Minima Cardiniana 413/6

Domenica 19 marzo 2023, Quarta Domenica di Quaresima, San Giuseppe

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
IL SURREALISMO DI MAX ERNST: QUANDO L’ARTE SI FA MAGIA
PRIMA PARTE
di Eleonora Genovesi

Questa è la vocazione dell’uomo: liberarsi della sua cecità”.
(Max Ernst)

Nel mio pacchetto regalo natalizio, dopo quelle di Robert Capa e di Bosch, non poteva mancare di certo la mostra dedicata al genio surrealista di Max Ernst, tenutasi a Palazzo Reale, mostra promossa e realizzata dal Comune di Milano e curata da Martina Mazzotta e Jürgen Pech. Si tratta di una mostra molto particolare perché ci presenta Max Ernst come Umanista così come affermato con fierezza da Jürgen Pech, uno dei due curatori.
Questa affermazione è alquanto significativa, perché, oltre a ridare alla figura dell’intellettuale umanista la dignità che gli compete (nel mondo del digitale parlare di umanesimo è quasi blasfemia!), ci fa capire quanto ampi siano il pensiero e l’opera di Max Ernst surrealista, ma anche dadaista, e poi, udite udite, anche romantico e attratto dal Rinascimento. La mostra milanese, con le sue oltre 400 opere tra dipinti, sculture, disegni, collages, gioielli, fotografie e testi illustrati provenienti dall’Italia e dall’estero, costituisce la prima grande retrospettiva italiana dedicata ad un artista estremamente poliedrico, che interpretò in modo visionario, non solo la storia dell’Arte, ma anche la filosofia, la scienza e l’alchimia. Ma affinché si comprenda meglio la grandezza di questa mostra lascio la parola ai curatori:
L’immensa vastità di temi e sperimentazioni dell’opera di Ernst si spalma su settant’anni di storia del XX secolo, tra Europa e Stati Uniti, sfuggendo costantemente a una qualsivoglia definizione […] Max Ernst viene presentato in questo contesto quale umanista in senso neorinascimentale. Se André Chastel affermava di rinvenire in Ernst una sorta di ‘reincarnazione di quegli autori renani di diavolerie tipo Bosch’, Marcel Duchamp vi aveva rintracciato ‘un inventario completo delle diverse epoche del Surrealismo’”.
Maximilien Ernst, pittore e scrittore tedesco nasce a Brûl, Colonia, il 2 aprile 1891. Nel 1909 si iscrisse alla facoltà di Filosofia dell’università di Bonn dove studierà, oltre alla filosofia, anche Storia dell’Arte e Psichiatria. Di lì a poco inizierà a disegnare scoprendo quella che in realtà era la sua vera vocazione: l’Arte. Nel 1913 espone le sue prime opere a Berlino dove incontrerà Guillaume Apollinaire. Successivamente avrà modo di conoscere altri personaggi di spicco di cui un nome per tutti: quello del cubista orfico Robert Delaunay. Le prime opere di Ernst affondano le radici all’arte di Dürer e Bosch, ma anche a quella del Romanticismo tedesco nelle tetre forme di un Böcklin. Nel 1914 Max Ernst, sotto lo pseudonimo di Dada-max aderisce al movimento Der Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro), uno dei due nuclei fondamentali dell’Espressionismo tedesco il cui linguaggio era quello dell’interiorità nei suoi aspetti emotivi e spirituali. Nel contempo collaborò con la rivista espressionista berlinese Der Sturm.
Dall’Espressionismo Max Ernst passerà poi al dadaismo e, influenzato dalla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e dagli studi di Freud sulla psicanalisi, creerà quadri e collages in cui coesistono figure ed oggetti eterogenei che creano contesti ambigui, surreali, onirici.
