Domenica 19 marzo 2023, Quarta Domenica di Quaresima, San Giuseppe
EFFEMERIDI DELLA NOSTRA MISERIA QUOTIDIANA
L’ANTIFASCISMO INFLAZIONATO
Ritorno di fiamma dell’antifascismo e delle sue manifestazioni. Il “nuovo” PD (!?) ne è all’avanguardia. Bene. Riflettiamo.
Nella prima metà del XVI secolo, in seguito alla scoperta del Nuovo Mondo e all’ingente quantità d’oro e d’argento che da lì venne scaricata dai vascelli soprattutto spagnoli e portoghesi sul nostro continente, successe il finimondo: il valore del danaro crollò, i prezzi salirono alle stelle, immense fortune accumulate da secoli svanirono come neve al sole, floride imprese bancarie vennero polverizzate, interi stati e grandi magnati furono ridotti in miseria. La disastrosa svalutazione assunse il nome di “rivoluzione dei prezzi” e da quelle rovine emerse un mondo nuovo, dominato da nuovi ricchi e governato da nuovi sistemi economici e finanziari.
Non sono mai stato convinto che la storia sia davvero magistra vitae, come diceva Cicerone e come sono in troppi a ripetere. Ma a chi la sa capire qualcosa in effetti insegna.
Confesso di essere tutt’altro che un antifascista in servizio permanente effettivo: anzi, non ho mai capito bene che cosa s’intenda, in concreto, quando s’invoca l’antifascismo. Di antifascismi ve ne sono stati e ve ne sono molti: uno crociano e liberale, uno marxista di varia tendenza dal comunismo alla socialdemocrazia, uno cristiano (cattolico, ortodosso, riformato), uno anarchico, uno radicale, uno conservatore-reazionario. Nel corso della seconda guerra mondiale essi si unirono contro il comune nemico nazifascista: ma non si può dire che abbiano mai raggiunto un’unità né ideale né concreta nei loro fini rispettivi. Anzi, tutti hanno, a ben guardare, qualche sia pur piccola cosa in comune col fascismo: o i valori nazionali, o lo stato sociale, o le aspirazioni d’ordine pubblico, o le tendenze gerarchiche, o l’anticapitalismo, o magari la pura violenza. Come si può trarre da questa problematica così complessa e magari contraddittoria una formula pratica comune che sia suscettibile di presentarsi come valore civico?
Ma dove la logica politica manca ecco a supplirla il fragore delle parole d’ordine, l’energia della propaganda spinta fino all’intimidazione, gli slogans al posto del ragionamento, il fanatismo abbaiante e minaccioso al posto della pacata discussione. E si arriva agli estremi. Guai a dimenticare la shoah: è un valore prezioso per tutti noi, sta alla base dell’etica politica degli ultimi tre quarti di secolo; ma, quando si trasforma in pesante liturgia dietro al quale si nascondono tornaconto conformistico e intimidazione, allora le cose non tornano e non ci stiamo più. La “Settimana Santa” dei giorni di gennaio prossimi al 27, con film “antifascisti” (non sempre di buona qualità) in prima, seconda e terza serata, comincia a seccarci e ad apparire francamente grottesca; il troppo stroppa perfino nei viaggi degli studenti ad Auschwitz, che dovrebbero essere un austero pellegrinaggio civico ma che sono invece diventati l’unico tipo di “turismo scolastico” immancabilmente praticato e dalla cui esperienza spesso i ragazzi escono stufi, scafati, e magari ufficialmente fanno dichiarazioni compunte ai professori e alle TV locali mentre, fra loro, se la ridono riciclando le più insulse e ripugnanti barzellette antisemite. Di recente, a Firenze, una volgarissima rissa fra un pugno di studentacci di opposta tendenza davanti a un liceo, culminata in un infame pestaggio di un ragazzo rimasto a terra, anziché diventare causa di una severa ed esemplare punizione si è trasformata in un “caso” che ha provocato una manifestazione di migliaia di persone riunite per protestare contro un “pericolo fascista” che in Italia – lo sappiamo – non esiste affatto: e non ci sono né Giorgie Meloni né Case Pound che tengano. Pochi giorni fa un dirigente (ormai si usa chiamarli manager) di una “partecipata”, vittima di un attacco di coglionite acuta (episodi che capitano, quando si è già affetti da coglionosi cronica), ha avuto la pessima, melensa idea di citare in una sua circolare il celebre discorso del Duce in parlamento, il 3 gennaio 1925: è stato travolto da un uragano d’insulti scandalizzati ed è scomparso in una palude di guano che si è richiusa su di lui. Ma se miserabile è stata la sua uscita, più miserabile ancora è stato il linciaggio politico e morale che l’ha sommerso. Questo antifascismo aggressivo, vigliacco, inflazionistico rischia di toglier valore a quello autentico, svalutandolo. Ora basta. Non possiamo permettercelo.
Se qualcuno a destra, al centro e soprattutto a sinistra, spera di risalire la china pietosa nella quale sta scivolando anzi rotolando la politica italiana guidata da personaggi sempre più incapaci e inconsistenti, si sbaglia. Un uomo di cultura serio e coraggioso come Massimo Cacciari lo ha detto ad alta voce, chiaro e tondo: basta con questa commedia ridicola, con questo disgustoso antifascismo ipocrita da sessantottini riciclati e da suffragette isteriche. Basta con i paroloni che coprono il vuoto delle teste e delle idee. Basta con le offese sanguinose a chi l’antifascismo lo ha fatto sul serio e lo ha pagato con la vita. Gloria a quei martiri, che nessuno di noi dimenticherà mai: e vergogna sui pidocchi che sperano d’ingrassare sul loro sangue versato.
