Domenica 30 aprile, San Pio V
MA ERANO DAVVERO TUTTI CATTIVI?
STORIA DI UN “REPUBBLICHINO”: ANGELO TARCHI
di Amerino Griffini
Angelo Tarchi nacque il 5 gennaio 1897 a Borgo San Lorenzo, una delle colline del Mugello sulla strada che da Firenze porta a Faenza; la giovinezza la trascorse sul versante toscano e, diciottenne partecipò alle manifestazioni interventiste a Firenze.
Al momento dell’entrata dell’Italia nella Grande guerra, si arruolò, volontario.
Al fronte, come ufficiale, comandò un reparto di Arditi. Al termine della guerra aveva raggiunto il grado di Capitano e anche il rientro nella vita civile non significò una chiusura con la forte esperienza nel reparto d’élite, visto che fu tra i fondatori dell’Associazione Arditi d’Italia.
Ripresi gli studi universitari, nel 1921 si laureò in Chimica a Firenze dove, fin dall’inizio del movimento fascista aveva aderito al locale Fascio di combattimento.
A fianco dell’attività politica intraprese quella professionale, partendo dalla fondazione di un laboratorio chimico-farmaceutico, per poi ricoprire vari incarichi scientifici anche nazionali tra i quali anche quelli di Presidente dell’Ordine dei laureati in Chimica e quello di delegato scientifico alla Società delle Nazioni dal 1931 al 1933; fu anche membro di numerose Accademie, docente universitario per chiara fama e membro del Consiglio Superiore della Sanità.
Nel marzo 1934 entrò alla Camera come deputato fascista e nel 1939 fu nominato consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Durante la Seconda guerra mondiale fu nuovamente volontario. Con il grado di Tenente Colonnello comandò un Reggimento sul fronte albanese.
Un percorso comune a molte delle personalità non di primissimo piano di quegli anni; il periodo più importante della sua vita sarebbe arrivato di lì a poco e sarà di una importanza fondamentale per la sopravvivenza del Paese.
Dopo il colpo di Stato del 25 luglio 1943 che portò alla caduta del Fascismo e alla formazione del Governo Badoglio, nei 47 giorni del badogliano “la guerra continua”, mentre di nascosto si trattava la resa con il nemico, Angelo Tarchi, ufficiale richiamato, fu inviato nel Grossetano, a Castiglion della Pescaia, e posto al comando di un reparto costiero.
Lì lo colse l’annuncio dell’armistizio. Tre giorni dopo, l’11 settembre, a Firenze fu riaperta la sede del Fascio, una delle prime del neofascismo repubblicano; poco dopo, il 19 settembre Tarchi, convocato dal fiorentino Alessandro Pavolini, si recò a Roma, nella sede di Palazzo Wedekind, in piazza Colonna dove era stata riaperta la Federazione fascista romana in quella che nel dopoguerra sarà la sede del quotidiano Il Tempo.
Ad Alessandro Pavolini, Tarchi dette la disponibilità delle sue competenze e, con la nascita del nuovo Governo di Benito Mussolini, il ministro delle Finanze, il coetaneo Domenico Pellegrini-Giampietro, gli affidò degli incarichi delicatissimi legati alla nuova situazione, con uno Stato da ricostituire, con eserciti stranieri sul territorio nazionale e le macchine dell’Industria e del Credito che dovevano essere rimesse in moto.
Angelo Tarchi fu quindi nominato Commissario dell’IMI, l’Istituto Mobiliare Italiano, l’Ente fondato nel 1931 per affrontare la crisi internazionale del ‘29 attraverso il finanziamento alle attività industriali. Quello fu un ruolo che Tarchi svolse egregiamente, come lo svolsero i suoi successori nella ricostruzione del dopoguerra, e che cesserà di esistere alla fine degli anni ‘90 quando, divenuto SpA sarà fuso con l’Istituto Bancario SanPaolo di Torino.
