Domenica 23 aprile 2023, San Giorgio
… E UNA CONSIDERAZIONE TRA STORIA E METASTORIA, POLITICA E METAPOLITICA
E ALLORA PARLIAMO D’IMPERI
di Franco Cardini
Negli ultimi tempi (ma il discorso viene da lontano) si è tornato a parlare con sempre maggior insistenza, e con sempre meno chiara cognizione di causa, d’imperi e d’imperialismo. Sgombriamo anzitutto il campo dagli equivoci. “Impero” è termine di storia delle istituzioni che indica un sistema politico-giuridico che si propone come sovrano e superiore ad ogni altro sulla terra e la superiorità del quale viene riconosciuta da istituzioni politico-giuridiche le quali, conservando intatte le loro tradizioni e quanto delle loro istituzioni è compatibile con la superiorità del potere imperiale, si considerano parte della compagine imperiale.
“Imperialismo” è un’ideologia di tipo suprematista-colonialista attraverso la quale una potenza superiore per forza politica e militare impone con qualunque mezzo e a vari livelli il proprio potere su altre. “Impero” e “imperialismo” sono termini etimologicamente affini, semiologicamente e concettualmente differenti ed opposti.
Gli eventi degli ultimi mesi hanno riportato in auge, fra l’altro, la discussione sull’“impero” e/o l’“imperialismo” statunitense, su quello sovietico prima del 1991, su quello russo putiniano almeno dal 2007 in poi, su quello comunista cinese.
Del termine “impero”, oggi decisamente si abusa. Si dice che l’“impero” americano è in crisi, che l’“impero” di Berlusconi non c’è più, che l’“impero” di Bill Gates è in crisi da quando la conferenza di Davos lo ha rilevato. Ma l’impero sta ormai rivelandosi, come parola e forse addirittura come concetto, qualcosa di terribile per un verso, di banale e d’ironico per un altro: “l’impero colpisce ancora”, “l’impero di Satana”, “l’impero dei sensi”, “l’impero della moda”, “l’impero delle noccioline” e via dicendo. Forse dovremmo reimparare a trattar le parole con maggiore rispetto e a rispettare la sacralità che da alcune di esse promana. L’espressione penetralia imperii, ad esempio, significa molto di più di un semplice “segreto di stato” ed è ben altra cosa dalla banale privacy.
Quanto all’impero, esso è ben lungi dal limitarsi a qualificare solo il potere. L’impero è, fino dal concetto romano che esprimeva non solo il comando bensì anche il diritto ad esso e la pienezza di esso, il diritto ad esercitare il potere e a mantenerlo attraverso la giustizia espressione della quale sono le norme che esso solo ha la prerogativa di emanare e di render legittime. L’impero non è difatti sono garante delle leggi, ne è origine e fonte: fons iuris.
Vi sono due modi, nel linguaggio politico, di usare il termine impero.
L’uno è approssimativo, impressionistico, demagogico: indica la vasta e prepotente egemonia che un qualche potere straordinario (nel linguaggio odierno la si qualificherebbe una “superpotenza”) assume di fatto su una più o meno vasta area nella quale sono insediati poteri più deboli, di eterogenea qualità, che ad esso più o meno di buon grado si subordinano. In questo senso v’è senza dubbio un’affinità con l’uso che facciamo della stessa parola per indicare un prepotere tanto energico e spietato quanto abusivo: parlare ad esempio di un “impero americano” che nell’Ottocento si esercitava soprattutto sull’America meridionale e sul Pacifico e che non tollerava presenze egemoniche concorrenziali (quello cioè teorizzato politicamente, ma non giuridicamente formalizzato, della “dottrina Monroe”) è cosa molto simile al parlare di un “impero della mafia” o “della malavita”.
L’altro esprime un concetto storico che si è tradotto in termini giuridici e istituzionali precisi e per indicare il quale si usa appunto la parola imperium, che nella repubblica romana dei secoli VI-I a.C. esprimeva il concetto di autorità suprema, esercitata da magistrature come i consoli; il titolo di imperator si attribuiva al generale vittorioso che si era visto accordato l’onore di celebrare in Roma la cerimonia del Triumphus. La res publica Romanorum, che rimase sempre tale, elaborò dopo gli anni della dittatura di Giulio Cesare un titolo onorifico nuovo, il principatus, sulla base del quale il princeps (chiamato Augustus in termini augurali, dal momento che la parola aveva il senso di un illimitato accrescimento della potenza) riceveva dal senato e dal popolo l’auctoritas di rendere esecutive le leggi. Col tempo, e al contatto con istituzioni e modelli stranieri (egizi, babilonesi, persiani, alessandrino-ellenistici) che avevano sviluppato un concetto sacrale della regalità, l’impero – pur continuando a fondarsi su istituzioni repubblicane – si andò trasformando in “monarchia sacra”: intanto, l’imperatore di Roma riceveva la sottomissione di vari popoli (e anche di veri e propri monarchi) ciascuno die quali, affidandosi alla sua supremazia, negoziava il mantenimento sia pure parziale delle proprie tradizioni e prerogative. In tal modo il modello dell’impero romano andava sempre più somigliando alla monarchia “barbarica” che ne rappresentava il principale antagonista, quella dei “Gran Re” arsacidi parti (cioè medi) e più tardi sasanidi persiani.