Nel 1922 si trasferisce a Parigi, dove sarà tra i fondatori del Manifesto del Surrealismo redatto nel 1924, anno di nascita del movimento. Nel 1926 Ernst abbandonò il dadaismo per entrare a far parte a tutti gli effetti del movimento surrealista, dando al termine surrealismo una personalissima interpretazione. Tra il 1929 ed il 1934 pubblicherà i suoi tre Romanzi-collage le cui le immagini erano delle tavole realizzate dall’artista con la tecnica del frottage e del collage. Inoltre collaborerà con Salvador Dalì e Luis Buñuel al film L’âge d’or, una pellicola che racconta i tentativi di una coppia di amanti di “consumare” la propria relazione romantica. Ma la punta di diamante dell’arte di Ernst è l’opera L’oeil du silence, realizzato nel 1943 nel suo esilio americano cui era giunto dopo essere fuggito nel 1941 da un campo di detenzione francese. Tornerà a Parigi solo nel 1954 per portare avanti la sua instancabile ricerca nel campo dell’arte Surrealista con dipinti, sculture e lavori grafici, inventando nuove tecniche come le colature di colore del dripping, tecnica che verrà ripresa da Jackson Pollock, protagonista dell’Action Painting che, a partire dal1947, farà del dripping il segno caratteristico di gran parte delle sue opere. Ma il dripping è solo l’ultima delle tecniche inventate da Max Ernst, che in precedenza aveva creato l’assemblage e il frottage, a testimonianza della sua grande inventiva. L’artista morirà a Parigi il 1° aprile 1976.
La mostra su Max Ernst è ubicata al piano nobile del Palazzo Reale. Arrivata a destinazione mi appresto a immergermi in un appassionante percorso che ripercorre tutte le fasi dell’iter creativo di un artista eclettico, di un grande intellettuale che ha attraversato indenne i mutamenti del Novecento restituendocene l’immagine.
Il percorso museale ci racconta la biografia di Ernst, raggruppandola in quattro grandi periodi, ognuno dei quali è ulteriormente suddiviso in nove sale tematiche che rivelano allo spettatore l’interdisciplinarietà, elemento fondante dell’opera dell’artista.
All’ingresso delle sale espositive ecco apparire dinanzi ai miei occhi, l’Oedipus Rex, capolavoro realizzato nel1922 al suo arrivo a Parigi, una delle opere più significative ai fini dell’affermazione di Ernst come pittore. Il formato della tela è decisamente maggiore rispetto a quello delle opere precedenti e, dal punto di vista della tecnica, a dispetto dell’essere un olio su tavola, l’Oedipus Rex presenta ancora quelle giustapposizioni tipiche del collage.
Il titolo è un chiaro riferimento al concetto di complesso di Edipo sviluppato da Sigmund Freud nell’ambito della teoria psicoanalitica, anche se il significato dell’opera non è immediatamente desumibile, ma al contrario resta aperto a diverse interpretazioni secondo i dettami della poetica surrealista. Da una finestra ecco uscire una mano trafitta da uno strano oggetto, forse uno spillo privo di punta, mano che regge una noce perforata da una freccia. Sulla destra appaiono le teste di due piccioni, probabilmente i genitori, il maschio con le corna di cui una legata ad un filo che va oltre la cornice collegandosi ad un qualcosa che non vediamo, la donna ingabbiata da grucce. Sullo sfondo si vede una mongolfiera che si sta allontanando. A queste immagini si accompagnano altre che rappresentano edifici in costruzione. Ma cosa c’entra tutto questo con il complesso di Edipo? Cosa vorrà comunicarci Max Ernst attraverso queste immagini? La mano afferra la noce ma viene bloccata da strani pezzi meccanici che la trafiggono. I due uccelli vorrebbero vedere cosa ci sia all’esterno ma anch’essi vengono bloccati: il maschio da un filo che trattiene una delle corna e la donna da una gabbia di grucce. Dunque, disobbedienza e curiosità vengono immediatamente punite. Si tenga presente che la vista e la perforazione fanno riferimento al mito edipico.
Inoltre l’associazione freudiana tra uomo ed uccello parrebbe indicare il desiderio dell’uomo divenire liberato dalle inibizioni impostegli dalla società.
Max Ernst nel 1922, ben due anni prima che André Breton scrivesse il Manifesto Surrealista, con il suo Oedipus Rex anticipa quello che sarà il carattere enigmatico del linguaggio surrealista del dettato dell’inconscio.
Il percorso espositivo prosegue con la sala 1 denominata “La rivoluzione copernicana” che, insieme alla sala 2, intitolata “All’interno della visione”, ripercorrono gli anni a cavallo fra il 1891 ed il 1921, ossia gli anni della giovinezza e della formazione dell’artista, che costituiranno una sorta di scrigno della memoria cui Ernst attingerà per tutta la vita.
Sono gli anni della Grande Guerra vissuta in prima persona e della successiva resurrezione con il conseguente ritorno alla vita suggellato dal matrimonio e dalla nascita di un figlio, ma anche gli anni della rivoluzione dadaista e dell’invenzione del collage, della prima mostra in Francia e del proto-surrealismo.
