Domenica 23 aprile 2023, San Giorgio
LA POLITICA ECONOMICA E FISCALE DELL’ITALIA ODIERNA
FLAT TAX E CETI PRODUTTIVI.
AL DI LÀ DELLE APPARENZE LA DURA REALTÀ DI UN FAVORE FATTO ALLA FINANZA APOLIDE
di Luigi Copertino
I contenuti della riforma fiscale del governo Meloni
“L’approvazione della Delega sulla Riforma fiscale è una vera e propria svolta per l’Italia. È una riforma epocale, strutturale e organica: una rivoluzione attesa da 50 anni con importanti novità a favore di cittadini, famiglie e imprese. Con il nuovo Fisco delineiamo una nuova idea di Italia, vicino alle esigenze dei contribuenti e attrattivo per le aziende. La Riforma contiene una visione complessiva e programmatica che premia la lealtà e la responsabilità del contribuente, gettando le basi per un nuovo rapporto di fiducia con il Fisco. Grazie alla Riforma del sistema fiscale abbassiamo le tasse, aumentiamo la crescita e l’equità, favoriamo occupazione e investimenti”[1].
Così il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni annunciando nello scorso mese di marzo l’approvazione della delega sulla Riforma fiscale cui seguiranno, entro 24 mesi, i decreti legislativi di attuazione. Un annuncio trionfalistico che bisogna esaminare nella consistenza di quanto promette per verificare se dietro le apparenze non ci sia una trappola probabilmente inavvertita dalla stessa premier, la quale ha dimostrato di sposare una linea thatcheriana e reaganiana in contraddizione con le radici della sua famiglia politica di provenienza che è quella della cosiddetta “destra sociale” e non liberale.
Vediamo, pertanto, in cosa consiste questa riforma fiscale[2].
In ordine all’IRPEF, ossia al reddito delle persone fisiche, abbiamo l’applicazione della cosiddetta flat tax (tassa piatta) mediante l’individuazione di un medesimo onere impositivo a prescindere dalle diverse categorie di reddito prodotto e di una unica fascia di esenzione fiscale. Il governo parla in proposito di attuazione graduale della “equità orizzontale”. Ora, benché un qualche elemento di equità sembra sussistere laddove le spese produttrici del reddito di lavoro dipendente e assimilato sono deducibili come anche i contributi previdenziali obbligatori, l’applicazione, in luogo delle aliquote per scaglioni di reddito, di un’imposta sostitutiva dell’Irpef, con aliquota agevolata, su una base imponibile commisurata all’incremento del reddito del periodo d’imposta rispetto al reddito di periodo più elevato tra quelli relativi ai tre periodi d’imposta precedenti, rappresenta in modo palese una equiparazione, ai fini fiscali, dei redditi più alti a quelli più bassi. Ovvero i più abbienti ed i meno abbienti pagano in misura pressoché eguale le tasse. Di conseguenza si registra una ingiusta redistribuzione del peso fiscale complessivo che viene alleggerito per i redditi più alti in corrispondenza all’automatico suo appesantimento per i redditi più bassi, proporzionale alla riduzione prevista per i primi. In altri termini, se i più ricchi contribuiscono meno, pagando quanto i meno ricchi, diventa inevitabile che il peso complessivo sarà maggiore su questi ultimi. Al momento sembra che le fasce delle aliquote passeranno da quattro a tre. Una unificazione inziale delle aliquote che nulla garantisce non sarà seguita, in un futuro più o meno prossimo, da ulteriori unificazioni in barba al principio costituzionale della progressività del carico fiscale.
Sul fronte dell’IRES, ossia l’imposta sui redditi delle società e degli enti, la riduzione dell’aliquota viene condizionata a due parametri da rispettare entro i due periodi di imposta successivi a quello nel quale è stato prodotto il reddito, ovvero all’impiego di tutto o di parte del reddito conseguito in investimenti ed in nuove assunzioni nonché alla non destinazione degli utili a finalità estranee all’esercizio d’impresa. Certamente si tratta di un provvedimento condivisibile nell’ottica dell’aiuto all’occupazione ed agli investimenti in economia reale. Se, tuttavia, la riforma intende agevolare investimenti ed occupazione, quindi la crescita economica, non si capisce come mai, però, la riduzione dell’aliquota precede l’effettuazione degli investimenti che devono essere operati entro i due periodi d’imposta successivi a quello nel quale è stato prodotto il reddito assoggettato a imposizione con l’aliquota ridotta. Come dire che lo Stato riduce ancor prima che gli investimenti e le assunzioni siano effettuati e, diciamo, a fiducia. Non è dato capire quali e quanti controlli saranno attuati per verificare il rispetto di dette condizionalità da parte delle imprese.
È prevista, poi, la revisione della definizione dei presupposti dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) attraverso la razionalizzazione del numero e della misura delle aliquote nonché la revisione della disciplina della detrazione. Dato che l’Iva colpisce i consumi, costituendo un elemento di formazione dei prezzi dei beni, detta revisione è stata pensata, probabilmente, anche come un provvedimento di contenimento dell’inflazione.
L’imposta sulle attività produttive (IRAP) viene abolita ed il suo gettito – che attualmente finanzia il finanziamento del fabbisogno sanitario delle Regioni – sarà garantito dall’istituzione da una sovraimposta all’Ires.
Infine, ulteriori disposizioni tendono a revisionare lo “Statuto del contribuente” onde aumentare la certezza del diritto e l’affidabilità dei contribuenti nonché prevedere maggiori obblighi di motivazione a carico della parte pubblica, l’accessibilità agli atti e la correttezza del contradditorio fiscale.
