Minima Cardiniana 416/2

Domenica 30 aprile, San Pio V

EDITORIALE
CONFITEOR E J’ACCUSE
Cari amici lettori; cari amici e lettori; carissimi ai quali sto sulle scatole (siete tanti!); carissimi tutti,
stanotte, o se preferite stamattina (sono le 5, 25 di giovedì 27 aprile, festa di santa Zita patrona della “mia” Lucca, la città del “mio” sor Giacomo Puccini), dopo essermi voltato e rivoltato cinque ore nel letto, mi sono rifugiato in bagno per non disturbare oltre il sonno di chi per sua disgrazia dorme accanto a me. E così, in piedi (fa bene alla circolazione, dicono) e col computer appoggiato sul bordo del lavandino (il mio Maestro Indro Montanelli, Maestro anche in dattilografia funambolica, sarebbe fiero di me) mi accingo a sfogarmi. E sto per lanciare una dichiarazione e una sfida di cui non fregherà nulla a nessuno: ma vi assicuro che per me è epocale.
Molti psicanalisti consigliano chi vuole sfogarsi di tenere un diario, custodendolo – va da sé – con somma cura. Siccome dopo Lorca, Céline, Schmitt, Giuliotti e un altro paio di persone confesso che il mio idolo è Gianburrasca (sì, proprio lui: Giannino Stoppani, che per i miei coetanei avrà in eterno le sembianze di Rita Pavone), mi piacerebbe cominciare proprio in questo modo: “Caro Diario…”. Ma io un Diario non l’ho mai tenuto e poi non so nemmeno disegnare. E allora mi arrangio così.
Scrivo stamane, ma queste note saranno lette dai soliti quattro gatti solo domenica prossima, 30 aprile, a ridosso della notte di Santa Valpurga, quella che precede il Calendimaggio di celtica origine e memoria (cara alle streghe, dicono: rileggetevi il Faust) nella quale settantotto anni fa – scegliendo non a caso quel momento goethianamente sabbatico – Adolf Hitler si suicidò nel Bunker del giardino della cancelleria berlinese. Che Dio abbia pietà di lui. Lo dico con sincera devozione: e talvolta mi ricordo di recitare silenziosamente un Requiem in suo suffragio. Credo che pochi, fra i nostri fratelli che stanno dall’Altra Parte, ne abbiano bisogno quanto lui. E sono gli ammalati, non i sani, ad aver bisogno del medico.
Il 30 aprile, oltretutto, è san Pio V. Un papa che mi obbliga a tener sempre dinanzi a me l’ombra della mia schizofrenia. Eh, sì, perché io sono un po’ (spero non troppo) schizofrenico: e, siccome faccio il professore di storia, riverso su fatti e personaggi del passato la mia malattia. Su sei episodi o personaggi storici, no: lì sto con fermo e feroce entusiasmo da una parte sola. Primo: Ettore e i troiani. Secondo: Caio Giulio Cesare. Terzo: i gesuiti delle Reducciones del Guaranì, contro i bandeirantes schiavisti che venivano da Sâo Paulo. Quarto: Toro Seduto e Little Big Horn. Quinto: il Kaiser Franz Josef, sempre e comunque contro tutti, Dio lo benedica e lo guardi. Sesto: il maresciallo Stalin, un gigante degno di Euripide rispetto al quale nessun commento può essere adeguato.
Ma per il resto è una rovina. Sono una tragedia bipolaristica. Ammiro Leonida alle Termopili, ma il mio vecchio cuore reazionario sta con il Gran Re e si ripete che se avessero vinto i persiani il mondo forse sarebbe stato migliore. Mi prostro (in proskynesis, appunto) dinanzi al grande divino Alessandro, ma il suo isterismo superava quello del suo eroe Achille, ed è tutto dire. Sto con i romani, ma adoro Annibale. Per quasi tutta la mia vita ho studiato i crociati e quindi mi ci sono affezionato, ma tutti messi insieme non valgono un pelo della barba del Saladino. Da fiero reazionario vandeano, detesto i giacobini: ma davanti a Napoleone mi sento un po’ come il Marchese Del Grillo così come magistralmente lo ha interpretato il grande Alberto Sordi. E siccome il 30 aprile – lo ricordavo un istante fa – è la festa di san Pio V, il glorioso pontefice della gloriosa giornata di Lepanto, sappia la Santità Sua (e me ne perdoni) che la mia simpatia va tutta a Uluj Ali (“Alì la Spada”), Uccialli oppure Occhiali come lo chiamavano i cristiani, l’unico ammiraglio ottomano che uscì indenne e invitto dal carnaio di Lepanto; e che scambierei volentieri la giornata di Lepanto del 1571 con una vittoria dell’Invencible Armada nelle acque atlantiche contro gli inglesi sette anni più tardi.
Last but not least, voglio un gran bene a Giorgia Meloni: ma alla faccia del suo garibaldinismo-mazzinianesimo-atlantismo che a mio avviso sono un’odiosa jettatoria Trimurti.