Nella cultura occidentale, che ha etnocentricamente assunto se stessa a modello, si sono pertanto definiti imperi quelli le istituzioni dei quali è stato possibile confrontare in qualche modo a quelle romane (e “bizantine”, che sono a loro volta genuinamente romane): quelli cinese, giapponese, tartaro, indiano moghul, persiano safawide, ottomano, ma a partire dal Cinque-Seicento anche russo (i termini persiano shah e russo zar sono, come il tedesco Kaiser, trasformazioni fonetiche del latino Caesar) e a partire dal Cinquecento quelli azteco e maya, sono stati definiti “imperi” in quanto il “monarca sacro” che regnava su di loro veniva riconosciuto sovrano da un numero più o meno vasto di sovrani, di principi, di repubbliche tutti a lui subordinati per quanto riconosciuti detentori di una certa quantità di prerogative che li rendevano degni di governare.
Quanto all’Europa occidentale, fra IX e XII secolo si erano anche lì sviluppate istituzioni imperiali che però, dal momento che avevano come centro paesi e popoli germanici e godevano in qualche modo della legittimazione del vescovo di Roma e capo della Chiesa latina (il quale talora si atteggiava a detentore egli stesso di prerogative sovrane) non riuscirono mai a far sì che l’imperatore – detto appunto “romano-germanico” – fosse mai riconosciuto davvero se non come una sorta di primus inter pares tra i monarchi europei. La corona imperiale romano-germanica era inoltre elettiva: ma, a partire dal Cinquecento, la famiglia tedesco-meridionale degli Asburgo riuscì con una fictio iuris (quella del collegio dei “principi elettori”) a trasformarla di fatto in elettiva. Tuttavia dal 1556, allorché l’imperatore Carlo V abdicò al suo immenso potere che andava dalle Ande alle rive del Danubio e della Moldava, il suo potere monarchico familiare si sdoppiò in una “Monarchia d’Austria”, detentrice del titolo imperiale, e una “Monarchia di Spagna” che regnava dall’America latina all’Italia meridionale.
Il potere imperiale asburgico ebbe, tra XVI e XVII secolo, due distinti e costanti avversari: il re di Francia, che ai primi del Cinquecento aveva cercato con Francesco I di strappare la Sacra Corona a Carlo V ma che poi, come “re cristianissimo di Francia”, regnava a sua volta su un “impero de facto” costituito da colonie asiatiche, americane e più tardi africane; e quello d’Inghilterra, a sua volta titolare di un ancor più vasto impero coloniale. Nell’età moderna i due modelli sovrastatali e sovranazionali che più vicini sono a quello archetipico romano nell’aura sacrale da cui il sovrano è cinto e dalla pluralità di poteri diversi a lui subordinati furono quello spagnolo e quello britannico, ai quali fra Sei e primo Novecento si andò approssimando quello russo.
Il concetto d’impero si è andato dislocando in un “complesso occidentale” e uno “orientale” nel pensiero del più grande filosofo del diritto del XX secolo, Carl Schmitt, che – discutendo a metà degli Anni Trenta del Novecento con lo scrittore Ernst Jünger – qualificò l’impero occidentale (cioè il britannico) come Leviathan signore degli oceani e quello orientale (identificato ora con il Sacro Romano Impero, ora con l’impero zarista, ora con quello napoleonico) come Behemoth signore della massa continentale. La lotta tra Inghilterra e Napoleone, quindi il “Grande Gioco” che oppose impero zarista a Sua Maestà Britannica nella conquista dell’Asia dell’Ottocento, sarebbero espressioni moderne e si può dire contemporanee di questa “corsa all’impero” in un mondo progressivamente secolarizzato, nel quale l’auctoritas imperiale ha perduto la sua aura sacrale. Ma ciò rende storicamente parlando impossibile e antropologicamente parlando illecito usare il termine “impero” per qualificare queste moderne formazioni politiche figlie primogenite della Volontà di Potenza: come correttamente Massimo Cacciari, afferma, “l’auctoritas di un regime politico, qualsiasi esso sia, non può non riferirsi a un orizzonte metapolitico” (M. Cacciari, Il tramonto di Padre Polemos, in M. Cacciari, L. Caracciolo, E. Galli della Loggia, E. Rasy, Senza la guerra, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 119). L’auctoritas universale di chi non possa o non voglia definirsi rex et sacerdos è condannata a un’arbitraria autoreferenzialità l’unico titolo di sostegno del quale è la forza bruta. Così, non si fonda alcun ordine stabile.