Spiegate, in modo sintetico, ma puntuale, le linee basilari della riforma fiscale governativa, andiamo ora ad esaminare, sotto un profilo etico-filosofico e giuridico-economico, la teoria che è alla base della riforma che, come già accennato, è quella della tassa piatta o flat tax.
Una strana incongruenza
La flat tax è senza dubbio una incongruenza, di origine thatcheriana, nel programma della principale forza di governo laddove si tenga conto dell’ascendenza destro-sociale della Meloni e di molti esponenti di Fratelli d’Italia. Secondo i suoi sostenitori la tassa piatta dovrebbe rilanciare l’economia in quanto meno prelievo fiscale significa più liquidità per i consumi. Nell’ottica delle politiche a sostegno della domanda, essa costituisce l’alternativa monetarista, all’insegna del meno Stato, al deficit spending keynesiano. Dal punto di vista etico la flat tax è senza dubbio un favore ai più ricchi. Dal punto di vista giuridico essa è in contrasto con il principio costituzionale della progressività del prelievo fiscale. Per superare, in particolare, il dubbio di incostituzionalità la proposta governativa ha cercato di tener conto di un minimo di differenziazione delle aliquote fiscali ma, al di là di questa foglia di fico, la loro riduzione è sempre tale da mettere nella stessa, alquanto ampia, fascia impositiva redditi molto differenziati tra loro e, quindi, assoggettando allo stesso tributo redditi alti e redditi bassi. Esiste, poi, sotto il profilo della sua efficacia economica, un evidente eccesso di fiducia circa i suoi effetti. Laddove attuata, infatti, la flat tax non ha affatto prodotto un rilancio dell’economia, se non per i soli ceti finanziari e capitalistici, mentre ha ridotto le prestazioni sociali dello Stato, persino delle sue funzioni ritenute basilari come la cura delle infrastrutture viarie.
È noto e storicamente comprovato che la propensione alla spesa è maggiore nei ceti meno abbienti che in quelli ricchi. Per il semplice fatto che i ceti popolari, al fine di provvedere al necessario vitale, spendono tutto o quasi il proprio reddito, mentre i ricchi, una volta soddisfatte non solo le esigenze vitali ma anche qualche capriccio superfluo, hanno la tendenza a tesaurizzare. L’idea per la quale i ricchi, lasciati fare, usano le proprie ingenti disponibilità finanziarie investendo, producendo posti di lavoro, consumando a gogò e quindi incentivando l’economia, non è comprovata dai fatti e si è dimostrata soltanto un paradigma ideologico per coprire le politiche neoliberiste. Facciamoci la domanda: soddisfatto il capriccio di avere un parco auto di lusso con un certo numero di vetture, quando spenderà ancora un ricco miliardario in automobili di lusso? Pressoché nulla! Al contrario, un impiegato che spende tutto il suo reddito per sovvenire ai bisogni vitali della famiglia, non sarà invece propenso ad altri ulteriori acquisti, oltre il vitale, laddove vedesse il suo stipendio aumentare? Ecco perché un minor carico fiscale a vantaggio del ricco miliardario significa soltanto un favore alla rendita, alla tesaurizzazione, alla non circolazione monetaria.
Lo stesso dicasi per le imprese, le quali pianificano i propri investimenti guardando soprattutto alla capacità dei mercati reali di assorbire la produzione. Dove il mercato, per asfissia di liquidità, non è in grado di assorbire la produzione, le imprese non investono. Il mercato è asfittico laddove la domanda è contenuta. Ma la domanda dipende innanzitutto dal livello dei salari e dalla redistribuzione della ricchezza prodotta. Se la ricchezza non è adeguatamente distribuita il mercato resta bloccato per insufficienza della domanda e non c’è aumento di produttività che possa evitare la deflazione. In mancanza di domanda, i beni restano in magazzino. Se la domanda subisce contrazioni gli imprenditori riducono non solo gli investimenti ma anche ogni altro tipo di esposizione. Un sistema tributario che facilita l’accumulazione della ricchezza prodotta nei ceti più alti, a detrimento dei ceti medio-bassi, ha esiti deflattivi sulla domanda. Senza, poi, contare che nelle fasi negative del ciclo economico c’è un solo soggetto che può spendere, senza preoccupazioni, e far ripartire l’economia ed è lo Stato. Agli investimenti pubblici seguono, immancabilmente, per il meccanismo della fiducia sostenuto dall’aumento della domanda, anche gli investimenti privati. Ma se si toglie allo Stato la possibilità di fare spesa, o mediante politiche di austerità come quelle imposte dall’UE o mediante provvedimenti come la flat tax, allora l’avvitamento del sistema diventa inevitabile.
Verifica del fondamento effettivo delle ragioni della tassa piatta
Detto questo, resta un argomento ineludibile a favore dei sostenitori della flat tax ed è quello per il quale, effettivamente, oggi il livello di tassazione, in Italia ma anche altrove, ha raggiunto punte talmente alte, superiori al 40% del reddito, con punte vicine al 50%, da diventare insostenibile perché sottrae risorse ai produttori ed ai consumatori. Tuttavia, se il carico fiscale italiano è pressoché raddoppiato nell’ultimo mezzo secolo, per circa la metà in termini di imposte dirette, bisogna chiedersi quali ne siano state le cause.