D’altronde – un’altra coincidenza! – lunedì sarà il Primo Maggio, l’unica festa civile che sento di amare perché (lo ricordo ogni tanto, dal momento c’è chi lo dimentica) io sono cattolico, socialista, europeista. E tale mi dichiaro senza ambiguità da oltre mezzo secolo. Chi l’ha voluta capire, l’ha capita: e la mia bibliografia, ch’è lì a testimoniarlo, non si può esattamente definire esigue.
Non è quindi in fondo strano se, con l’appressarsi delle date “fatali” della nostra storia, io sia preda di un attacco d’insonnia.
Che peraltro nell’odierna fattispecie mi è stato provocato, sia pure involontariamente, da Frau Lilli Gruber (altra persona che amo: una trentina di anni fa le offrii in omaggio un gran fascio di rose rosse, e non – sia chiaro – perché le facessi la corte: ma questa è un’altra storia). Il suo Otto e Mezzo di iersera, martedì 25 aprile, era dedicato ovviamente alla Liberazione con due Mammesantissime in studio: la Chiarissima Professoressa Nadia Urbinati della Columbia University (non oso chiamarla “collega” perché sono certo che non gradirebbe) e il dottor Ezio Mauro che addirittura dialoga con Zygmunt Bauman. E io ci sono capitato in mezzo. Perché mai?
Presto detto. Frau Lilli & Co. si sono detti che a render perfetta la performance di quei Pezzi da Novanta ci sarebbe voluto qualcuno che accettasse di far la parte del Simplicio nel galileiano Dialogo dei massimi Sistemi: qualcuno abbastanza colto e dotato di una qualche visibilità (magari un graduato universitario) in modo da non far fare a chi deve svillaneggiarlo la figura di chi gioca al San Giorgio scegliendosi una lucertola come drago; e al tempo stesso che fosse abbastanza vanitoso e abbastanza sciocco da cader nel tranello che gli veniva teso offrendogli – in cambio della Prima Serata in RAI-TV – l’alternativa tra il ruolo dell’interlocutore debole che subisce e quello facinoroso che si fa del male con le sue mani cercando di difendere una causa persa. Perché si trattava da una parte di far passare la tesi che il 25 aprile dev’essere la festa di tutti gli italiani (lo ha scritto anche la Meloni: ma la sua versione di una possibile futura concordia non ha convinto), dall’altra di ribadire che il connotato fondamentale di essa è la vittoria dell’antifascismo come valore fondante che però è insofferente di distinzioni, limitazioni, riserve eccetera. E il punto è proprio questo: il parere che si sia abbastanza lontani, ancora, da una “verità condivisa” al riguardo è molto diffuso: e sarebbe semplicistico, se non addirittura falso, attribuire tale disagio esclusivamente a ostinato nostalgismo o a rigurgiti di eversione. Tale aspetto della questione non può essere evitato. È quindi necessario trovare un interlocutore abbastanza plausibile, non tanto bravo di rovinare la festa ma abbastanza esterno da zittire chi potesse commentare la serata sostenendo che non si era dato spazio alla controparte.
Sono stato quindi invitato a Otto e Mezzo: ed era evidente che mi si assegnava quello chiamato a recitare la parte antipatica della quale tuttavia non si poteva fare a meno. Ma perché proprio io? Siccome dopo tanti anni di collaborazione con varie TV anch’io ho le mie spie, mi sono informato al riguardo: e ho scoperto di essere stato sì individuato come ideale per far la parte di quello che al mio paese si dice quella “di’ ccoglione”, ma di essere in ciò stato un articolo di seconda scelta. In realtà l’équipe di Frau Gruber, avveduta e documentata – ma forse un po’ troppo ottimista –, si era orientata su un Number One degli studiosi rispettabili ma non allineati, che non sono poi tanti. Ci sarebbe stato Cacciari, certo: ma nella fattispecie non andava bene in quanto stimato (nonostante tutto) troppo di sinistra e notoriamente poco disposto ad accettar di venir contraddetto. Il più adatto era allora evidentemente lo “scienziato della politica” Marco Tarchi, che quasi da quarant’anni afferma ad alta voce e con inoppugnabili argomenti di non essere più di destra da quando, ragazzino o quasi, stava nel MSI (e non era di destra nemmeno allora, peraltro): ma tutti lo trattano come se non avessero letto mai o comunque mai capito quello che dice. Resta però il fatto che Tarchi è razionalmente schivo, riservato, avveduto e diffidente: e non ci è cascato.
Non c’era quindi che accontentarsi di uno abbastanza ingenuo, forse un po’ vanitoso, magari (e questo davvero, alla lettera) molto donchisciottesco, il quale avrebbe risposto positivamente a quel tipo d’invito che forse Paolo Villaggio avrebbe tradotto con un “Venghi avanti, Chiarissimo Cretino!”. Venghi avanti Lei, a spiegarci – tra i sorrisetti e le paroline sottovoce dei Suoi illustri interlocutori, tutti in regola col politically and historically correct, anzi suoi severi e compassatamente alteri custodi – come mai nel 25 aprile c’è qualcosa che non La fa sentire a Suo agio. Ce lo racconti pure liberamente, che così ci facciamo quattro risate.
