulla scena del mondo e che è immanente alla contingenza terrena. Sta alla libertà dell’osservatore la capacità di cogliere tali fattori decisivi e fondanti. Gli avvenimenti fondanti, quelli che ridisegnano il contesto, saranno all’origine di tempi lunghi; quelli meno determinanti saranno fecondi di tempi più brevi, più raccolti. Resta vero che il compito dello storico è di dare voce agli avvenimenti, collocandoli nel tempo storico mediante una interpretazione che rispetti il nesso con le dinamiche reali della storia.
Bibliografia
Braudel, Una lezione di storia, Torino, Einaudi, 1986, p. 5.
Fukuyama, The End of History and the Last Man, Free Press, New York 1992, trad. it. La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.
Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 65.
Ch. Peguy, La nostra giovinezza, Roma, Editrice Studium, 1947, p. 34.
Guitton, Storia e destino, Casale Monferrato, Piemme, 1992, p. 73.
Ricoeur, Storia e verità, Lungro di Cosenza, Costantino Marco Editore, 1994, p. 30.
Berdjaev, Il senso della storia, Milano, Jaca Book, 1971, p. 89.