La mancanza di una adeguata contropartita dell’aumento del carico fiscale in efficienza dei servizi pubblici è il segnale per orientarsi nella ricerca delle sue cause. Diciamolo subito: la contropartita manca perché il prelievo fiscale non serve, in via principale, a sostenere la spesa per i servizi ma è indirizzato soprattutto a coprire l’enorme mole degli interessi sul debito pubblico che lo Stato, non più padrone dei processi di creazione monetaria, contrae quotidianamente sui mercati finanziari. Sono questi, i mercati finanziari, a lucrare sul prelievo fiscale. I popoli lavorano e producono per – come si dice nell’odioso gergo finanziario – “servire il debito”. Attualmente infatti lo Stato, privato di sovranità monetaria, è costretto a funzionare come un esattore al servizio della finanza apolide. Questo innaturale ruolo di esattore, a vantaggio della finanza privata, lo Stato lo esercita soprattutto a danno dei ceti produttivi – il ceto medio e la working class o ciò che di essa rimane – i quali generalmente operano nelle piccole e medie imprese, quelle che costituiscono, sin dal medioevo, la struttura portante dell’economia italiana. Le piccole e medie imprese, legate al territorio ed alla produzione reale socialmente utile, sono attualmente, per via dei processi di globalizzazione, le uniche ad essere soggette agli obblighi fiscali. Le grandi imprese e le multinazionali riescono a sfuggire al fisco delocalizzando la sede legale, quella che determina la soggettività fiscale, nei cosiddetti “paradisi fiscali” dove le tasse sono più basse o quasi nulle. In tal modo il grande capitale finanziario contribuisce ad innescare fenomeni di dumping fiscale e concorrenza sleale tra Stati. Alla luce di tali dinamiche la flat tax non risolverà nulla ed avrà solo l’effetto di ridurre ulteriormente i servizi pubblici provocando un ulteriore arretramento dei ceti produttivi, medi e popolari, a vantaggio dell’oligarchia finanziaria transnazionale. Perché è evidente che, in caso di buco di bilancio provocato dalla tassa piatta, la scelta tra non onorare il pagamento degli interessi sul debito pubblico – con tutte le conseguenze che ne deriverebbero in termini di crollo della credibilità dello Stato sui mercati finanziari internazionali, con relativa impennata dello spread – e la chiusura di un ospedale o di una scuola, è già segnata in anticipo.
È, d’altro canto, anche molto dubbio l’assunto secondo cui la tassa piatta, abbattendo l’evasione e, a regime, incrementando le attività economiche, risulterebbe addirittura benefica per le casse erariali. La reagonomics degli anni ’80, che era basata sulla curva di Laffer (per la quale oltre un certo livello di tassazione il gettito diminuisce perché il carico fiscale disincentiva la creazione privata di ricchezza), ha dimostrato l’esatto contrario. L’ampio taglio fiscale, a beneficio soprattutto dei più ricchi e della grande impresa multinazionale, non ha ridotto ma aumentato il debito pubblico americano. La potenza del dollaro ed il dominio politico ed economico globale statunitense hanno impedito un disastro colossale ma non l’aumento della povertà dato che, in assenza di welfare, milioni di americani sono caduti sotto la soglia del minimo vitale.
Il ceto medio e la sua vocazione naturale
Un fisco meno esoso può essere un bene ma non in mancanza di sovranità monetaria. Perché in assenza di sovranità monetaria la flat tax si risolve semplicemente in un provvedimento contro i ceti medi, nonostante che in prima battuta ed in apparenza sembri al contrario un sostegno per il ceto medio. I ceti medi sono la colonna vertebrale degli Stati moderni perché, storicamente, essi si sono formati proprio grazie allo Stato nazionale il quale riuscì, a suo tempo, ad incanalare il capitalismo verso obiettivi non meramente capitalistici. Se la profezia marxiana – in vero una mera applicazione dello schema dialettico hegeliano – sullo scontro finale tra due classi, borghesia e proletariato, per Marx inevitabile a causa della proletarizzazione degli antichi ceti rurali e artigianali pre-industriali, non si è avverata nel XX secolo la causa va cercata nella funzione storica assolta dallo Stato nazionale che, dirigendo e guidando lo sviluppo del capitalismo verso obiettivi di coesione nazionale, ha fatto leva sociale sui nuovi ceti medi che il processo di industrializzazione andava formando.
Lo Stato nazionale, governando, come l’auriga platonico, la übris del capitale, nel corso del XIX e XX secolo è riuscito ad incentivare la formazione dei nuovi ceti medi, la “piccola borghesia” costituita da professionisti, impiegati pubblici e privati, militari, piccoli imprenditori, giornalisti, docenti, etc., socialmente più vicina alle classi lavoratrici ma da esse distinta per psicologia e vocazione alla leadership sociale. I ceti medi sono stati il perno del sistema nazionale di economia perché, “stretti” tra capitale e proletariato, hanno, di volta in volta, mediato tra l’uno e/o l’altro in nome di soluzioni interclassiste più o meno avanzate e modernizzatrici. I ceti medi hanno fornito la base sociale alle rivoluzioni del XX secolo, quella fascista e quella comunista. Anche nella Russia sovietica, infatti, si formò uno specifico ceto medio di tecnici. Sia Lenin che Mussolini appartenevano alla “piccola borghesia”. Pur seguendo un percorso diverso da quello italiano prebellico e russo, anche lo sviluppo delle democrazie liberali e socialdemocratiche occidentali, nel corso del secolo scorso, è stato segnato – in Italia, ed in altri Paesi che avevano sperimentato la “terza via” fascista, senza soluzioni sostanziali di continuità – dalla forza politica della “piccola borghesia” che si è rivelata, proprio per la sua posizione intermedia, decisiva e centrale per il patto sociale che ha guidato le politiche economiche del secondo dopoguerra. Con grandi e consequenziali vantaggi per la stessa working class la quale, a rimorchio dei ceti medi, è riuscita a conquistare diritti fondamentali e migliorare notevolmente le proprie condizioni sociali solo nel contesto, stabile, di quel patto sociale. Un patto garantito dallo Stato nazionale prima che la globalizzazione, la liberalizzazione transnazionale dei movimenti di capitale e le trasformazioni tecnologiche, non guidate politicamente, ne mettessero in discussione i fondamenti.