Bene, ho provato a raccogliere la sfida. Magari con un tantino di spirito di accademica lucerna, alla don Ferrante, che doveva essere tuttavia più dotto ma anche abbastanza stupido come me. Ho perfino fatto ricorso al diritto canonico per spiegare che esiste una differenza tra lo ius in bello, chiamato a prescrivere come ci si debba comportare obiettivamente in guerra (ed esistono difatti i “crimini di guerra”) e magari quindi chi ha torto e chi ha ragione, e lo ius ad bellum, cui compete il giudizio sui motivi soggettivi – inclusi quelli etici – per i quali gli stati e i singoli combattenti entrano in un conflitto, quindi sul rapporto tra il fatto bellico e la coscienza collettiva o individuale di chi vi partecipa.
Dal canto mio, ho ribadito pertanto che in una sede come quella non si trattava di stabilire chi fosse stato “dalla parte giusta” e chi da quella “sbagliata”: bensì di esaminare semmai serenamente le ragioni di chi aveva coscientemente scelto da che parte stare, magari da quella “sbagliata” e soprattutto “perdente”, spinto però non dalla malafede o dalla rabbia di chi si sente sconfitto e nemmeno dal desiderio livoroso di rivalsa o di vendetta, ma obbedendo invece a un principio superiore. Ed esso nella fattispecie era stato, per molti volontari di Salò magari giovani e addirittura giovanissimi, quello di difendere l’onore della patria che il suo primo garante, il re d’Italia, aveva gettato nel fango premeditatamente, prima con l’ambiguità del venticinquelugliesco “La guerra continua” cinicamente e ipocritamente usato per guadagnar tempo, poi con la fuga vigliacca in area protetta dall’ex nemico lasciando però ai sudditi la rigorosa consegna di combattere coraggiosamente anzi eroicamente contro qualunque forza si fosse loro opposta (cioè, evidentemente, l’esercito tedesco). Per i soldati, giovani o no, che senza livore né astio avevano fatto la scelta di riscattare l’onore proprio e quello della patria tradendo la consegna vigliacca lanciata loro da un traditore fuggiasco, io chiedevo – a meno che non si fossero macchiati di crimini in bello – il rispetto e il riconoscimento dovuto ai combattenti leali, fratelli d’arme dei patrioti che tra ’43 e ’45 avevano combattuto sul fronte opposto, nella Resistenza. Chiedevo rispetto e riconoscimento per soldati che non si erano per nulla impegnati a favore dell’impossibile vittoria finale di una tirannia razzista (anche se tragicamente a livello obiettivo agli ordini di essa combattevano), ma che fin dall’inizio – ripercorrete la loro memorialistica – sapevano che la loro avventura cominciata nell’autunno del ’43 corrispondeva a una causa perduta e che non c’era speranza di vittoria, anche se l’esito tragico di molte delle loro storie non poteva forse venir da loro neanche lontanamente immaginato. Era la sostanza del nobilissimo appello lanciato per i “ragazzi di Salò” una trentina di anni fa da Luciano Violante nel suo discorso d’insediamento alla Presidenza del Senato; e proprio questo 25 aprile opportunamente ricordato nella “lettera aperta” di Giorgia Meloni.
Bene. In fondo basterebbe che fino dalle alte sedi della nostra vita civile si accettasse questa semplice, elementare se non minimale proposta, per adire finalmente a una “visione condivisa” del 25 aprile: basterebbe che si riconoscessero le ragioni dei vinti in buona fede – non dei fanatici che avrebbero voluto la vittoria del razzismo tirannico e genocida, non degli aguzzini sadici e violenti, non dei servitori prezzolati di un esercito straniero – per convincere chi ancora nutre riserve sulla festa della Liberazione a unirsi lealmente e gioiosamente al resto della nazione e a riconoscere appieno quel giorno come Festa Nazionale. Chi vuol capire davvero ha a disposizione non solo la ponderosa letteratura dei vari Giorgio Pisanò e Giampaolo Pansa, bensì anche la buona, sincera, seria memorialistica dei Carlo Mazzantini o dei Roberto Vivarelli per convincersi – ed è facile verificarlo alla prova dei fatti (pensiamo anche ai Tognazzi, ai Vianello, ai Chiari, ai Fo; o a tanti illustri cattedratici, come Mario Bussagli) – che quei “ragazzi di Salò”, se e quando sono sopravvissuti, sono stati dei leali e onesti cittadini che spesso, dopo allora, hanno servito il loro paese. Sarebbe bastato ammettere come plausibile che nel ’43 vi furono italiani – soprattutto, anche se non soltanto, giovani – che senza illusioni di vittoria e anzi disposti a un probabile sacrificio della vita accettarono di combattere per l’onore di un paese il sovrano e il governo del quale si erano macchiati di tradimento passando “ad armi calde” da un alleato all’altro. Sarebbe bastato dichiarare rispetto per un impegno patriottico, quando esso fosse stato accompagnato da un comportamento esente da atti criminosi.
