Minima Cardiniana 415/2

Domenica 23 aprile 2023, San Giorgio

UNA CONSIDERAZIONE STORICO-FILOSOFICA SULLA GUERRA IN CORSO…
Conosco da oltre un quarantennio l’amico e collega Dino Cofrancesco: lo conobbi in seguito a un suo gesto di limpido, onesto coraggio. Nel 1981 alcuni giovani provenienti dal Movimento Sociale Italiano e/o da organizzazioni variamente ad esso collegate manifestarono con lucida decisione il loro disagio di fronte a un modo di “essere di destra” o di “stare a destra” da essi ormai ritenuto inaccettabile, sia perché incoerente sia perché ormai reso desueto dalla storia. Quei giovani, che guardavano agli scritti di Alain de Benoist e di altri giovani pensatori francesi come a un modello da sviluppare, erano guidati da un trentunenne, Marco Tarchi, e si riunirono nella località di Cison di Valmarino per un congresso destinato a rimaner memorabile.
Il loro gesto, che fra l’altro tagliava netto il cordone ombelicale con tutta una destra polverosamente nostalgica e ammalata di neoatlantismo, avrebbe dovuto esser guardato con estremo interesse dalle sinistre. Non perché le loro posizioni fossero “filogauchistes”, non lo erano per nulla, ma perché stavano dimostrando che a destra nasceva qualcosa di nuovo e di politicamente non sottovalutabile.
Ma fu proprio questo che al contrario allarmò alcuni settori della sinistra intellettuale, specie coloro che guardavano al magistero di Norberto Bobbio: e fu proprio lui, il “Mostro Sacro”, ad allarmarsi per primo. Non si può dire che quella fosse la sua prova migliore in termini di lungimiranza politica. In altri settori del pensiero intellettuale di sinistra – basti pensare a Massimo Cacciari e a Giacomo Marramao – le reazioni furono di tutt’altra natura.
In tale occasione, dall’ambiente del professor Bobbio si levò una sola voce anticonformista: coraggiosa, ferma, pacata. Quella di Dino Cofrancesco.
Raramente Dino ed io ci troviamo d’accordo. Il suo liberalismo e il mio sorelismo-schmittismo non sono fatti per intendersi. Ma l’amicizia e la stima sono altra cosa: e prevalgono. Sempre.
Benvenuto fra noi a Dino Cofrancesco. Non sempre concorderemo con lui, ma proprio per questo egli sarà per noi tanto più prezioso. Contiamo su una sua assidua collaborazione. Franco Cardini.

SECOLARIZZARE LA POLITICA. LA LEZIONE INASCOLTATA DI BENEDETTO CROCE. RIFLESSIONI AI MARGINI DELLA GUERRA IN UCRAINA
di Dino Cofrancesco
I. La storia, è vero, non si ripete mai ma, indubbiamente, certe analogie sono sorprendenti. Mi è capitato tra le mani uno dei tanti saggi dedicati alla propaganda di guerra negli anni tra l’attentato di Sarajevo (giugno 1914) e la Pace di Versailles (giugno 1919), Croce e i fiorentini durante la Prima Guerra mondiale. Un fronte franco-tedesco nella filosofia italiana (Storicamente.Org Laboratorio di Storia. Nr.14, 2018) di Caterina Zanfi e mi sono venuti in mente i dibattitti dei nostri giorni sull’Ucraina, l’invasione russa, la difesa dell’Occidente. Anche un secolo fa, lo scontro tra i leviatani dalle viscere di bronzo, come Benedetto Croce chiamava gli Stati, assurse a ‘conflitto di civiltà’ quasi che i legittimi interessi degli Stati non avrebbero potuto venir difesi, con efficacia e convinzione profonda, se la guerra non si fosse sublimata in crociata, in scontro finale del Bene contro il Male.