Questo gravoso incarico non fu l’unico. Proprio per consentirgli di avere una indispensabile visione d’insieme togliendo di mezzo burocratici blocchi di competenze, gli furono affidati anche gli incarichi di Commissario di alcuni Consorzi di Credito come quello per le Opere Pubbliche, quelle di Pubblica Utilità e le Sovvenzioni Valori Industriali.
Tra gli obiettivi primari di Angelo Tarchi vi fu quello di fare i conti con i tedeschi del RUK (Rüstung und Kriegsproduktion), la sezione italiana del programma di pianificazione dell’Economia di guerra su base continentale europea il cui responsabile in Italia, Hans Leyers svolse un ruolo che vedremo giocoforza sotto una luce negativa se si tiene conto degli interessi dell’Italia.
Primo obiettivo di Tarchi, su mandato del ministro delle Finanze e quindi dell’intero Governo della RSI, fu quello di impedire che i tedeschi di Leyers mettessero le mani sull’industria strategica italiana e sulle aziende di utilità per lo sforzo bellico del Reich e dei suoi alleati in quella nuova situazione nella quale era indispensabile togliersi di dosso la troppo recente macchia del tradimento italiano; macchia che faceva sì che anche i fascisti della Repubblica fossero guardati con sospetto; ma nel contempo era indispensabile salvaguardare il patrimonio industriale italiano.
Mettere le mani sulle importanti aziende italiane, da parte dei tedeschi, avrebbe significato non solo porle sotto direzione straniera ma anche finalizzarne la produzione solo alle necessità della guerra guidata dal Reich.
Per impedire ciò Tarchi da una parte concesse crediti alle aziende il cui buon funzionamento era condizione primaria per evitare lo smantellamento e il trasferimento nel territorio del Reich con la scusa della maggiore efficienza e sinergia industriale.
Contemporaneamente Tarchi si appoggiò ad un Comitato Economico composto da industriali con i quali poté dare il via ad una organizzazione ministeriale completamente rinnovata rispetto alla farraginosa burocrazia romana, una nuova struttura industriale che con direzione generale sulle rive del Lago Maggiore, poté stabilire intese con i Comandi e con gli esperti tedeschi, rivitalizzando l’industria del Nord nonostante le difficoltà della guerra, i bombardamenti angloamericani e i sabotaggi partigiani.
Grazie agli ottimi risultati ottenuti nel giro di soli due mesi, al pieno riconoscimento della sua azione da parte dell’intera compagine governativa e dalla spinta dal basso degli stessi industriali che fecero sentire la loro voce in suo favore, ai primi di dicembre del 1943 Tarchi fu convocato dal Capo del Governo e con decorrenza 31 dicembre gli fu affidato il Ministero dell’Economia, dell’Industria e del Commercio.
Dopo aver accettato l’incarico da Mussolini, Tarchi si mise all’opera come ministro non da “tecnico” e tanto meno da “tecnocrate”, ma bensì da uomo di Stato con formazione sociale, da politico che guardava all’interesse nazionale consapevole dei rischi che il suo ruolo primario aveva nella responsabilità verso il Governo, nei difficili rapporti con i tedeschi di Leyers, col sicuro rischio di diventare un bersaglio visibile per la Resistenza.
Nel suo ruolo ministeriale mise in sicurezza le industrie chiave dei settori siderurgico, meccanico, metallurgico, chimico, automobilistico, aeronautico, navale e alimentare.
Ottenne dai tedeschi un indennizzo di 3 miliardi di lire (di allora) per le attrezzature industriali e le scorte di materie prime e prodotti che erano state prelevate e portate nel Reich nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre e prima della nascita della RSI; uno dei disastri conseguenti alla fuga al Sud del Re e del Governo Badoglio, seconda solo al crimine di aver lasciato senza disposizioni chiare centinaia di migliaia di soldati italiani impegnati su tutti i fronti a fare i conti con i tedeschi alleati fino al giorno prima, divenuti all’improvviso nemici.