La denominazione di “Rivoluzione copernicana” data alla prima sala è emblematica del cambio di indirizzo di vita effettuato da Ernst: da studente di filologia classica e filosofia ad artista.
Già nel 1912 nella rivista Volksmund esplicita il suo primo principio artistico, e qui lascio la parola a lui: “Sapere significa saper forgiare le forme. Sapere implica che si sia capaci di sentire la vita interiore della linea e del colore… Sapere implica che si abbiano esperienze vissute. Per l’artista le cose più usuali come quelle più rare possono diventare esperienze vissute, un suono di un colore, un intreccio di linee”. Le opere della prima decade del Novecento sono caratterizzate da una molteplicità di stili: dal puntinismo al futurismo all’orfismo, al cubismo e all’espressionismo.
In questa sala troviamo una Crocifissione del 1914, un piccolo dipinto di stampo marcatamente espressionista di proprietà dei Musei Vaticani, in cui si esplicita l’interesse dell’artista per l’anatomia di Cristo, il cui corpo è rappresentato in una posizione tesa a esaltare la forte tensione muscolare.
Anche il cromatismo è subordinato all’espressione della sofferenza. Nel 1919 Max Ernst scoprirà, subendone l’influenza, l’opera di De Chirico e di Carrà come si può vedere nelle otto litografie dal titolo FIAT MODES PEREAT ARS, un chiaro riferimento al motto umanista “Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo”. Questo portfolio realizzato da Ernst ci mostra un mondo visto secondo l’ottica dadaista. Le regole alla base di temi come quello della civiltà, dell’economia, della società e della scienza vengono giocosamente sovvertite. E sempre nella prima sala ecco apparire il dipinto Giustizia o Macellaio del 1919, in cui Ernst presenta all’interno di una stanza dalla prospettiva allungata, due figure femminili di cui una dietro un bancone che indica con la mano e con un coltello una massa indefinita, e un’altra, posta alla sinistra della prima, che regge in una mano una bilancia e nell’altra un coltello: gli attributi della giustizia. Ma attenzione, la donna dietro il bancone ha per occhi due bulbi oculari cavi, mentre l’altra ha gli occhi con le pupille.
Ernst conferisce all’iconografia della giustizia il potere della vista rivendicando la propria libertà di ispirazione che si realizza solo liberandosi della propria cecità, come già affermato.
Ed eccoci arrivati alla sala 2, intitolata “All’interno della visione”, in cui avremo modo di vedere come, contemporaneamente all’interesse per luoghi deserti e manichini di stampo metafisico, Ernst sviluppi nuovi metodi di fare arte, metodi ovviamente non convenzionali. Questa sezione, dunque, ci mostra un’altra caratteristica fondamentale dell’artista: la sua determinazione e bravura nell’inventare di volta in volta la tecnica più adatta all’espressione del momento. Definire Max Ernst eclettico è riduttivo, perché, non si limiterà ad attraversare varie correnti artistiche, ma riuscirà a rendere ogni sua opera unica poiché ogni suo lavoro è come se incenerisse qualsiasi modalità espressiva preesistente. In questa sezione troviamo opere realizzate con montaggi di immagini create con modalità di carattere istintivo.
Ad una gouache del 1920 realizzata con inchiostro e matita su carta e successiva sovrapposizione su stampa segue una sovrapittura di una stampa dal titolo “Giovane Uomo con fagotto fiorito”.
Il termine sovrapittura coniato da Ernst indica una tecnica in cui, anziché sovrapporre gli elementi come nel collage, si agisce per sottrazione eliminando gli stessi. Mi colpisce particolarmente l’opera I Cormorani, sempre del 1920, un fantasioso collage realizzato su pagine illustrate con ritagli e inchiostro di china… Sembra passato un secolo da quella Natura morta con sedia intagliata, collage del 1912 di Picasso. Ma se le opere appena citate, in cui Ernst sperimenta nuove tecniche, sono di piccole dimensioni, sarà solo nel Progetto per un Manifesto, realizzato nel 1921, che le medesime tecniche verranno testate su un’opera di dimensioni notevolmente più grandi. Nel 1922 Ernst realizzerà nove collages xilografici per accompagnare le poesie del suo amico Paul Éluard, nel cui frontespizio si ripete il motivo dell’occhio trafitto che simboleggia la liberazione dello sguardo interiore. Le successive due sale, la 3 e la 4, ci raccontano la seconda parte della biografia di Ernst: la sua vita in Francia dal 1922 al 1940.