“Cent’anni fa”, ha ricordato Marcello Veneziani nell’articolo Filosofi nella Grande guerra agli ordini di Henri Bergson sul ‘Giornale’ del 19 maggio 2014, “in un discorso pronunciato da presidente dell’Accademia di Scienze morali e politiche, […] Bergson spiegò il conflitto alla luce della sua filosofia e vide opporsi in armi la fluida vitalità dello spirito alla rigida meccanicità della materia, la creatività dell’evoluzione all’automatismo ripetitivo dei processi, l’intuizione alla macchina. Proiettò il proprio pensiero nel conflitto tra le nazioni, fino a identificare la Francia con lo slancio vitale, la potenza creatrice e spirituale, e la Germania prussiana col sordido intreccio di ‘militarismo e d’industrialismo, di macchinismo e meccanismo e basso materialismo morale’. Per lui la Prussia era la patria della rigidità e dell’automatismo, imprigionata in un’armatura imposta dal ‘genio del male’ come egli definì Bismarck. Tutto era sottomesso nei tedeschi alla volontà di dominio”. Non furono da meno i clercs italiani, ricordati da Zanfi, che anzi mostrarono una ben maggiore mancanza di senso della misura.
“Nel germanesimo d’oggi”, scriveva il germanista G.A. Borgese ne La guerra delle idee, Ed. Treves 1916, “sentiamo qualcosa di simile all’orda. […] non è senza verità il luogo comune della barbarie tedesca. Non è soltanto che la presunzione tedesca di germanizzare il mondo sia condannata dall’indomita resistenza del mondo, sufficiente a dimostrare che di popoli eroici e perciò degni di piena sovranità non ve n’è uno solo. Non solo il valore degli altri, ma un’intima deficienza loro propria diminuisce i Tedeschi. E questa deficienza io non vedo tanto in ciò che in senso stretto è chiamato barbarie tedesca (le stragi, le rapine, le vane atrocità), ma in quella che chiamerei oscurità della loro guerra”. Lo stesso fanatismo della mente caratterizzava il critico letterario, antifascista, Alfredo Galletti che in Mitologia e germanesimo, Ed. Treves 1917 non esitava a scrivere “Non ci può essere dubbio: le armi e le idee dell’Europa combattono nella Germania più e peggio che una nazione ebbra di orgoglio conquistatore, più e peggio che una dottrina scellerata di predominio, tramutatasi in ferro e in bronzo per la ruina d’Europa: combattono una divinità malvagia, la cui religione può definirsi un fanatismo sanguinario. È necessario che l’Europa civile distrugga questa religione selvaggia, abbatta questo fanatismo epilettico avido di sacrifici umani; bisogna che essa reintroduca e restauri nella storia del popolo e nell’idea del diritto internazionale la ragione e la volontà consapevoli; bisogna che disavvezzi l’uomo reputato civile – e primo fra tutti, l’uomo germanico – dal sanguinoso delirio, rigerminante in lui da una lunga eredità atavica, che lo induce a risvegliare in sé gli spettri delle sue cupidigie e del suo egoismo e ad adorarli come dei; è necessario lo costringa ad accettare una legge comune e un principio di disciplina morale”.
Insomma la Germania di Max Weber, di Georg Simmel, di Richard Strauss, di Thomas Mann e l’Austria di Sigmund Freud, di Ludwig Wittgenstein, di Gustav Mahler erano diventate gli accampamenti delle nuove tribù mongole e ben pochi furono gli intellettuali – e tra loro Benedetto Croce e Giovanni Gentile, ma di quest’ultimo è meglio tacere per i suoi trascorsi fascisti – che levarono alta la loro voce per ammonire gli italiani a distinguere tra le ‘ragioni degli Stati’, che possono essere opposte alle nostre, e la comune civiltà europea, che comprende Kant e Goethe, Dante e Machiavelli, Molière e Balzac, Shakespeare e Milton. A passare ogni misura fu Giovanni Papini che sulla sua rivista ‘Lacerba’ tuonava futuristicamente: “L’avvenire, come gli antichi Dei delle foreste, ha bisogno di sangue sulla sua strada. Ha bisogno di vittime umane, di carneficine. Guerra interna e Guerra esterna, Rivoluzione e Conquista: ecco la nostra storia. Per l’una e per l’altra noi siamo quello che siamo – cioè superiori ai figli delle bertucce. Noi dobbiamo combattere fra noi e contro gli altri se vogliamo che la civiltà vada innanzi. Conquista di terre e di ricchezze – conquista di verità e di libertà: vittime, vittime e vittime. Vittime assolutamente necessarie. Il sangue è il vino dei popoli forti; il sangue è l’olio di cui hanno bisogno le ruote di questa macchina enorme che vola dal passato al futuro – perché il futuro diventi più presto passato”. Sono parole che ricordano certe escandescenze di Giuliano Ferrara che sul ‘Foglio’ del 15 marzo u.s. invitava a “mandare dal cielo gli angeli sterminatori capaci di impedire il terrore istituzionalizzato che si vuole mangiare una democrazia europea e il suo popolo […] Bisogna che un’apocalisse sacrosanta di fuoco costringa le ributtanti milizie dello stupro e dell’eccidio a fare retromarcia”.