Fin dai primi giorni di gennaio 1944, appena preso possesso dell’incarico di ministro, Tarchi si inventò i Comitati di settore, vera e propria ossatura portante dell’amministrazione dello Stato della RSI. Cinghia di trasmissione delle direttive governative e sensore delle esigenze che provenivano da ogni parte del territorio dello Stato.
La struttura dei Comitati di settore era bastata sul criterio della rappresentanza dei produttori (imprenditori e maestranze), una sorta di autogoverno dell’industria che però, assieme al Ministero doveva collaborare alla formulazione dei piani produttivi e alla gestione delle risorse in una situazione nella quale ogni giorno mutava lo scenario della gestione dello Stato alle prese con le esigenze belliche. Si trattava quotidianamente di essere in grado di pianificare il funzionamento del settore industriale, delle miniere, delle ferrovie, l’utilizzo dei prodotti, la somministrazione dei servizi alla popolazione: acqua, gas, carbone, abbigliamento etc. Un’impresa mastodontica se si considerano le difficoltà dei collegamenti e l’intero territorio della Repubblica sottoposto all’occupazione tedesca, agli attacchi aerei nemici e al fronte di guerra che da Sud vedeva risalire gli eserciti Alleati.
Tutto ciò senza dimenticare le esigenze dell’economia di guerra dell’Europa alle quali era preposto in Italia Hans Leyers, emissario del ministro del Reich Albert Speer, uomo, quest’ultimo, che nonostante la Germania del 1944 fosse divenuta terra bruciata dai bombardamenti nemici, raggiunse in quell’anno l’apice della produzione industriale avendo spostato le industrie belliche nel sottosuolo tedesco.
Nell’ambito della struttura dei Comitati di settore furono costituiti dei sottosettori con specialisti provenienti da aziende private che avevano il compito di accertare fabbisogni e capacità produttive, compilare piani di produzione dei settori, pianificare quantità e tempi di produzione, ripartire materie prime, regolare acquisti e vendite ed eseguire i controlli sulla realizzazione dei piani e la correttezza amministrativa globale.
Nel giugno del 1944 fu siglato un accordo italo-tedesco tra i Comitati di settore dell’Industria e il RUK, accordo finalizzato a coordinare la produzione su scala continentale anche “in base alle complessive norme di produzione europea”.
La sede del Ministero dell’Economia fu posta a Bergamo mentre tutti gli Uffici direttivi dei Comitati erano concentrati a Milano.
Sulla base del Führeprinzip, il ministro Tarchi affidò a due delegati di sua totale fiducia, noti per caratteristiche decisionali, per serietà ed onestà, la direzione dei vertici della struttura, l’Organizzazione economica al prof. Pietro Corti e gli Uffici Nazionali di Distribuzione (che si occupavano in particolare della distribuzione dei rifornimenti per la popolazione civile del territorio della Repubblica) ad dott. Francesco Berna.
Che la struttura dei Comitati di settore inventati da Tarchi fosse efficace lo dimostra il fatto che nel dopoguerra non furono smantellati e contribuirono non poco alla ricostruzione industriale italiana dopo aver consegnato in efficienza l’ossatura industriale del Nord del Paese. Fatto non secondario nell’analisi del successivo divario tra Nord e Sud; il primo che mantenne e sburocratizzò la sua impalcatura nel territorio della RSI, il secondo invece abbandonato a sé stesso e alla criminalità dal Regno del Sud, costretto a subire anche la moneta di occupazione – le Am-Lire.
Ultima considerazione, non proprio marginale, nella RSI, la gestione tecnico-amministrativa dei Comitati di settore era stipendiata, ma le cariche di rilievo, quelle che avevano portato a coinvolgere nomi di spicco dell’imprenditoria italiana come rappresentanti di settori, erano obbligatoriamente gratuite. Nessun benefit, “spese di rappresentanza”, auto e – nonostante il pericolo dei partigiani in agguato –, neppure le scorte. Le spese di gestione erano controllate da appositi uffici amministrativi del Ministero dell’Economia.