Invece, nulla. Notte e nebbia. I miei due interlocutori a Otto e Mezzo, peraltro cortesi e corretti, mi hanno replicato che le stragi commesse dai “repubblichini” erano comunque imperdonabili (mentre quelli dei “partigiani” appartenevano semmai alla guerra appunto partigiana, che per sua natura è senza regole, a differenza delle rappresaglie: ma dimenticando che le uccisioni “della guerra civile” sono continuate specie in area come il “triangolo della morte emiliano”, addirittura fino al 1949!…), che fascismo e nazismo sono stati il Male Assoluto – lo ha ribadito perfino lo stesso Gianfranco Fini, recentemente riemerso –, che insomma avere aderito al fascismo è stato imperdonabile in quanto esso aveva mostrato il suo volto criminale fino dal 1921, e comunque dopo il delitto Matteotti i fascisti non avevano più scusanti. Ho obiettato allora che comunque il contributo di molti ex fascisti era stato fondamentale per la vita repubblicana, richiamando i molti casi di coloro, spesso già influenti durante il regime, che erano addirittura presenti nel nòvero dei “Padri Costituzionali”: ma a ciò si è risposto che ognuno è libero di cambiare idea quando e tutte le volte che crede (ma non è lecito sospettare che certe conversioni tese a salire sul carro dei vincitori siano state sospette? E non è più rispettabile il povero fascistello anonimo che si è fatto magari la galera ed è rimasto fedele a se stesso nonostante tutto e nonostante i suoi stessi dubbi, al magistrato o al cattedratico illustre riciclato con tutti gli onori e fiero della sua corta memoria?).
Insomma, niente da fare. Cortesia formale certo, ma alterigia altezzosa e manichea nella sostanza. La Liberazione deve unirci tutti, ma in essa c’è il Paradiso degli Eroi e l’inferno dei reprobi, senza possibilità di altra remissione per questi ultimi che quella a prezzo della rinunzia a se stessi, del pentimento incondizionato e dell’umile richiesta di perdono, con abbandono di qualunque prospettiva di dignità.
Bene. Io non ci sto. E rispondo con un umilissimo Confiteor e un J’accuse.
Il Confiteor riguarda la mia coscienza di povero cristiano. La mia guerra civile privata me la sono sorbita fin da ragazzino. Nato in una famiglia di cristiani socialisti, dall’età della ragione in poi – sette anni circa – fino a un buon quarantennio più tardi ho dovuto sopportare a ogni pranzo di Natale il diverbio tra un parente materno ex Guardia Nazionale Repubblicana e uno paterno ex miliziano della “Garibaldi”, alla fine simpatizzando con entrambi (fra l’altro si volevano un bene dell’anima) e trovando in entrambi molte ragioni. A tredici anni, nel 1953, entrai nella formazione giovanile missina, la Giovane Italia: ma erano i tempi di Trieste italiana, cui succedettero nel ’56 quelli della gloriosa rivolta ungherese; poi m’iscrissi al MSI, tentato più dal programma di riscossa nazionale e di giustizia sociale che quel partito ostentava che non dai rituali e dalle rivendicazioni di stampo neofascista, che non m’interessavano granché: feci vita di partito fino al 1965, vissi la breve stagione del governo Tambroni e conobbi l’assedio al quale i delegati al convegno del partito, che avrebbe dovuto tenersi a Genova nel 1960, furono soggetti. Me ne andai nel 1965, ormai convinto che vi fosse disonesta incoerenza nelle alte sfere missine, che alla base predicavano il verbo della rivoluzione socializzatrice mentre sottobanco vendevano il loro voto parlamentare alle DC, raccogliendo intanto i loro non vasti consensi elettorali a colpi di nostalgismo e anticomunismo viscerale: e la loro fedeltà all’infausta alleanza della NATO fu per me la cartina di tornasole. Riconosco che nel mio DNA politico, da allora in poi, è entrata una buona dose di castrismo-guevarismo. Non l’ho mai rinnegata. Anzi, me ne vanto. Ma il cuore ha le sue ragioni, che non sempre la mente vuol riconoscere. Nella cameretta più riposta del mio vecchio cuore romantico conservo un posticino per i poveri ragazzi di Salò: quelli che con gli orrori del nazismo non avevano nulla da spartire per quanto formalmente combattessero dalla stessa parte e talora se ne rendessero purtroppo complici; quelli – e ce ne sono stati davvero tanti; e i loro casi sono documentati – ai quali la scuola aveva insegnato Patria e Onore, giusti o sbagliati che fossero, e qualcuno dei quali per odio o per paura commise delle atrocità ma tanti altri cercarono di portare lealmente la loro uniforme nera o grigioverde facendo il meno male possibile a chiunque, anche nell’esercizio nella legittima difesa; quelli caddero in battaglia o morirono sotto le sevizie e le torture, come tante brave ragazze del corpo delle Ausiliarie nei confronti delle quali alcuni Patrioti Liberatori commisero non poche vili atrocità spesso documentatissime e rimaste impunite; quelli che per la loro causa sacrificarono tutto inclusi libertà, salute, lavoro, carriera, magari anche affetti e famiglia. Se avessi avuto una quindicina di anni di più, sarei stato uno di loro.
So bene che dall’altra parte c’erano ragazzi onesti e puliti come loro, che avevano fatto valutazioni diverse: credo che quelli siano i loro veri fratelli, e vorrei poter onorare la memoria congiunta di tutti in un prossimo 25 aprile che fosse di vera riconciliazione. Ma in pace e lealtà, senza discriminazioni né umiliazioni.