In questi ultimi anni si è detto e si è scritto di tutto. Si è scomodato l’immortale Montesquieu per ricordarci che il dispotismo orientale è sempre vivo, vegeto, e aggressivo, che non c’è possibilità di venire a patti con un governo autoritario e ‘fascista’ (of course) come quello di Putin, che la Russia teme, con un’Ucraina indipendente europea e membro della Nato il ‘contagio della democrazia’, che caduto il nuovo zar milioni di europei orientali (dagli Urali all’Atlantico) adotteranno le istituzioni liberali, la divisione dei poteri, la libertà di stampa, il mercato, la laicità ecc. Nelle primavere arabe non s’è visto nulla di simile e anzi il ritorno al potere dei militari laici ha evitato il peggio – la vera barbarie del fondamentalismo islamico – ma forse per gli ex sudditi dell’impero sovietico le speranze sono fondate – anche se, credo, gli entusiasmi europei delle popolazioni georgiane sono motivati più dal fatto che Unione Europea e Nato sono simboli antirussi che non dalla pur legittima voglia di diventare come noi. Si è persino scomodata la vecchia idea – già confutata da Alexander Hamilton e, ai nostri giorni, da John Mearsheimer – che la pace nel mondo verrà realizzata solo quando nel pianeta ci saranno solo stati democratici, che per definizione non si fanno la guerra tra loro. (La Germania guglielmina e l’Austria-Ungheria avevano forme di governo e Parlamenti che non erano meno democratici dell’Italia sabauda ma su questo è meglio stendere un velo di silenzio).
Un filosofo prestigioso come Biagio de Giovanni, nell’articolo Questo scontro è carico di filosofia, ‘Corriere della Sera’ dell’8 febbraio u.s., è arrivato a scrivere che ci troviamo dinanzi a “uno scontro in atto e in potenza tra il ‘potere orientale’ e il ‘potere occidentale’ […] Asia contro Europa, dai tempi originari, con una tensione che ha avuto anche tratti religiosi nella storia lontana. […] Dunque la resistenza dell’Occidente è per la propria sopravvivenza come continente della libertà”. Siamo insomma, nell’Armageddon Time, nel Tempo dell’apocalisse.
In realtà, è motivo di depressione dover ricordare cose tanto ovvie, la democrazia liberale non è un prodotto industriale esportabile dovunque e stati continentali come la Federazione Russa, la Cina non si governano come uno stato nazionale europeo. Sul ‘Messaggero’ del 24 febbraio u.s. Gianluca Cordella ha scritto nell’articolo Putin e il consenso interno (che è ancora saldo): solo un russo su cinque vuole la fine della guerra: “Con la situazione di stallo sul campo, molti media occidentali cavalcano il dissidio ‘dal basso’ all’interno della Grande Madre Russia, dipingendo crisi di consenso che potrebbero portare a un cambio di guida al Cremlino e alla fine delle ostilità. Ma è davvero così? No, stando a due fonti autorevoli come Bloomberg e Reuters che, in due differenti reportage, raccontano una situazione molto diversa. E la situazione, in estrema sintesi, è che Putin gode ancora del pieno appoggio della gente. Il consenso per lo zar non solo non si è affievolito, ma, anzi, si è rafforzato un pochino. Secondo i dati citati di Bloomberg, solo un russo su cinque – appena il 20% della popolazione – è favorevole alla fine della guerra e al ritiro delle truppe”.