Costretto dalla necessità di sintesi, non è questa la sede per entrare nel merito della storia dei Comitati di settore, è evidente che ci furono anche problemi di varia natura, sia nell’applicazione delle norme che venivano emanate, sia per gli interessi particolari che andavano a ledere, sia per i traffici di molti industriali per ingraziarsi la Resistenza da una parte e i tedeschi dall’altra.
Basti qui accennare al fatto che gli industriali legati al gran capitale, nemici radicali del programma sociale della RSI, oltre che finanziare i partigiani, passavano importanti informazioni all’OSS, il servizio segreto americano che operava dalla vicina Svizzera.
Nel novembre 1943 al Congresso di Verona del Partito Fascista Repubblicano fu approvato il famoso Manifesto dei 18 punti di Verona, l’aspetto più importante sul quale insisté anche la propaganda, fu quello sociale.
Dopo la Carta del Lavoro, testo fondamentale dell’ideologia economica e della socialità del fascismo-regime, seguito da tutte le norme che istituirono lo Stato sociale dei diritti che gli attuali tecnici mercatisti della globalizzazione sono impegnatissimi nello smantellare in modo altrettanto ideologico, il Manifesto di Verona ebbe l’ambizione di rappresentare la continuazione e il completamento del rivoluzionario programma sociale del fascismo delle origini.
Mussolini ne aveva affidato la redazione ad un gruppo di persone: ad alcuni sindacalisti ed ad altre personalità come l’ex fondatore del Partito Comunista d’Italia, Nicola Bombacci, al ministro delle Finanze Pellegrini-Giampietro, a quello dell’Educazione Nazionale, il docente universitario Carlo Alberto Biggini e allo stesso Angelo Tarchi.
La bozza che ne sortì fu rivista dal Segretario del Partito, Alessandro Pavolini e dai suoi collaboratori, Olo Nunzi e Francesco Galanti. La redazione finale fu dello stesso Mussolini.
Il 13 gennaio 1944 il Consiglio dei ministri approvò la base della nuova economia della Repubblica elaborata da Angelo Tarchi, legge alla quale fu apposto il nome di “Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell’economia italiana”.
Ad essa il 12 febbraio successivo seguì il “Decreto Legislativo per la socializzazione delle imprese”, composto da 45 articoli, che tutti i giornali pubblicarono il giorno dopo, una domenica.
Impossibile qui citarlo ampiamente. Sintetizzando al massimo e dando per scontato che chi affronta questa lettura sappia già di cosa sto parlando, con quella legge si “socializzavano” dapprima le aziende statali, ovvero la gestione e la divisione degli utili passavano nelle mani dei lavoratori.
Non enuncio altro, ritengo sia più interessante qui scrivere delle reazioni alla Legge.
Le più importanti famiglie industriali lombarde, in presenza di questa legge che andava a ledere le loro rendite finanziarie capitaliste, radicalizzarono il loro antifascismo, facendosi ancor di più parte attiva nella raccolta di denaro per finanziare le bande partigiane. Rispondendo così all’appello di Alfredo Pizzoni, Presidente del CLNAI e dirigente del Credito Italiano, i Crespi, i Pirelli, i Falck, fecero giungere i loro sostanziosi finanziamenti alla Resistenza, tramite il presidente della Edison, Ferrerio, che li faceva arrivare in Svizzera alla direzione amministrativa della Edison diretta dall’ing. Valerio.
Basti pensare che lo stesso capo della Resistenza italiana, Ferruccio Parri, era un funzionario della Edison.
Dopo la scoperta da parte dei tedeschi del circuito di riciclaggio del denaro, nel giugno 1944, l’ing. Valerio inventò un nuovo sistema: l’ingente flusso di denaro per la Resistenza fu fatto transitare dal collettore Pizzoni attraverso l’IRI, il Credito Italiano e la Banca Commerciale attraverso aperture di credito di notevoli capitali alle Acciaierie Falck e alla Edison.