Posso dirmi antifascista? No: e magari me ne dispiace. Ma potrei/potrò farlo quando qualcuno mi avrà spiegato che cosa significhi in sostanza essere antifascista, visto che di antifascismi ce ne sono troppi e in contrasto fra loro: uno comunista, uno socialista, uno azionista, uno radicale, uno cattolico, uno liberale, uno addirittura monarchico e reazionario. Potevano mai andare insieme oltre lo scopo immediato della lotta del ’43-’45, uno che combatteva per l’instaurazione anche in Italia di un regime sovietico guidato dal “Faro dei Lavoratori” che regnava nel Cremlino e uno che sognava la crociana “Religione della Libertà”? Finché antifascismo sarà sinonimo di una massa di valori contradditori tenuti insieme dalla volontà di accanirsi contro un solo obiettivo senza riuscire ad esprimere un giudizio concorde di motivata condanna nemmeno su un solo aspetto preciso, la prospettiva dell’antifascismo non m’interesserà. Ho detto di essere cattolico, europeista e socialista: se ci sarà chi sia dell’avviso che queste tre qualifiche, coerenti e compatibili fra loro, siano sufficiente prova di quel che a loro avviso significa l’antifascismo, liberissimi di considerarmi antifascista. È un problema loro, non mio. A me non interessa dichiararmi né antifascista, né anticomunista, né alcun’altra cosa, dal momento che sono abituato a pensare in positivo: semmai, forse, potrei accettare di dirmi antiliberista; ma per una questione di convinzioni etiche, umanitarie e metodologiche (il liberismo mi sembra contraddire in modo fondamentale e pregiudiziale il principio aristotelico e scolastico del publicum bonum).
Perché a mio avviso, sia chiaro, sotto il profilo storico nulla, nemmeno il fascismo, corrisponde al Male assoluto. La categoria di Male assoluto è filosofica, etica, religiosa, magari mistica, magari metafisica, metapolitica e metastorica. Tutte categorie rispettabilissime. Ma non storiche né politiche. E come tali non mi riguardano in questa sede. Sia chiaro che tutto ciò non ha nulla a che fare con il relativismo etico. È solo un’applicazione del principio di relatività, che non va mai abbandonato in tutto quel che è umano, quindi compiuto e circoscritto. Quel che va oltre l’umano senza dubbio mi riguarda, in quanto creatura dotata di anima immortale: ma in questa sede non è in questione.
E qui, terminato il mio Confiteor, comincia il J’accuse. Dopo la dichiarazione del presidente Mattarella il 25 aprile relativa all’Ora e sempre Resistenza, visto il contesto nel quale essa è stata proferita e i valori ch’essa chiama in causa, dichiaro formalmente la mia estraneità a tutto ciò che tale assioma comprende. Parafrasando la dichiarazione di frate Cristoforo a don Rodrigo nei manzoniani Promessi Sposi,Hai passato la misura: e non ti temo più”.
Ora e sempre Resistenza. Resistenza al fascismo, presumo. Ebbene, dall’inizio degli Anni Venti alla metà degli Anni Quaranta il fascismo ha purgato con olio di ricino, manganellato, imprigionato, confinato, anche ucciso. Ha soppresso molte libertà, anche fondamentali. Ha promosso una vergognosa guerra coloniale ed accettato la logica di un razzismo infame. Ha trascinato il paese in una disastrosa guerra conclusa con una sconfitta. Tutte colpe imperdonabili: Il male causato da tutto ciò ha superato di gran lunga quei meriti del regime che sotto il profilo sociale e culturale pur c’erano (in fondo, aveva fondato nel paese il welfare state ed era stato quanto meno nel decennio 1925-1935 una “dittatura di sviluppo”, come molte del Terzo Mondo tra Anni Cinquanta e Anni Ottanta nonché anche più tardi), e che non erano affatto trascurabili. L’ Incipit della nostra Costituzione, “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”, avrebbe potuto benissimo figurare alla lettera e con impressionante consonanza in esergo alla Costituzione della Repubblica Sociale Italiana, se il lavoro avviato con i “Diciotto Punti” elaborati durante il congresso di Verona come base per la riunione della Costituente “repubblichina” fosse stato concluso: et pour cause, dato il numero e la qualità degli ex fascisti nella pattuglia dei celebrati “Padri Costituenti” della Carta antifascista del 1946.
E fuori d’Italia, nel periodo fra le due guerre e addirittura più tardi succedeva di peggio. Nel mondo dell’ex impero zarista, il generoso ed eroico movimento sovietico si era trasformato in pochi anni in un feroce mostro totalitario che aveva fatto milioni di vittime. In gran parte d’Europa i ceti padronali e le caste militari scelsero metodi e sistemi oppressivi e repressivi che copiavano spesso il fascismo nei suoi aspetti caporaleschi, violenti e liberticidi, ma che non avevano nulla di quell’afflato autoritario senza dubbio, ma anche riformistico e progressivo che viceversa animava la legislazione sociale mussoliniana e la Carta del Lavoro o che era riuscito a risolvere un pluridecennale conflitto tra stato e Chiesa riportando ordine e armonia tra le due dimensioni relative.