Lasciamo agli scienziati politici, ai filosofi dell’Apocalisse e agli storici moralisti la ‘difesa dell’Occidente’ e della sua democrazia – ‘la migliore forma di governo ad eccezione di tutte le altre’ – che, va riconosciuto, non gode oggi di buona salute, come dimostra in questi giorni il caso della Francia in cui non si riesce ad approvare una legge ragionevolissima (che aumenta di appena due anni l’età pensionabile) senza scatenare le piazze. “La democrazia reale è lontana dall’ideale ma è il meglio che c’è”, ha scritto un brillante (!) e onnipresente political scientist italiano, ma avrebbe dovuto aggiungere «purtroppo non tutti la pensano così» e non è facile convertire i malpensanti in malpensanti. (Gli Americani non ci sono riusciti in Medio Oriente e nel Sud-Est asiatico, con i metodi di Giuliano Ferrara). Quando leggo che bisogna costituire il fronte planetario delle democrazie contro le dittature ‘fasciste’ – peraltro insediate almeno nei tre quinti del globo –, mi chiedo se siamo davvero la patria di Nicolò Machiavelli e della sua scoperta della politica come dimensione autonoma dell’agire umano. Il fatto è che l’universalismo etico (che negativizza le appartenenze di ogni tipo e non riconosce morali particolari) e il diritto cosmopolitico (che vuole abbattere le frontiere tra gli stati) ci hanno fatto dimenticare che, specialmente nel campo delle relazioni internazionali, sono l’interesse e la sicurezza a dettare norme e decisioni. Ed è quanto sanno bene i responsabili della massima potenza economica e militare mondiale (gli Stati Uniti) che non hanno mai esitato ad appoggiare, per motivi di convenienza strategica, i peggiori dittatori con scelte non sempre felici (anche se a volte obbligate come l’alleanza con l’Unione Sovietica nella guerra contro la Germania nazista). Si fanno affari con i paesi con i quali si può intrattenere uno scambio vantaggioso di merci e di capitali; si sostengono i governi sui quali si può contare nel ‘conflitto fondamentale’ che caratterizza le varie epoche delle relazioni internazionali: ad es., i dittatori Francisco Franco o Augusto Pinochet, entrambi di sicura affidabilità anticomunista.

II. Il conflitto russo-ucraino dovrebbe essere affrontato nella stessa logica senza moralismi e mettendo al bando lo ‘spirito di crociata’, che infiamma gli animi di tanti clercs italiani ed europei (quelli statunitensi non sono così unanimi, giacché il potere non corrompe chi ce l’ha ma obbliga ad analisi realistiche). Qui abbiamo una grande potenza in declino che cerca di recuperare disperatamente lo spazio imperiale che, con la caduta del Muro di Berlino, si è progressivamente ridotto. È la Federazione russa ad avere invaso l’Ucraina e dinanzi al fatto oggettivo della ‘conquista e usurpazione’ (per citare il titolo di uno scritto del grande Benjamin Constant) la ricerca delle responsabilità storiche – quelle dell’Europa e dell’America sono state a mio avviso gravissime, basta leggere gli scritti di George Kennan, di Henry Kissinger, di John Mearsheimer – diventa un esercizio accademico sterile. Hanno fatto bene, pertanto, Stati Uniti e paesi europei a contrastare il colpo di mano di Putin e ad armare Kiev anche se oggi non si sottraggono alla critica, avanzata da giornalisti non conformisti come Domenico Quirico, di non proporre seriamente nessun piano di pace che non sia il ritiro delle armate russe da tutti i territori occupati (e persino dalla Crimea!).