Il neo-liberismo e l’arretramento del ceto medio
La sottrazione di risorse fiscali allo Stato ha comportato, quale conseguenza principale, quella della diretta esposizione dei ceti medi ai mercati finanziari. L’abbandono dell’erogazione pubblica dei servizi (scuola, sanità, sociale, etc.) ha costretto, a partire dagli anni ’80, i ceti medi ad indebitarsi con le banche private per non rinunciare ai servizi – ora privatizzati e quindi accessibili soltanto a prezzi di mercato – e continuare così a sostenere il precedente tenore di vita. Questo indebitamento massiccio del ceto medio prende avvio dagli Stati Uniti a seguito delle politiche reaganiane che hanno innescato l’epocale processo di destatualizzazione postmoderna. Per fare un esempio concreto, laddove, in Occidente, le famiglie del ceto produttivo, piccola borghesia e classe operaia, garantivano ai figli gli studi superiori universitari grazie alle prestazioni dello Stato sociale, a seguito della svolta reaganiana-thatcheriana esse sono state costrette a contrarre mutui con le banche per far studiare i figli e sopperire alla cessazione delle prestazioni agevolate statali. Le politiche di austerità colpiscono principalmente i ceti medi destinati così ad un arretramento sociale fino al limite della “proletarizzazione”. Marx sta conseguendo una rivincita grazie alle politiche del neoliberismo globale che hanno messo in estrema difficoltà i ceti medi formatisi nel processo di modernizzazione. Orbene la flat tax, in mancanza di sovranità monetaria ossia in mancanza di una Banca centrale che sostenga il fabbisogno finanziario dello Stato, nonostante la pretesa di farne un mezzo di sostegno della domanda, è un sicuro strumento di austerità perché costringe lo Stato a ridurre la sua spesa sociale.
“A partire dai primi anni ottanta – ha osservato Stefano Fassina dell’associazione sovranista di sinistra ‘Patria e Costituzione’ –, la politica economica neo-liberista … alimenta gli effetti sperequati dall’apertura senza regole democratiche dei mercati nazionali. (…). È di moda la ‘flat tax’ e la delegittimazione della progressività dei sistemi fiscali in nome delle virtù creatrici della diseguaglianza. È di moda il ‘trickle down’, la teoria dello sgocciolamento del benessere generato dall’arricchimento dei più ricchi in quanto più produttivi. È di moda l’aggressione al welfare dipinto sempre e comunque come assistenzialismo clientelare (…). È di moda affidare alla finanza la sostituzione del ‘welfare state’, indubbiamente in difficoltà. Dal ‘welfare state’ alla ‘welfare finance’. L’offensiva va avanti dall’amministrazione Reagan, ma la sua codificazione massima si è avuta con la presidenza Bush figlio (…). Data la stagnazione dei redditi da lavoro, le classi medie, per continuare a consumare e permettersi stili di vita da classi medie, si sono dovute indebitare. Il debito delle famiglie degli Stati Uniti aumenta dal 40% del Pil all’inizio degli anni settanta al 100% del Pil alla fine del 2007. Nell’Unione Europea, il trend è simile: la media del debito delle famiglie sale dal 42% del Pil nel 1995 al 74,2% nel 2009. In Italia, nello stesso periodo, dal 18,2 al 34,2%. Una impennata dovuta non solo alla necessità di risorse per l’acquisto della casa. Una quota consistente del debito è finalizzata al consumo”[3].
Tutto questo accadeva mentre, prima della crisi del 2007, il debito pubblico, nell’Eurozona, era in forte discesa a partire proprio nei Paesi euromediterranei (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna), per via delle politiche di austerità ossia di tagli alla spesa, quindi riduzioni delle prestazioni di welfare, e di aumenti delle tasse, volti a sostenere il debito sovrano. In altri termini, un mix di deflazione salariale, di arretramento del welfare, privatizzazione della sovranità monetaria e di incoraggiamento all’indebitamento verso i mercati e le banche, ha aumentato il divario sociale tra il vertice iper-ricco e la base povera delle società occidentali, soprattutto a danno dei ceti produttivi che, onde evitare la “proletarizzazione”, hanno accettato, complice la politica monetaria espansiva delle Banche centrali a sostegno dell’offerta di credito delle banche commerciali, di indebitarsi con la finanza privata. Il gioco ha funzionato fino a quando non è arrivata la crisi del 2007 che ha fatto saltare il banco – o meglio la banca – lasciando le classi medie e quelle popolari alla mercé della deflazione da indebitamento. Quando, poi, alla deflazione del 2007-2015 è subentrata, o meglio si è sovrapposta, l’inflazione da costi, innescata dai lockdown pandemici e dalla rarefazione delle materie prime e energetiche, alla quale la guerra russo-ucraina ha contribuito ulteriormente, i ceti produttivi hanno visto ridursi, per l’aumento dei prezzi, ancora di più il proprio potere d’acquisto già ridotto in precedenza per la contrazione della domanda conseguente ad un quarantennio di accrescimento delle disuguaglianze sociali. La duplice crisi deflattivo-inflattiva ha riproposto di nuovo il problema dell’indispensabile ruolo dell’Autorità politica nella gestione, non meramente regolativa, dell’economia. Ma tuttora continua a persistere il paradigma egemone imposto dall’oligarchia finanziaria transnazionale.