Fuori d’Europa accadeva di peggio ancora: e continuò ad accadere anche dopo la seconda guerra mondiale. Negli Stati Uniti del tempo furoreggiavano la criminalità organizzata e il Ku Klux Klan; si sfruttavano, si schiavizzavano e si massacravano gl’immigrati dei quali il paese aveva pur tanto bisogno e al sud s’impiccavano ancora impunemente i neri ai fanali delle città o agli alberi dei paesi di campagna. L’America latina era vittima di oligarchie corrotte e di regimi militari criminali quasi regolarmente in combutta con le lobbies statunitensi in omaggio alle teorie del presidente Monroe: e chi cercava di resistere (come Getulio Vargas in Brasile o Juan Domingo Perón in Argentina o più tardi Salvador Allende in Cile) veniva destituito o trucidato o “suicidato”.
L’Africa e l’Asia erano teatro di aspre contese, con differenti esiti, ma spesso preda dei poteri coloniali dell’Occidente con le loro rapaci, infami, spietate razzìe. Stendiamo un velo pietoso (senza tuttavia né dimenticare né perdonare) sugli ottocenteschi orrori delle miniere congolesi del buon re cattolico e liberale Leopoldo del Belgio, che faceva tagliare i piedini ai piccoli schiavi fuggitivi dai cunicoli dove erano stati costretti al lavoro forzato (sottoterra si lavora bene anche strisciando sui ginocchi e a quattro zampe); s’altronde qui il discorso non può limitarsi al Novecento e a quel che finora è accaduto nel XXI secolo (avete presente il “dovere della memoria” che celebriamo ogni 27 gennaio?). Esso deve incentrarsi sul sistema liberal-liberistico delle grandi democrazie rappresentative europee e sul patrimonio coloniale ch’esse hanno ereditato dal Sette-Ottocento, in vario modo traghettandolo – attraverso la tragica farsa della “decolonizzazione”, cui è seguita una “ricolonizzazione” ancora più crudele gestita da lobbies private –, con una manovalanza locale collaborazionista al servizio degli affaristi occidentali più privi di scrupoli e senza dotare i popoli autoctoni così “liberati” delle infrastrutture, dei capitali e del know how necessari a godere dei beni legittimamente ereditati, lasciati anzi spesso “in custodia” a Unions, Sociétés o Companies eredi di quelle del periodo coloniale quando non le medesime sotto mutate spoglie. Tale situazione continua ancor oggi: anzi, si è aggravata. Il Continente Nero rigurgita di guerre e di rivolte; al punto che chi può ne fugge e viene a crepare sui gommoni nel Mediterraneo. Basterebbe un corretto sviluppo di quei beni ingentissimi, sorretto e doverosamente finanziato da chi per secoli li ha sfruttati, a far cessare il great replacement che tanti temono o dicono di temere. Ma intanto, arrivano i cinesi…
Si va frattanto affacciando il new world order. Ormai al mondo siamo otto miliardi di persone: e gran parte di essi mancano di lavoro e di mezzi di sostentamento e vivono sotto il livello minimo di sopravvivenza convenzionalmente riconosciuta. La concentrazione della ricchezza, la sparizione progressiva dei ceti medi e la crescita demografica incontrollabile della base proletaria e sottoproletaria senza istruzione e senza speranza spinge alla migrazione di massa la parte migliore del continente nero, vittima di un sistema frutto di malavita internazionale il cui motto è: rubare ai poveri per dare ai super-ricchi; da noi, dilagano corruzione, La Modernità rischia di naufragare nella deriva di una Nuova Babele.
Ebbene: di tutti i mali del XX scolo, fino al 1945, si è addossata la colpa ai fascismi e al nazismo. E sia. Poi, fino al 1991, è stata la volta del comunismo. Quindi è giunto il turno dell’islamismo fondamentalista e terrorista. Le colpe spettano sempre agli altri, stanno sempre altrove. Ma l’Occidente che da secoli fa sparire popoli interi dalla faccia della terra (si pensi non solo ai bororo o agli armeni ma soprattutto ai native Americans e agli aborigeni australiani), l’Occidente – che da troppi decenni trangugia le ricchezze del mondo metabolizzate in capitale destinato solo a produrre altra ricchezza finanziaria per i ricchi oppure criminalmente assemblato e follemente sperperato in droga spargendo per ogni dove violenza e miseria e intanto continua a promettere meraviglie di un benessere futuro –, non ha mai riconosciuto a se stesso nessuna colpa. Specchio fedele di questa stolida e scandalosa mancanza di coscienza e di responsabilità è una frase pronunziata dal presidente George W. Bush e diretta al rapporto fra l’Occidente e il resto del mondo al tempo della criminale invasione dell’Iraq: “Ma perché ci odiano?”.
Il perché, perfino Bush jr. in realtà lo sapeva benissimo, così come lo sappiamo tutti. Ora basta. Io non sopporto di venir coinvolto in quest’odio da parte del genere umano da quella parte del mondo alla quale appartengo, ma dalla quale mi dissocio.