Bisogna ‘secolarizzare’ il conflitto in corso, lasciando perdere le gigantomachie, i deliri del neo-panslavismo (gli scritti di Aleksandr Gel’evič Dugin sono l’equivalente delle farneticazioni dei ‘pangermanisti’ che, nella propaganda dell’Intesa, erano la vera spiegazione della Grande Guerra) ma anche la boria occidentalista che sogna un redde rationem che ponga fine alle orde mongoliche che minacciano l’Europa. Ci troviamo dinanzi a uno scontro tra grandi potenze e il nostro compito è quello di impedire a chi ha rotto gli argini della pace europea di realizzare i suoi progetti.
In uno straordinario saggio dell’aprile del 1920, Verso la città divina (poi nel Saggi di economia e politica (1897-1954), Ed. Laterza 1955), Luigi Einaudi, criticando l’articolo di Giuseppe Rensi, La belva bionda (‘Rivista di Milano ’33, 5 marzo 1920), scriveva, differenziandosi nettamente dalla retorica antitedesca degli anni di guerra: “A volta a volta Spagna, Francia, Germania credettero di avere la missione di governare il mondo; di plasmare l’umanità secondo un proprio schema ideale politico, economico, spirituale: il mondo divenuto spagnolo, francese, tedesco. Senza dubbio, l’ideale era grandioso. Terribilmente bello. Ho scritto tante volte, prima durante e dopo la guerra, che la vittoria dei tedeschi sarebbe stata una fortuna, economica-mente e politicamente, per l’Europa e per I’ Italia. E torno a scriverlo. Governo di dotti, poveri ed onesti; economia ben diretta; progressi tecnici meravigliosi; incrementi del sapere e del benessere straordinari, mai più visti ed a breve scadenza; una classe governante consapevole di sé, dura coi rivoltosi, ma benefica alla gente tranquilla: ecco quali sarebbero state le conseguenze di una vittoria dell’idea contenuta nello stato tedesco. Non ho altrettanta fede, anzi non ho alcuna fede che risultati consimili si possano mai ottenere in seguito alla vittoria dell’ideale comunista russo. Dall’ignoranza e dalle barbarie, da una classe priva di dirigenti non può nascere l’ordine e la disciplina. Ma dalla Germania vittoriosa questo, poteva sperarsi, questo era certo si sarebbe ottenuto: che per un secolo l’Europa e forse l’umanità avrebbero parlato, pensato ed operato in tedesco, secondo modi di pensare e di vivere tedeschi, secondo una disciplina ed una volontà unica. L’umanità per un secolo sarebbe stata contenta. Così come sarebbe accaduto se avesse vinto Napoleone. Epperciò quell’uomo di genio non riuscì mai a comprendere perché mai i popoli d’ Europa repugnassero alla felicità che egli voleva ad essi procurare”.
Il realismo di Einaudi non gli consentiva di chiudere gli occhi davanti alla grande Kultur dei tedeschi mentre il suo liberalismo lo portava a temere l’unificazione imperiale dei popoli fatta con la spada del vincitore: l’unità e l’indipendenza degli stati nazionali rimanevano per lui la base su cui doveva ricostituirsi l’equilibrio europeo, che comportava una qualche forma di federazione continentale. È pur vero che non riusciva neppure lui a sottrarsi a quella dimensione dell’ideologia liberale segnata dalla ‘grande illusione’ che i valori giusti avrebbero finito per prevalere sempre e dovunque. Nel 1918, scriveva “Vinse, e non a caso, quella aggregazione di forze militari, presso cui lo stato è concepito come l’ente il quale assicura agli uomini l’impero della legge, ossia di una norma esteriore, puramente formale, all’ombra della quale gli uomini possono sviluppare le loro qualità più diverse, possono lottare fra di loro, per il trionfo degli ideali più diversi. Lo stato limite; lo stato il quale impone limiti alla violenza fisica, al predominio di un uomo sugli altri, di una classe sulle altre, il quale cerca di dare agli uomini le opportunità più uniformemente distribuite per partire verso mete diversissime o lontanissime le une dalle altre. L’ impero della legge come condizione per l’anarchia degli spiriti; la forza limitata alla vita estrinseca; l’unità ristretta alle forme ed alle condizioni di vita. Ma dentro, ma nella sostanza, nello