Negli Stati Uniti – scrive Raghuram Rajam, professore di finanza a Chicago, economista ortodosso – “la risposta del governo all’aumento della diseguaglianza (…) è stata quella di incentivare il credito alle famiglie, in particolare, ma non soltanto, quelle a basso reddito. I benefici – più elevati consumi – sono immediati e il pagamento dell’inevitabile conto rinviato al futuro. Per quanto cinico possa apparire, le amministrazioni hanno utilizzato il credito facile come palliativo per evitare di affrontare le cause di fondo dell’ansia delle classi medie. (…) “mangiare a credito” è stato il mantra dei governi nella fase pre-crisi”[4].
In altri termini il neoliberismo, demolendo il welfare, ha servito gli interessi della finanza privata gettando ceti medi e classi popolari – ossia i “produttori” – nelle sue braccia, pronte ad accogliere i nuovi indebitati da tosare con il sovraccarico degli interessi sui debiti contratti. In tal modo la finanza privata ha aumentato i profitti delle proprie rendite a danno dei salari ma anche della produttività delle aziende, anch’esse esposte alla dipendenza da un sistema bancario sempre più deregolamentato a causa dell’abrogazione delle normative – come il Glass Steagall Act americano o la Legge bancaria italiana del 1936 – a suo tempo elaborate proprio al fine di costringere la finanza a servire il bene comune anziché speculare rischiosamente parassitando l’economia reale.
“… è la disuguaglianza – osserva ancora Stefano Fassina – originata dal declino della civiltà del lavoro la causa di fondo degli squilibri macroeconomici, nascosti per una lunga fase dall’espansione del debito privato. (…). Degenerazione della finanza e polarizzazione nella distribuzione del reddito, alimentata dalla regressione del lavoro, sono facce della stessa medaglia. Qualcuno avido di denaro ha offerto denaro senza scrupoli. Qualcun altro, però, ha dovuto domandare o è stato indotto a domandare. I “subprime” sono stati operazioni finanziarie irresponsabili. Però, hanno consentito a milioni di famiglie di comprare la casa di abitazione. Con la distribuzione del reddito caratteristica degli anni sessanta, le stesse famiglie avrebbero potuto permettersi mutui “prime”. (…). La via finanziaria è stata la soluzione per quadrare il cerchio di redditi da lavoro sempre più sperequati, trasformazione in senso regressivo dei sistemi fiscali, smantellamento delle istituzioni di welfare e consenso delle classi medie. Senza i “miracoli” promessi dalla finanza alle classi medie, il paradigma neo-liberista non si sarebbe potuto affermare in un contesto democratico e il blocco della fase espansiva delle economie globalizzate sarebbe arrivato molto prima”[5].
Presunte virtù della flat tax
I sostenitori della flat tax additano, come esempio di buon funzionamento del provvedimento, la Russia di Putin che, applicata la tassa piatta, ha visto crescere il Pil in modo impressionante. Ma essi dimenticano che il successo dell’economia russa, in particolare oggi che ha dimostrato capacità di resistere alle sanzioni occidentali a causa della guerra ucraina, ha avuto la sua spinta, principalmente, dall’esportazione di gas naturale, ed anche di un po’ di greggio. Non è infatti un caso se – a somiglianza dell’ENI di Enrico Mattei nell’immediato secondo dopoguerra italiano – il settore energetico nella Russia di Putin è, mediante la Gazprom, nelle salde mani dello Stato. Ricordiamoci che Putin, anche ricorrendo a metodi duri e tuttavia necessari, ha meritoriamente sottratto il settore energetico ai grandi oligarchi, quasi tutti esponenti della ex nomenklatura sovietica, che si erano impadroniti dell’economia russa durante la presidenza Eltsin.
Un altro esempio molto accreditato dei buoni esiti della flat tax è quello dei Paesi dell’area baltica. Si nasconde di dire, tuttavia, che in quei Paesi essa ha comportato la privatizzazione della previdenza, sicché i pensionati lituani, lettoni, estoni attualmente dipendono dalle rischiose performance a breve termine dei mercati finanziari sui quali è investito il denaro dei fondi pensioni privati. Il risparmio fiscale non bilanciato ha portato, nei Paesi baltici, ineluttabilmente alla diminuzione della copertura previdenziale e sanitaria. Cosa accadrà ora in Italia dove, nonostante i forti tagli effettuati in particolare sotto i governi di centro-sinistra, la spesa previdenziale ammonta ancora ad oltre il 16,5 per cento del PIL e quella sanitaria, pre-covid, a circa ad un quarto della spesa pubblica? Il principale rischio della riforma fiscale del governo Meloni è che essa potrà comportare una inevitabile ulteriore privatizzazione del sistema pensionistico e di quello sanitario. Un effetto collaterale della riforma fiscale che si risolverebbe in un altro grande regalo ai fondi pensioni globali ed alle assicurazioni sanitarie private.
Una via alternativa alla flat tax per ridurre il carico fiscale
La riduzione del prelievo fiscale in Russia, come detto, ha funzionato senza danni perché lo Stato ha potuto contare sugli introiti che ad esso assicura la Gazprom ovvero l’impresa pubblica monopolista dell’estrazione e della commercializzazione del gas russo molto richiesto sui mercati internazionali.