Il Partito Comunista clandestino dal canto suo si sentì minacciato sul suo terreno e fu, assieme ai capitalisti, il maggior nemico della Socializzazione. Strumenti principali della reazione furono la sistematica disinformazione fatta circolare negli ambienti operai, l’organizzazione di scioperi, l’aumento della tensione nelle fabbriche con il sabotaggio della produzione (con le conseguenti misure poliziesche per rintracciare i responsabili, che a loro volta generarono rancori nei confronti del nuovo fascismo), le minacce di ritorsione a guerra finita agli operai che si fossero candidati alle elezioni per i consigli di fabbrica e avessero accettato di far parte dei consigli di gestione delle aziende.
Altro grande nemico della Socializzazione fu, come accennavo all’inizio di questo scritto, Hans Leyers, uomo della Confindustria tedesca che definì pubblicamente la socializzazione una “pagliacciata demagogica” (oggi avrebbe probabilmente detto “populista”).
A ciò Leyers era spinto principalmente dagli industriali italiani che si rivolsero in massa a lui preoccupati per i loro interessi minacciati dal socialismo della Repubblica.
I ringraziamenti a Leyers – che colse l’occasione per mettere molto fieno in cascina – per la sua opera, arrivarono anche nel dopoguerra, quando ottenne ottimi incarichi di “consulenza” da aziende multinazionali.
Per contrastare la Socializzazione, Leyers scrisse faziosamente a Berlino e cercò in ogni modo di ottenere – ma senza riuscirci – l’intervento di Adolf Hitler contro la legge italiana.
Alla fine agì da solo, contro gli ordini ricevuti dalla Cancelleria, appoggiandosi agli industriali italiani e utilizzando il potere discrezionale che aveva come responsabile del RUK nel circuito delle “aziende protette”, ovvero di quelle inserite nell’economia di guerra del Reich nelle quali trovò alleati anche nelle maestranze comuniste che, in questo caso, svolsero il ruolo di traditori di classe perché accettarono trattamenti integrativi di favore da parte dei tedeschi (denaro, supplementi di viveri, abbigliamento ecc.) in cambio del rifiuto di entrare nella logica dell’applicazione della legge.
Tutto ciò ovviamente con il lieto appoggio degli industriali che volentieri delegarono al tedesco la lotta alla Socializzazione.
Mussolini tentò di far richiamare in Germania Leyers il quale però trovò un alleato – si era ormai nell’ultima fase della guerra – nell’ambasciatore Rudolf Rahn, che si stava apprestando al “tradimento” dell’aprile 1945.
Leyers rispose ai decreti attuativi della legge con azioni di sabotaggio allo Stato repubblicano giungendo a ridurre la fornitura di carbone all’industria italiana per rappresaglia alla politica sociale del Governo della RSI.
Tutti i tentativi di applicare la Socializzazione da parte del ministro Tarchi furono contrastati in ogni modo dai soggetti che ho elencato e fu egli stesso a pagare, rimosso dall’incarico nel gennaio 1945, da Mussolini, insoddisfatto dai ritmi di applicazione della socializzazione nelle aziende.
Nel frattempo però Angelo Tarchi era riuscito a gestire e portare a termine brillantemente altri incarichi, in primis l’opera dei Comitati di settore.
Ne citiamo uno solo, a mo’ di esempio, quello del Settore dell’Energia Elettrica che, rispetto ad altri, aveva il compito primario del funzionamento degli impianti di produzione, senza i quali tutto si sarebbe fermato. Impianti che andavano difesi dagli attacchi aerei angloamericani (furono distrutte le centrali di Ravenna e di Bressanone, ad esempio) e dagli attacchi partigiani, favoriti dal fatto che gli impianti si trovavano in zone isolate.
Il Ministero della Difesa dovette provvedere alla sorveglianza con militi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) Confinaria e Forestale, ma anche con volontari delle Federazioni del PFR. Con i progressi del movimento partigiano fuori dalle città, i piccoli nuclei della GNR posti a protezione degli impianti, furono sistematicamente e facilmente, eliminati.
Quando, nell’agosto 1944, dopo la caduta di Firenze, gli Alleati avrebbero potuto tentare la spallata finale alla Linea Gotica, i tedeschi comunicarono alle autorità della Repubblica che per necessità strategiche avrebbero distrutto le centrali elettriche italiane come avevano fatto i russi in condizioni analoghe con quelle di Stalingrado, Odessa e Kiev.