spirito, nel modo di agire, lotta continua, pertinace, ognora risorgente. Questo è ciò che vollero gli uomini, i quali si trovarono da una parte della trincea”. Anche per Einaudi non era sufficiente – com’era invece per Benedetto Croce, alfiere di un liberalismo con i piedi meglio piantati sulla terra – essersi opposti con efficacia alla ragion di Stato austro-tedesca: senza la benedizione dello Spirito della Libertà quella vittoria era dimezzata, prosaica. Oggi sappiamo fin troppo bene che il 1918 non solo non inaugurò la stagione dell’“impero della legge come condizione dell’anarchia degli spiriti” ma segnò la più grave crisi della democrazia liberale mai registrata nel vecchio continente. E non solo in Italia o in Germania ma nella stessa Francia, dilacerata tra destre e fronti popolari, che arrivò divisa al nuovo decisivo appuntamento col secolare nemico tedesco nel 1940 (v. le bellissime pagine de La strana disfatta di Marc Bloch) e finanche nella stessa Inghilterra dove, per ragioni puramente private, non salì sul trono un amico del Terzo Reich come Edoardo VIII poi duca di Windsor.
Ancora una volta, il dovere di preservare ciò che è nostro – la nostra famiglia, la nostra città, il nostro paese – è un dovere assoluto, giacché se perdiamo la base materiale della nostra esistenza nessun valore, nessun progetto di vita può essere realizzabile. E tuttavia non va dimenticata la lezione che Croce ci impartisce in Etica e politica (ed. Laterza 1945) “l’aspetto nel quale la politica si presenta, l’aspetto nel quale bisogna studiarla perché è il suo proprio, non è il divino sorriso dell’arte, o la serenità della sapienza, o la dolcezza austera della bontà; ma tiene del duro e del prosaico. La cerchia della politica è quella delle utilità, degli affari, dei negoziati, delle lotte ora insidiose ora aperte, della forza, come si dice, e della guerra; e in questa continua guerra individui e popoli e Stati stanno vigili contro individui, popoli e Stati, intenti a mantenere la propria esistenza, rispettando l’altrui solo in quanto giovi a questa loro propria, e, in ogni altro caso, assaltando e distruggendo l’altrui o rendendosela soggetta”. Secolarizzare il conflitto tra gli Stati significa mettere da parte l’etica della convinzione – ‘fa quel che devi, accada quel che può’ – un principio che vale in campo morale per chi è disposto a sacrificare la propria esistenza pur di affermare un valore non negoziabile ma sarebbe delittuoso in campo politico. “Libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta. / Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara / in Utica la morte, ove lasciasti / la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara”. Suicidandosi, Marco Porcio Catone Minor testimoniava la sua fede nella libertà e nella dignità umana ma era solo lui a perdere la vita, non metteva a rischio la comunità politica che gli era stata affidata: Dante che guardava con ammirazione al suo mortale nemico, Giulio Cesare, e ancor più al suo successore Ottaviano Augusto, fondatori dell’Impero romano, non a caso non lo pone nell’Inferno e sia pure nel Limbo degli spiriti magni.
Il suicidio, ripeto, è un gesto eroico per il singolo individuo ma nessun pastore può imporlo al suo gregge. Nelle catastrofi che si abbattono sugli stati, c’è bisogno di pragmatismo, di spirito di compromesso, di bargaining: l’imperativo è quello di contenere la perdita di vite umane e la distruzione di beni non sostituibili. Salus populi, non tanto salus rei publicae, suprema lex esto. Talora, bisogna anche ‘darla vinta’ al nemico, rassegnandosi anche all’amputazione di regioni che fanno parte della storia e dell’identità di un paese, se serve a preservare il restante. Quel restante che, in tempi più propizi, potrebbe riconquistare il terreno ceduto al nemico, come accadde alla Francia che perduta una regione storica come l’Alsazia nel 1871 – a Strasburgo era nato nel 1792 il Chant de guerre pour l’Armée du Rhin, ribattezzato La Marsigliese – la riconquistò nel 1918 con la vittoria sugli Imperi Centrali.