Non ci sto. “Mi dimetto da falso poeta”, dice Marco Masini nel suo immortale grido di rivolta, Vaffanculo. Parafrasando quel verso, dichiaro di dimettermi da cattivo occidentale. Continuerò a fare il bravo cittadino che paga le tasse in quanto questa è la mia condizione esistenziale e la garanzia del passaporto che voglio tener sempre pronto in tasca: ma il mio spirito è altrove. Sta con chi ha fame e sete di giustizia mentre attorno a lui il disorientamento, la deriva, la sofferenza e la rabbia crescono. Sta con gli ultimi della terra, quelli di madre Teresa e di papa Francesco: che come sta scritto la erediteranno.

Post Scriptum – Debbo un breve chiarimento a tutti coloro che hanno seguito le vicende mediatiche successive alle mie dichiarazioni televisive la sera del 25 aprile scorso durante il talk show moderato dalla signora Gruber.
Il giorno dopo, 26 aprile, il professor Gibelli, docente pensionato dell’Università di Genova, ha pubblicamente rivolto al coordinatore della manifestazione genovese La storia in piazza, il notissimo e autorevole studioso professor Luciano Canfora, coordinatore scientifico dell’evento, un’interrogazione tesa a conoscere se a suo avviso io potessi restare parte di quell’iniziativa che ormai da anni raccoglie ampi e convinti consensi. Il documento inviato a Canfora è stato diffuso per conoscenza attraverso i consueti canali mediatici.
Com’era mio dovere, e com’è doveroso costume in casi come questi di tutti coloro che tengono alla correttezza, mi sono immediatamente messo a disposizione del professor Canfora, pronto ad eseguire quanto egli avesse stabilito in conseguenza della missiva del professor Gibelli. La risposta che egli ha subito fornito tanto all’interessato quanto a me è stata precisa e sicura. Non posso tacere che, per quel che mi riguarda, essa è stata rassicurante e lusinghiera. Anche di essa hanno parlato i media: e non so se qualcuno se ne sia dichiarato deluso o abbia espresso riserve, ma mi risulta che fino ad oggi essa ha riscosso assenso e solidarietà.
Resterò quindi probabilmente al mio posto: disposto sempre tuttavia ad adeguarmi serenamente al parere dei colleghi della “Storia in Piazza” in caso essi ritengano altrimenti.
Sono comunque molto riconoscente a quanti mi hanno espresso in questa situazione consenso e fiducia; e sono pronto a render lealmente conto delle mie posizioni a chiunque me lo chieda o a chiunque le contesti.
Debbo un particolare ringraziamento al dottor Francesco Merlo, che sulla sua rubrica Posta e Risposte del quotidiano “La Repubblica” del 28 aprile scorso, a p. 31, mi ha definito una “rarissima eccellenza nella cultura di destra…che sta dalla parte del male. Ma almeno ci sta bene”, aggiungendo che “meglio aver torto con Cardini che ragione con Gibelli”.
Gli sono davvero riconoscente per tutto, ma in particolare per quest’ultima frase. Quanto alla sua definizione della mia personalità politica e intellettuale, ripeto quel che ormai da più o meno mezzo secolo mi càpita di dover ripetere (e me ne stupisco perché non si può certo dire che in questi anni abbia scritto e parlato poco). Io sono cattolico, socialista ed europeista: e parecchie decine di libri e centinaia di seggi ed articoli lo comprovano. Se chi parla di me non s’informa, non lo sa e pretende di giudicarmi sulla base di idee che non sono le mie e che essa mi presta, padronissima di farlo. So benissimo che viviamo in un mondo nel quale, anche ai vertici della società, gli ignoranti i bugiardi e gli imbecilli abbondano.
Ho inviato anche al dottor Francesco Merlo l’Editoriale di cui sopra, confidando che esso contribuisca a chiarire quelle che da molto tempo sono le mie irreversibili conclusioni: ma constato che la mia militanza giovanile nel MSI continua a condizionare i giudizi di molti, ribadendone la qualità quando mi càpiti di esprimere giudizi o convinzioni che in qualche modo sembrano “di destra” e provocandone lo sconcerto quando appaiono di senso esclusivamente contrario (i più sbrigativi se la cavano definendomi un “rossobruno”, ma purtroppo non hanno mai discusso seriamente tale bizzarra etichetta. D’altra parte, tout se tient: il mio socialismo cristiano ed europeista trae la sua legittimità dal fatto che l’Europa ha una forte e profonda radice cristiana che è inutile negare, che il socialismo è un grande albero cresciuto in terra cristiana ed europea e che lo stesso fascismo, lo si voglia o no, è un ramo quanto si vuole distorto del grande albero socialista).