Se il progetto fosse stato applicato, l’Italia sarebbe stata probabilmente in ginocchio per decenni.
Fu costituita immediatamente una Commissione interministeriale della quale fecero parte il Capo dello Stato, Mussolini, Angelo Tarchi e i ministri delle Finanze, della Difesa e dell’Agricoltura e Foreste.
Fu scongiurata l’eventualità della distruzione delle fabbriche da parte dei tedeschi, minacciando le dimissioni dell’intero Governo e la rottura delle relazioni con il Reich, mentre Tarchi fece un lavoro diplomatico con la Svizzera tramite l’Ufficio commerciale elvetico di Milano.
Su un altro versante, Angelo Tarchi provvide alla salvaguardia dei complessi automobilistici della FIAT di Torino, garantendo così anche il salario di migliaia di lavoratori.
A giugno del 1944, a causa dei forti bombardamenti sugli impianti industriali e l’aumentata difficoltà nel far giungere i rifornimenti di materie prime, i tedeschi proposero (sarebbe meglio dire, pretesero) lo smantellamento degli stabilimenti più importanti della FIAT, in particolare i Grandi Motori, e la loro messa in sicurezza con il trasferimento in Germania.
L’ingegner Valletta, incaricato da Agnelli dei rapporti con il ministro Tarchi, implorò l’aiuto che giunse con un piano di salvaguardia di emergenza: il trasferimento dei macchinari non in Germania ma nelle gallerie della Gardesana occidentale dove proseguì la produzione.
Stesso problema sorse nel settore siderurgico che era strategicamente vitale per la resistenza continentale nel quadro delle vicende belliche.
Il settore viveva in un difficile sistema di scambi di materie prime indispensabili, parte delle quali arrivavano dalla Germania e dalla Svezia. In questo caso, Tarchi condusse una trattativa che si concluse con la firma di una Convenzione internazionale nel settembre 1944; fino a quel momento le maestranze dell’acciaieria pesante vissero con l’incubo del trasferimento in Germania; capitò anche che Angelo Tarchi dovesse intervenire per far liberare tecnici sospettati di sabotaggio.
Un’opera che consentì il salvataggio di centinaia di altre grandi e piccole aziende collegate alla grande industria pesante, basti pensare alla Innocenti di Milano, all’Ilva di Savona, alle Fonderie di Pordenone, alle trafilerie Reggiane, alle stese Acciaierie Falck che ricambiavano poi le tutele come abbiamo visto più sopra.
Se ci si sofferma a pensarci un attimo, furono fatti sforzi ciclopici per far funzionare uno Stato in quelle condizioni difficili.
Tarchi si mosse anche in ambiti completamente diversi; scriveva articoli, importante quello pubblicato il 21 settembre 1944 sul Corriere della Sera dal titolo “Dal Discorso di Dalmine alla Socializzazione”, nel quale mise in luce la continuità dello spirito della nuova legge con il pensiero sociale del fascismo delle origini.
Nella sua veste di ministro dell’Economia costituì l’Istituto per l’Artigianato, attraverso il quale aveva l’obiettivo di giungere ad una nuova organizzazione economico-sociale del Paese tramite la struttura cooperativa.
Nell’aprile dello stesso anno istituì l’Opera Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro, destinata ad occuparsi dell’assistenza sanitaria, della riabilitazione in seguito ad infortuni sul lavoro, della previdenza, dell’assistenza giuridica e del collocamento al lavoro per i mutilati e gli invalidi.
Altra opera di Angelo Tarchi meritevole di segnalazione fu l’avvio di un progetto di ricostruzione edilizia per il dopoguerra che prevedeva la costruzione di una casa per ogni lavoratore. Il progetto passò nell’ottobre 1944 al Capo dello Stato per il provvedimento legislativo.