La sala 3, intitolata “La casa di Eaubonne”, ci restituisce una ricostruzione della casa in cui Ernst visse dal 1923, insieme al suo amico Paul Éluard ed alla moglie di lui Gala (la futura compagna di Salvador Dalì) con i quali instaurò un ménage a trois. L’artista realizzerà alcune pitture murali su due piani. In mostra sono presenti alcuni pezzi del fregio che Ernst realizzò per la stanza di Cécile Éluard, figlia di Paul e Gala.
È la prima volta, da quando nel 1967-68 ci fu il distacco delle pitture murali della casa, che è possibile ammirare dal vivo in una mostra alcuni dei fregi della cameretta di Cécile Éluard. Il fregio, che correva sotto il soffitto, era caratterizzato da una notevole varietà di temi. Tra i segmenti presenti in mostra spiccano quello dal titolo Non ci sono più delle vere idrociclette, un olio su gesso su tela del 1923 in cui è ritratta un’anatra mentre nuota con un ciclomotore dotato di ventaglio, accompagnata da una figura ibrida a metà tra un girino ed un serpente. Resto colpita dall’eleganza generata dal connubio della figura dell’anatra con il ventaglio, due soggetti apparentemente incompatibili che l’arte di Ernst rende unici e godibili. Ed eccoci arrivati alla sala 4, intitolata “Eros e Metamorfosi”, i cui protagonisti sono l’amore, l’amicizia e l’erotismo. Per l’artista l’esperienza dell’amore si associa a quella poetica. L’amore nell’ottica surrealista è lo strumento di conoscenza e trasformazione senza il quale sarebbe impossibile creare un’opera e tramutare un individuo.
Solo così l’amore fisico e quello spirituale potranno diventare i due aspetti concomitanti di un’unione nella quale i due amanti, alimentando le proprie affinità elettive, realizzeranno con la loro unione il mito dell’androgino di platoniana memoria. La donna amata viene eletta quale centro che catalizza tutto: la vita, l’etica, la poetica e l’estetica.
I corpi femminili di Ernst, estremamente sensuali, si innestano con la dimensione mitica, cosmica, vegetale e animale. Ma lasciamoci trasportare da questo viaggio rivoluzionario nel vortice degli innesti che contraddistinguono l’arte del più surrealista di tutti i surrealisti. Ecco apparire dinanzi ai miei occhi Gli uomini non ne sapranno nulla, un’opera permeata di simbologie riferite all’inizio di tutto che ci rimandano all’alternarsi di vita e morte, luce e ombra.
Questo dipinto, pur avendo al suo centro l’atto amoroso, è passibile di molteplici interpretazioni che vanno dall’astrofisica alla magia, all’alchimia alla psicoanalisi, come ci dice lo schema compositivo che riprende uno schema cosmologico di origine seicentesca. L’artista allinea sole/luna/terra intersecando il punto di unione tra le parti inferiori dei due corpi: uno maschile e uno femminile. Ma se reindirizziamo il nostro sguardo, ecco che la composizione si trasforma in una grande maschera. Eh sì, la pittura surrealista è una pittura di segreti, di non detto, di elementi da decodificare come ci riconferma quest’opera fortemente alchemica che fa pensare al matrimonio dei contrari: cielo e terra, sole e luna, uomo e donna. Ecco poi Due giovani in bella posa, un olio su tela del 1924, raffigurante due donne nude, acefale, viste di schiena, i cui corpi risultano alquanto plastici tanto che lo spettatore ha quasi la sensazione di poterli toccare. Alla plasticità di questi due corpi si contrappone l’immagine criptica di Gala, la protagonista femminile del ménage a trois con Paul Éluard e Max Ernst, un olio su tela del 1926.
Ma il dipinto che magnetizza il mio sguardo è Il Bacio, un olio su tela del 1927 nel quale è stato visto un omaggio al dipinto di Leonardo da Vinci dal titolo Sant’Anna, la Madonna e il Bambino con l’agnellino del 1513 (oggi al Louvre di Parigi), come attestano la forma piramidale del gruppo centrale ed il gesto dell’abbraccio della figura superiore. La sostituzione dell’agnellino del dipinto leonardesco con un uccello, parrebbe alludere al nibbio, elemento centrale dell’interpretazione fornita da Freud al dipinto di Leonardo ed alla sessualità dell’artista.