Last but not least, un’ultima precisazione. Non conosco il professor Gibelli e, se continuerò a non conoscerlo, me ne farò una ragione. Da quel che egli ha dichiarato, evinco molto chiaramente ch’egli non conosce nulla di quello che scrivo né delle cose di cui mi occupo, né gl’interessa informarsi. Non sono nemmeno riuscito a capre se egli ha chiaramente compreso la sostanza delle mie proposte ai miei interlocutori e al pubblico di Otto e mezzo. Della cosa hanno parlato abbondantemente i giornali, ma non tutti con la dovuta chiarezza ed onestà. Mi permetterei allora di suggerire a chi per caso volesse capirci di più e meglio la lettura di due puntate (uscite rispettivamente su “La Repubblica” del 28 e di oggi 30 aprile, rispettivamente alle pp. 31 e 25) della rubrica Poste e Risposte, titolare della quale è il famoso giornalista Francesco Merlo. Gli sono molto riconoscente per avermi definito “rarissima eccellenza nella cultura di destra” che “sta dalla parte del male. Ma almeno di sta bene”. Mi permetto di ribadire che non mi sento affatto un esponente della “cultura di destra” e che, da buon cattolico, onestamente non mi considero uno che stia “dalla parte del male”.
Il professor Gibelli, replicando oggi a Merlo, dichiara di aver “ritenuto giusto sollevare questa polemica, per il semplice motivo che ho giudicato le parole di Cardini sciatte e – per il contesto – molto gravi”.
In realtà, non mi sembra si possa sostenere che quella sollevata dal professor Gibelli sia “una polemica”, perché quando s’imposta una polemica – almeno a un livello di decente sostanza culturale – non ci si limita a dichiarare un dissenso o una posizione: bensì se ne articolano le ragioni. Ora, il professor Girelli ha semplicemente “giudicato” le mie parole: e, giudice unico e senza appello, non ci spiega nulla al riguardo. Ancora, egli parla di “parole… sciatte”: è davvero un giudizio sereno e meditato, visto ch’egli allude in effetti a poche frasi dette abbastanza in fretta (in questi talk shows il tempo è tiranno) e anche in una situazione abbastanza tesa, come ci si trova sempre quando si deve parlare all’impronto presentando in pochissimo tempo posizioni che si è certi si distacchino da quelle della maggioranza dei nostri interlocutori del momento? Si calcoli anche la sede in cui il dibattito del 25 aprile è stato tenuto: i suoi protagonisti stavano parlando a un pubblico medio, al quale di solito ci si seve rivolgere in modo semplice, magari appunto rischiando qualche “sciatteria”; ma il perfezionista rigoroso e implacabile professor Gibelli aggiunge che tali “sciatte” parole sarebbero state anche – “per il contesto” – “molto gravi”. Quanto gravi e perché? Questo sì che andava spiegato. Il lettore rileva l’atteggiamento ostile ed offensivo, ne prende atto, ma continua a non capire.
Non ho capito nemmeno io. Allora mi sono informato sulla figura di studioso del professor Gibelli: e alla luce di quanto ho raccolto credo (ma io non “giudico”: presumo) non illogico ch’egli mostri di preferire un giudizio inquisitoriale di colleghi che, esaminate le mie posizioni, le ritenessero indegne, alla strada – che in un ambiente di studiosi sarebbe più ovvia e più franca – di un confronto articolato e sereno sulle “cose” anziché sulle “parole”.
Questa scelta del professor Gibelli è peraltro interessante: ci fornisce involontariamente informazioni di qualità ancorché ovviamente solo indiziarie, sulla sua personalità. Esse sono confermate da altri aspetti stilistico-formali della sua prosa. Allude a me chiamandomi col solo cognome, senza articolo determinativo e senza preposizione articolata: “Cardini” e “di Cardini”, non “il Cardini” o “del Cardini”. Sprezzatura dialettale o gergale? Non direi. Articoli determinativi e preposizioni articolate si usano o quando si vuol far assumere a un discorso un tono più colloquiale se non amichevole o quando gli si vuol imprimere un tono di rispetto (per cui diremo “il Carducci”, “il Croce”, “il Gentile”). Certo, il nudo cognome serve ad alludere invece a persone note o importanti per definizione (si dirà difatti “Gramsci”, o magari “Berlusconi”). Insomma, lo si usa o quando si vuol far pensare a un personaggio eccezionale (il che non è il nostro caso) o quando viceversa si vogliono accorciare le distanze escludendo però al tempo stesso qualunque sfumatura di prossimità o di affinità o anche di rispetto; quindi, quando si vuole implicitamente sancire una propria superiorità rispetto all’oggetto del nostro discorso.
Io non mi permetterò altrettanto con lui: lo chiamerò difatti premettendo rispettosamente e sistematicamente al suo cognome l’apposizione professionale che gli spetta: “professor Gibelli”, come quando si dice “ragionier Fantozzi (variante: Fantocci)”, “geometra Filini” o “barista Necchi”, tanto per ispirarsi alla gloriosa commedia cinematografica italiana, nella quale tanto sovente compare la bella città di Genova.
Ma, arrivati a questo punto, consentitemi di esaudire la richiesta di alcuni lettori che mi hanno chiesto conto di non aver mai risposto direttamente al professor Gibelli. È molto semplice; e, come Rostand fa dire al mio prediletto Cyrano de Bergerac, “giunto al fin della licenza, io tocco” (lo ha detto anche Guccini). Non ho motivo di rispondergli direttamente per due ragioni: primo, egli non mi ha mai direttamente interpellato; secondo, non si spara sulla Croce Rossa. FC