Questo ci porta al cuore del problema e della sua soluzione. In mancanza di una alternativa, in termini di entrate, al prelievo fiscale, nessuno Stato può permettersi di ridurre le tasse senza compromettere la stabilità sociale e nazionale. C’è, tuttavia, un altro modo per diminuire la pressione fiscale ed è quello di non pagare più gli alti tassi di interesse sul debito pubblico. Ma per fare questo è necessaria una Banca centrale che monetizzi lo Stato a tassi bassissimi, sottraendolo al ricatto dei mercati finanziari. In mancanza di sovranità monetaria, attualmente, una parte cospicua, molto alta, degli introiti fiscali servono per coprire, come detto, il pagamento degli interessi sul debito pubblico contratto con i mercati finanziari. Se ci fosse una Banca centrale deputata all’acquisto del debito pubblico al prezzo da stabilito dallo Stato laddove i mercati rifiutassero tale prezzo, deputata in altri termini a finanziare lo Stato, quest’ultimo non avrebbe alcun bisogno di indebitarsi con gli hedge fund e gli altri fondi speculativi né di sottoscrivere derivati per ottenere liquidità a tassi di mercato e quindi esosi. Oggi, invece, lo Stato funziona come ente di drenaggio di risorse dal popolo verso la finanza apolide e transnazionale. È lo “Stato criminale e criminogeno” di cui parla l’economista Hyman Minsky, uno dei padri della Modern Money Theory. È il sistema dello strozzinaggio globale, avrebbe detto Ezra Pound. Nell’eurozona, la dipendenza dagli usurai internazionali è garantita dall’impianto ordoliberale che l’UE si è data, sancendo con il Trattato di Maastricht il divieto per la BCE di finanziare gli Stati aderenti all’euro sicché, quando è sopraggiunta qualche anno fa la crisi dei debiti sovrani, il “quantitative easing” di draghiana memoria si è risolto in una operazione di acquisto dei titoli del debito pubblico, degli Stati in difficoltà sui mercati, non direttamente alla fonte ossia dallo Stato ma attraverso il mercato secondario ovvero acquistando, a prezzo maggiore, dal sistema bancario privato che non vedeva l’ora di sbarazzarsi di titoli svalutati. Ora che la BCE ha cessato, quasi del tutto, gli acquisti del debito pubblico dei Paesi che prima sosteneva, si pone non il problema dei titoli in pancia all’Istituto di Francoforte – un falso problema perché le Banche Centrali come creano dal nulla così distruggono il denaro[6] – quanto invece il problema del ripristino della dipendenza assoluta di quei Paesi dai mercati speculativi. Una dipendenza che sancisce un iniquo sistema fiscale perché mentre i grandi capitali, oggi liberi, sfuggono al fisco, dato che possono pagare le tasse dove più ad essi conviene, i ceti produttivi, piccoli imprenditori e i lavoratori dipendenti, sono torchiati dal peso fiscale degli interessi sul debito pubblico, che resta tutto e solo a loro carico.
La concretezza dei dati parla da sé
Vediamo, ora, per essere più concreti, qualche significativo dato relativo all’Italia degli ultimi quarant’anni[7].
Il raffronto dei dati del PIL, del Debito Pubblico, del Deficit Pubblico, del Saldo Primario (differenza tra entrate ed uscite dello Stato al netto degli interessi) e della Spesa per interessi tra il 1980 ed il 2012 consente di attestare che il debito pubblico italiano ha avuto una forte crescita a partire dal 1981, data del famigerato “divorzio” tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro. Il suo livello crebbe inesorabilmente da quell’anno passando dal 60% al 120% registrato solo dodici anni dopo, nel 1993. Nel 2022, secondo gli ultimi dati disponibili, esso, nonostante le politiche di austerità perseguite dal 2011, è al 145% pari a circa 2.762 miliardi.
Ma il dato più significativo è quello dell’esplosione della spesa per gli interessi che, subito dopo il divorzio Tesoro-Bankitalia, si innalzò dal 4% all’8% in meno di quattro anni, ossia dal 1981 al 1984. Contemporaneamente esplose il deficit pubblico. L’aumento del deficit pubblico, nel decennio ottanta, fu causato congiuntamente dall’incremento incontrollato della spesa per interessi sul debito e dal contestuale incremento incontrollato della spesa pubblica corrente registratosi tra gli anni ’70 ed ’80. Quest’ultima crebbe per via di errate politiche nel settore pensionistico, che consentirono pensionamenti all’età di 35-40 anni (baby pensioni), e del crollo demografico, conseguente ai cambiamenti nella struttura tradizionale della famiglia provocati della dis-etica introduzione di divorzio e aborto, che ha comportato la progressiva insostenibilità, per mancanza di turn over nella popolazione tra nuovi nati e deceduti, del sistema pensionistico retributivo e l’innalzamento dell’età pensionabile fino agli attuali quasi 70 anni.
Tuttavia, dal 1993 al 2012, ma il trend è continuato fino alla pandemia del 2020 (con la sola eccezione del 2009), il saldo primario restò sempre positivo, intorno al 47% del Pil. Dal 2020, causa lockdown pandemico, il saldo è diventato negativo (-5,5% nel 2021 e -3,7% nel 2022). Detto in altri termini, fino alla pandemia lo Stato italiano, al netto della spesa per interessi sul debito, ossia se non fosse stato costretto a pagare gli alti interessi richiesti dai mercati per finanziarsi, era in costante avanzo di amministrazione. Ovvero in attivo. Quando uno Stato è in attivo significa che esso non ha speso a sufficienza per i propri cittadini e che, dunque, ben potrebbe farlo, mediante corroboranti investimenti pubblici a sostegno dell’economia, se non fosse impedito da parametri idioti, senza alcuna base scientifica, come quelli imposti dal Trattato di Maastricht (rapporto debito/Pil al 60% e spesa in deficit non superiore al 3% del Pil) e da norme anti-keynesiane, quale il nuovo articolo 81 della Costituzione, nella riforma imposta da Mario Monti solerte esecutore dei diktat ordoliberali tedesco-eurocratici, che prevede il pareggio obbligatorio di bilancio. Una norma assurdamente introdotta in una Costituzione, come quella italiana, ispirata sin dalla nascita a ben altri criteri di sostegno pubblico all’economia nazionale.