Se l’argomento non scatenasse l’ira funesta dei moralisti di destra e di sinistra, si potrebbe forse guardare con maggior distacco se non a tutti almeno ad alcuni dei vari ‘collaborazionisti’ che, nella patria sconfitta e occupata dallo straniero, si assunsero il triste compito di salvare il salvabile. E non è questo il dovere della politica che pesa sulla bilancia i diversi interessi in gioco e i diversi tipi di azione e sceglie il minor male? Si pensi alle durissime condizioni imposte agli stati satelliti dell’Europa orientale dal dispotismo moscovita: i governi nazionali messi in piedi dal vincitore oggi tanto esecrati, erano forse preferibili al dominio diretto? Certo ci furono paura, vigliaccheria, vergognosa arrendevolezza alle direttive sovietiche ma perché negare che, comunque, i vecchi stati nazionali riuscirono a sopravvivere al rullo compressore comunista e che, grazie a questa resistenza passiva, le identità polacca, ungherese, rumena, tedesca, slovena, serba etc. etc. furono in grado di galleggiare nei maremoti della storia e di salvaguardare, almeno in parte, la cultura, le tradizioni, l’arte, il cinema, il teatro, la religione dei popoli? Diceva Croce che “si fa storia solo del positivo”. Un giorno, quando gli ideologi saranno usciti dai laboratori della ricerca storica, si potrà forse pacatamente stigmatizzare l’attitudine a fare di tutte l’erba un fascio sia per quanto riguarda il fenomeno totalitario (comunista e fascista), tutt’altro che un monolite sempre uguale a se stesso, che per quanto riguarda le classi dirigenti che esso riuscì a porre al suo servizio. E quel giorno, forse, si potrà anche deporre un mazzo di fiori sulla tomba del collabò francese che, approfittando del suo impiego ministeriale, riuscì a salvare gli oppositori dell’État Français, pur ritenendo in buona fede che il Maresciallo Pétain fosse l’unica risorsa a disposizione della nazione sconfitta. De Gaulle forse non sostenne mai di essere la spada della Francia e di considerare Pétain (al quale aveva dedicato negli anni trenta il libro Il filo della spada,1932) il suo scudo ma la metafora è densa di significato. Essa non rinvia soltanto al ripudio di una storia radicalmente divisiva che vede i buoni da una parte e i cattivi dall’altra ma altresì, all’impegno, “politico” par excellence, di proteggere, con la resistenza passiva o con quella armata, la nave dello Stato nazionale dall’uragano bellico. Gli storici non prevenuti ci dicono che il vecchio maresciallo di Vichy, andando oltre il compito con cui aveva giustificato l’accettazione del potere – offertogli, peraltro, da un Parlamento in maggioranza di sinistra – contribuì con imperdonabile zelo al rastrellamento di ebrei e di antifascisti. È un fatto innegabile – e che giustifica l’interruzione nel 1992 della cerimonia della deposizione di fiori sulla sua tomba alla quale non si era sottratto nessun Presidente della Repubblica – ma non annulla il senso del proposito di ‘far dono’ di se stesso alla Francia. Con tali rilievi non metto certo sullo stesso piano chi combatté per la libertà e per la democrazia (De Gaulle) e chi si sottomise al bieco straniero invasore nel tentativo di risparmiare quante più vite possibili di suoi connazionali ma solo ricordare che alla base della politica c’è l’etica della responsabilità, quella che valuta costi e benefici dell’agire: irrilevanti, certo, se si pensa al ‘disinteresse’ che sta alla base di quel fondamentalismo etico che, in nome dell’ideale, non esita a far morire Sansone con tutti i Filistei.
(HuffPost, 2 aprile 2023)