Il Bacio di Max Ernst, dunque è la celebrazione della sessualità ed anche la visualizzazione delle teorie surrealiste mediante la consapevole manipolazione delle linee da parte dell’artista, linee ricavate dalle impronte di una corda lasciata cadere “casualmente” sulla tela. Questa celebrazione della sessualità la ritroviamo nelle sculture in argento, realizzate nel 1960 e 1961, poste all’interno di teche in vetro raffiguranti l’uomo e la donna secondo i canoni marxiani di ibridazione.
La figura maschile e quella femminile si trasformano in prototipi e, dopo essersi ibridati con piante ed animali, protendono le bocche tra l’allusivo e l’ironico.
Il viaggio nell’universo di Ernst prosegue nella sala 5 dal titolo “I quattro elementi (foreste/terra, uccelli/aria, mare/acqua, orde/fuoco)” in cui protagonista è il rapporto che l’artista ha con la natura, un rapporto al contempo razionale ed irrazionale. L’interesse di Max Ernst per la natura si affianca alla curiosità ed alla conoscenza dell’alchimia e dell’ermetismo al fine di andare oltre l’unità fra l’uomo e le forze dell’universo.
Antiche tesi ascrivibili a Pitagora ed Aristotele vedrebbero nel numero 4 la serie di tutte le possibilità terrene che, combinate fra loro, darebbero origine al creato. Dunque, la natura vista come fonte di infinite possibilità caratterizzerà le opere realizzate da Ernst a metà anni Venti, complice l’aiuto della tecnica del frottage da lui inventata in quegli anni. Si tratta di paesaggi caotici di difficile descrizione come nel capolavoro dal titolo Monumento agli Uccelli del 1927 che evoca l’Aria (per Ernst l’uccello è una sorta di animale-totem che incarna la libertà assoluta di volare nel cielo, la libertà dell’aria). Vediamo due gruppi di volatili, uno a terra e l’altro in volo, in un intrico di linee fluide quanto continue, che simboleggiano la sepoltura e l’ascensione di Cristo. Quest’opera ci restituisce la visione surrealista di Max Ernst di un monumento libero da schemi e regole. Si passa poi al dipinto Foresta, realizzato tra il 1927 e il 1928, che evoca la Terra. La tecnica del grottage, che consiste nel graffiare più strati di superficie pittorica colorata, fa riaffiorare in superficie le seducenti presenze che vivificano boschi e foreste. E poi a evocare l’acqua ecco la Corrente del Golfo, olio su tela del 1926, in cui si mescolano elementi naturali e simbologie alchemiche. Infine troviamo il Fuoco, la cui incandescenza, se da un lato è l’elemento basilare per il mutamento, da un altro è il fattore distruttivo. A rappresentare l’elemento fuoco troviamo i dipinti Vulcano II del 1946-47 e Arizona Red del 1951, entrambi realizzati con la tecnica della decalcomania.
Nel primo campeggia uno strano vulcano in piena eruzione, le cui fiamme arancioni si mescolano ad un giallo acceso, mentre nel secondo troviamo un surreale paesaggio rosso con strane figure sulla destra, un ibrido fra forma animale, umana e vegetale. La creazione pittorica di Ernst si avvale della natura come fonte di infinite opportunità di realizzare immagini disseminate di creature biomorfe. Infine i 4 elementi Aria, Terra, Acqua, Fuoco convergono nell’opera Un tessuto di menzogne del 1959, un grande giardino incantato fatto di colori come il giallo, il blu ed il verde. All’interno di questo misterioso giardino sagome di uccelli e di pesci cerano di catturare delle arance disseminate sulla tela mentre strani volti geometrici sembrano guardarci. E il mio sguardo si perde in questo luminoso intrico di figure ibride disorientandosi. Eh sì, Ernst è un artista difficile da capire e ci vuole del tempo per prendere confidenza con un gigante dell’arte come lui, un artista poliedrico, provocatorio e dissacratore. Ma è proprio questa sua poliedricità che lo porta a realizzare creazioni ogni volta diverse per tecnica, per composizione, a renderlo unico. Uscendo dalla sala 5 mi sembra di essere realmente in una dimensione surreale e non me ne dispiace affatto… Anzi, mi accingo ad entrare nella sala 6 dal titolo “Natura e Visione”. Ma di questo parleremo la prossima volta…

Dipingere per me non è un divertimento decorativo o l’invenzione plastica di una realtà sentita; deve essere ogni volta invenzione, scoperta, rivelazione”.
(Max Ernst)