Ora, facendo astrazione del periodo della crisi 2013-2019 e di quello pandemico 2020-2022, alla fin dei conti, attualizzando i dati in valuta corrente, veniamo a scoprire che l’Italia ha pagato tra 1980 e 2012 circa 3.100 miliardi di euro di soli interessi sul debito pubblico corrispondenti al 198% del Pil. Ovvero circa 97 miliardi di euro all’anno per 32 anni. Nel 2018, per via del contenimento degli interessi sul debito ottenuto grazie al “Quantitative Easing” messo in atto dal 2012 dalla Bce a guida Mario Draghi, la cifra annuale pagata dallo Stato italiano per gli interessi sul debito pubblico è scesa a poco più di 50 miliardi, pari al 12-13% dell’intero gettito tributario. Senza contare. Tuttavia, altri 55 miliardi di debito, maturati dopo il 2018, dovuti all’acquisto, da parte del Tesoro, di prodotti finanziari derivati[8]. Una pratica inaugurata da Mario Draghi quando, direttore del Tesoro, mentre nel 1992 pianificava con le grandi banche d’affari anglo-americane, sul panfilo inglese Britannia, ormeggiato al largo di Civitavecchia, la privatizzazione del patrimonio industriale e bancario pubblico, a prezzi stracciati per via dell’attacco speculativo subito quell’anno dalla lira, introdusse la “finanza creativa” nei meccanismi di finanziamento dello Stato.
Secondo una simulazione effettuata tenendo fermi i saldi primari ed i valori di Pil, il debito pubblico italiano, con un debito tendenziale al 60% come prima del “divorzio”, a partire dal 1993 fino al 2012 sarebbe sceso intorno al 26% del Pil. Perché non vi sarebbe stata l’enorme mole di interessi pagati alla rendita parassitaria globale dei mercati finanziari. In sostanza nei venti anni in questione il debito pubblico italiano è passato da 1.500 a 2.000 miliardi di euro restando al di sopra del 120% del Pil nonostante che il nostro Stato abbia pagato 2.000 miliardi di interessi ed abbia realizzato saldi primari attivi per 740 miliardi, come nessuno nell’Eurozona aveva realizzato. I risultati delle politiche neo-liberiste sono stati nulli sotto il profilo del risanamento dei conti pubblici e assolutamente negativi sotto il profilo della crescita economica nazionale.
Se i 3.100 miliardi di euro pagati, in 32 anni, per gli interessi sul debito pubblico – cifra caricata sulle sole spalle dei lavoratori, dipendenti ed autonomi, e delle medie e piccole imprese, visto che quelle grandi, come detto, evadono o eludono il fisco –, non fossero gravati sul bilancio dello Stato, indebitato con i mercati finanziari, e quindi sul popolo italiano, ci sarebbe stato in abbondanza di che abbassare le tasse senza ricorrere, ora, a provvedimenti di efficacia più che dubbia e socialmente iniqui come la flat tax. Provvedimenti che, creando buchi di bilancio e quindi costringendo ad un maggior indebitamento statuale o ad una drammatica maggior riduzione del welfare e degli investimenti pubblici, avvantaggiano ulteriormente la finanza speculativa.
Il punto centrale della questione è questo. Onde evitare di pagare nei prossimi 32 anni quei 3.100 miliardi, è necessario cambiare completamente l’egemone paradigma economico ordoliberista, di matrice tedesca, impostoci dall’UE, e tornare al controllo statuale della Banca centrale, da nazionalizzare. Un controllo governativo, a livello di Stato nazionale, o governativo confederale, in caso di una futura Confederazione politica europea, oggi inesistente. La Banca centrale, infatti, nell’ambito della architettura istituzionale, deve essere l’altra faccia dello Stato, o della Confederazione di Stati, nel processo di creazione della moneta con funzioni di prudente ma certo sostegno finanziario al Tesoro. Se così fosse il concetto stesso di “debito pubblico” si rivelerebbe per quel che è, ed era prima del 1981, ovvero una mera “fictio iuris”. Infatti laddove debitore, il Governo, e creditore, la Banca centrale, coincidono il debito si estingue perché esso sarebbe soltanto una finzione contabile tra un organo e l’altro dello Stato o della Confederazione di Stati.
Senza la riconquista della sovranità monetaria, possibile attraverso la via dolorosa dell’uscita dall’euro o quella difficile ma non dolorosa della riforma dell’UE, non c’è scampo fiscale. Chi promette miracoli con la flat tax non potrà conseguirli a meno di non creare un enorme buco di bilancio a svantaggio dei ceti produttivi, senza contare il rischio di provocare l’intervento della Troika (Commissione Europea, BCE e FMI) a tutela degli interessi degli strozzini. Conosciamo il genere di cure lacrime e sangue, come in Grecia, che viene prescritto dalla Troika.