Ma, a proposito dell’episodio storico oggetto dell’inopportuna uscita di quel tale manager, non sarà inopportuna una breve nota che ristabilisca storicamente parlando la verità dei fatti.
MUSSOLINI IN PARLAMENTO, 3 GENNAIO 1925
Nel 1925 Benito Mussolini inaugurò in Italia un sistema di governo di nuovo tipo, al quale forse non aveva mai nemmeno fino ad allora pensato e che divenne modello nel ventennio successivo per altri paesi e altri movimenti politici.
“Dittatura”, si dice. Ma la dittatura, istituzione politica che risaliva alla Roma repubblicana e aveva qualche precedente nell’antica Grecia, era altra cosa: era l’esercizio legittimo di poteri eccezionali per un breve periodo ritenuto d’emergenza per un paese e per un popolo: scaduto questo breve periodo, che in genere durava qualche mese, l’operato del dittatore veniva sottoposto ad attenta revisione pubblica col pericolo di gravi sanzioni se nel corso di esso si fosse commesso qualche crimine.
La regola ebbe due vistose eccezioni. La “dittatura perpetua” assegnata dal senato romano a Giulio Cesare e il consolato a vita della repubblica francese che il generale Bonaparte trasformò più tardi in “impero” conferendo a tale termine il valore di un’istituzione monarchica.
Ma tali due modelli stanno soltanto in filigrana, e da lungi, dietro l’esperimento mussoliniano che ebbe caratteri originali e innovativi eppure non fu una mossa preordinata ma costituì una risposta senza dubbio cinica e coraggiosa a uno stato di fatto determinato non già dalla sua azione di governo, bensì dal madornale errore della sua opposizione.
Tale errore ha una parola sola: Aventino, vale a dire astensione dalla presenza nella sede della massima istituzione legislativa del regno d’Italia da parte di parlamentari che, regolarmente eletti sia pure durante un’elezione per molti versi contestata e contestabile, avrebbero avuto il dovere di restare al loro posto e di presidiare la libertà comune. Non lo fecero: preferirono mettere il governo di Mussolini dinanzi a uno stato d’ illegittimità sostanziale (ma non formale) facendogli il vuoto intorno nell’illusione che ciò ne avrebbe decretato automaticamente la caduta per dimissioni.
Tutto ciò non avvenne in quanto il massimo potere esecutivo dello stato era in mano al sovrano, il quale non approvava l’assenteismo aventiniano. Eppure le premesse affinché esso riuscisse sul piano etico e politico c’erano.
L’eco del delitto Matteotti e lo scalpore ch’esso aveva determinato nel paese era stato enorme. Nello stesso partito fascista, fino ai livelli dell’alta dirigenza di esso, si erano diffusi il disorientamento, lo sconforto, la cattiva coscienza, la vergogna. Mussolini stesso aveva passato mesi difficilissimi: si è detto – a quanto sembra però senza effettive prove – che avesse sul serio pensato al suicidio.
Si risollevò con un atto di cinismo e di Realpolitik che ha obiettivamente del geniale. Si tenga presente che, nella gelida sala parlamentare di quel gelido gennaio 1925, egli si rivolgeva soltanto ai parlamentari che gli erano rimasti fedeli nel momento della crisi e che, con la loro sola presenza, garantivano la legittimità formale della seduta e quindi degli atti di governo che ne sarebbero scaturiti.
Il discorso fu breve. Mussolini non provò nemmeno a rivendicare per l’ennesima volta la sua estraneità ai fatti delittuosi e il suo ruolo di mandante del delitto Matteotti. Lo aveva fatto più volte, forse era vero che mai aveva esplicitamente chiesto la soppressione del deputato socialista ed è quasi certo che non avesse né voluto né immaginato che si arrivasse a tanto. Com’è vero che quel che soprattutto temeva da parte di Matteotti e dei documenti che questi custodiva e ch’egli intendeva sottrargli non era una questione politica, bensì un affaire alquanto sporco riguardante transazioni petrolifere.
Mussolini non pronunziò l’ennesima perorazione della sua innocenza. Ma si guardò bene anche dal confessarsi colpevole. Con un gesto che non poteva non essere in quel tempo e in quel momento apprezzato, in quanto capo non solo del PNF, bensì “del fascismo”, si addossò ogni responsabilità dell’accaduto: se il fascismo era stato – dichiarò – non una splendida passione della parte migliore della gioventù italiana (parole sue), bensì un’associazione a delinquere, allora fuori la corda, il cappio e la forca. Altrimenti, il fascismo sarebbe andato per la sua strada. Il che significava il governo di un partito unico con tutte le conseguenze del caso, allora imprevedibili. Mussolini, però, sapeva di poter contare sull’appoggio del sovrano: ed è questa, semmai, l’unica pagina da riscrivere o da approfondire su quel che già sappiamo a proposito di quel giorno fatale.
E fu la costruzione dello stato dittatoriale, poi definito “totalitario”. Anche in quel caso, all’interno di una prospettiva di gradualità. Il Duce intraprese gradualmente l’opera di fascistizzazione progressiva delle istituzioni e della società manovrando accortamente fra repressione e costruzione del consenso. La corona e i “poteri forti” che pur esistevano ed erano in possesso di strumenti per evitare o comunque per arginare tutto ciò, non lo fecero. Un uso spregiudicato e per quei tempi ultramoderno dei media, a cominciare da radio e cinema, fece il resto. su quel periodo, è caduta la mannaia di un isterico e globalizzante giudizio di condanna, nonostante l’esistenza di molti seri studi scientifici che invitano alla serena e articolata discussione. Quando verrà il tempo adatto per la costruzione, al riguardo, di un sereno giudizio che la nostra società civile possa veramente far proprio?