“L’alternativa, a voler davvero applicare la tassa piatta, è un sicuro squilibrio di bilancio nel breve periodo che produrrebbe le pesanti reazioni del ‘pilota automatico’ chiamato troika – l’espressione pilota automatico è di uno che sa, Mario Draghi – l’esplosione comandata dell’arma letale spread, con il risultato di consegnare anche gli ultimi spiccioli a chi sta espropriando il nostro popolo, il sistema produttivo, la nazione intera. Non a caso, si parla di nuove privatizzazioni (ma si legge svendita) che impoverirebbero ulteriormente la nostra disgraziata nazione, con il trasferimento ai soliti noti, gli strozzini globali, di quanto faticosamente costruito con il sudore e il lavoro di generazioni”[9].
Per concludere
Dopo il 1989 la lotta di classe, la quale durante il ventesimo secolo aveva trovato un aggiustamento in un equo equilibrio tra capitale e lavoro, con vantaggi netti soprattutto per i ceti produttivi, imprenditori reali e lavoratori, è tornata a riesplodere con grande virulenza. Ma, ecco il punto!, a causa della globalizzazione e della prostrazione dello Stato nazione, la lotta di classe la stanno vincendo gli straricchi. Come ha pubblicamente riconosciuto uno di loro, il miliardario americano Warren Buffet. In Italia, ad esempio, meno del 20 per cento della popolazione possiede oltre due terzi della ricchezza. I grandi manager del capitalismo finanziarizzato in un solo giorno guadagnano quanto i loro dipendenti in un anno. La forbice tra vertice e base va sempre più divaricandosi perché sta venendo progressivamente meno il ceto medio, quello produttivo, in caduta libera verso la povertà, risucchiato in un processo di progressiva proletarizzazione che ormai coinvolge anche i lavoratori ed i professionisti intellettuali e non più solo i lavoratori manuali. In un contesto globale come questo, la tassazione ad aliquota unica non può che beneficiare soltanto la fascia di contribuenti ricchi, che invece dovrebbero, per bene comune ed equità, pagare le tasse in misura proporzionale alla loro ricchezza. Alla lunga, e superato l’inziale momento di apparenti effetti riduttivi del carico fiscale, la condizione dei ceti produttivi, medio e working class, in conseguenza della tassa piatta peggiorerà.
Se le forze conservatrici di stampo liberale hanno tutto l’interesse a realizzare la flat tax, laddove quelle laburiste della residua sinistra radicale non possono che giustamente osteggiarla, non è affatto comprensibile per quale svista – ignoranza dei problemi o strumentalizzazioni da parte delle forze conservatrici? – i movimenti “sovranisti”, la cui base elettorale sono proprio i ceti produttivi, contemplano nei loro programmi la tassa piatta che è un sicuro cianuro per il proprio elettorato di riferimento. La “piccola borghesia” è socialmente incastrata tra capitale e working class, tra vertice e base sociale, ed è quindi l’ago della bilancia nella lotta di classe, potendola volgere verso soluzioni socialmente avanzate oppure regressive. Essa, la piccola borghesia, storicamente ha operato per soluzioni avanzate, benché non siano mancati casi, temporanei, dovuti a peculiari circostanze storiche e sociologiche, nei quali essa ha invece operato in senso socialmente regressivo. Ma la sua vera vocazione, che alla lunga emerge, resta sempre quella a porsi alla testa del popolo in lotta contro l’arroganza dell’élite finanziaria ed è solo quando, come a suo tempo osservò Gramsci, le viene contestata la leadership della lotta che essa potrebbe essere tentata dalle sirene conservatrici della destra liberista. Ecco perché le forze “sovraniste” dovrebbero riflettere a proposito di quale ruolo esse vogliono far giocare ai ceti medi onde evitare di essere, contro la loro stessa natura di forze nazionali e popolari, lo strumento delle tendenze anti-nazionali ed anti-popolari del grande capitale transnazionale. Il tema della flat tax, per le ragioni fin qui esposte, è cruciale in questa riflessione.
PS – Che dire? Solo un consiglio. Rileggetevi il bel pamphlet di Marco Revelli, edito nel fatale 2014 da Laterza: La guerra di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Quanto è vero…
[1] Cfr. “La Voce del Patriota” del 16 marzo 2023 in lavocedelpatriota.it.
[2] Prendiamo i dati da “La Voce del Patriota” ibidem.
[3] Cfr. Stefano Fassina “Il lavoro prima di tutto”, Donzelli editore, Roma, 2012, p. 26.
[4] Citato in S. Fassina, op. cit. pp. 27-28.
[5] Cfr. S. Fassina, op. cit. pp. 28-29.
[6] Le banche ordinarie agiscono in modo analogo quando, erogando prestiti senza riserve o in eccedenza alle riserve, creano ex nihilo la quasi-moneta bancaria, ovvero i prestiti erogati che circolano come moneta, e quando, al momento della restituzione dei prestiti, distruggono, per compensazione contabile – la quasi moneta bancaria è soprattutto contabilità senza effettivo passaggio di vero denaro –, la quasi-moneta, salvo la quota imputata agli interessi lucrati sull’operazione che costituisce il guadagno parassitario, la rendita, della banca.
[7] I dati sono tratti dall’articolo, apparso il 23 luglio 2013 sul sito specializzato www.scenarieconomci.it, “Studio esclusivo: l’Italia ha pagato 3.100 miliardi di interessi i tre decenni (198% del Pil)”.
[8] La notizia è stata rivelata, ma solo dopo aver cessato dall’incarico di presidente della commissione per la “spending review”, da Carlo Cottarelli, il funzionario del FMI al quale, a suo tempo, i governi Letta e Renzi avevano affidato la missione di revisionare la spesa pubblica italiana.
[9] Cfr. Roberto Pecchioli “Flat tax, la tassa piatta. Opportunità o illusione?”. In www.maurizioblondet.it. 25.01.2018.