Come abbiamo visto, i ritardi nell’applicazione della legge portarono Mussolini a rimuovere dall’incarico di ministro dell’Economia, il pur meritevole Tarchi, di fatto il ministero fu soppresso e sdoppiato in Ministero del Lavoro, affidato all’operaio Giuseppe Spinelli, ex anarco-sindacalista e sindacalista-rivoluzionario, e in Ministero della Produzione Industriale, che fu il nuovo incarico di Angelo Tarchi.
Comunque va sottolineato che Tarchi era riuscito ad applicare sperimentalmente la Socializzazione alle imprese gestite dall’IRI (Alfa Romeo, Dalmine e S. Eustachio) e ad altre 76 aziende, tra le quali 32 imprese editoriali, 12 grafiche, 5 cartarie tra le quali la Burgo, una azienda chimica, la Montecatini, altre nel settore dei legnami, in quello agricolo come quella del conte Balbi che fu affidata alla conduzione degli agricoltori e dei braccianti. Importanti furono le esperienze delle aziende giornalistiche che furono passate alla gestione di redattori, impiegati e tipografi.
Si giunse infine alle giornate dell’aprile 1945. Il ministro Tarchi si trovò assieme a Mussolini e ad altri membri del Governo della RSI dalle parti del Lago di Como.
Sarebbe troppo lungo soffermarsi sulla controversa vicenda di quelle ore, per la quale rimando all’ottimo lavoro di Marino Viganò (Mussolini, i gerarchi e la “fuga” in Svizzera. 1944-’45) pubblicato su Nuova Storia Contemporanea (maggio-giugno 2001, anno V, n. 3, p. 47-108).
Il 26 aprile, mentre la colonna fascista si trovava nella casermetta della GNR di Grandola, Angelo Tarchi e l’avvocato pisano Guido Buffarini-Guidi, ex ministro dell’Interno, furono catturati al posto di dogana di Oria (Como) da un gruppo di finanzieri partigiani.
Rilasciati poco dopo, il destino decise diversamente la sorte dei due, Buffarini-Guidi fu di nuovo catturato da altri partigiani e finì fucilato a Dongo, mentre Tarchi, portato a Milano, fu consegnato al Comando americano e poi a San Vittore dove poi fu prelevato e portato in un luogo più sicuro da Corrado Bonfantini, il socialista comandante delle Brigate Matteotti che contravvenendo agli ordini di fucilazione emanati da Sandro Pertini, aveva avuto abboccamenti con delegati della RSI per un incruento passaggio dei poteri alla fine della guerra.
In seguito Tarchi fu processato da una CAS (Corte d’Assise Straordinaria) e condannato a cinque anni di reclusione per “collaborazionismo”. Paradossale se si pensa al ruolo svolto dal ministro nei suoi rapporti con i tedeschi.
Tornò in libertà nel 1948 in seguito al provvedimento dell’amnistia Togliatti.
Grazie alle sue competenze professionali riprese l’attività di chimico e diresse la rivista Chimica.
Sempre in ambito lavorativo, fu Presidente della Camera di Commercio Italo-Brasiliana, mentre in politica rientrò subito iscrivendosi al Movimento Sociale Italiano nel quale si situò nella combattiva corrente di sinistra assieme all’avv. Manlio Sargenti che era stato suo Capo di Gabinetto al ministero durante la RSI.
Eletto consigliere comunale a Milano, fu anche candidato alla Camera nelle elezioni del 1953.
Nel maggio 1952, assieme ad altri importanti membri della sinistra missina, come Giorgio Pini e Concetto Pettinato e altri membri del Comitato Centrale, minacciò la scissione se non fossero cessati i rapporti politici con i monarchici e i democristiani, accordi che in quel periodo il vertice del MSI stava facendo per la presentazione di liste “apparentate”.
In seguito fece parte della Direzione Nazionale del Movimento nella corrente di Giorgio Almirante col quale però i rapporti non furono mai di amicizia. Nel 1967 pubblicò un libro autobiografico, Teste dure. Cronache dal giugno 1943 all’aprile 1945. Angelo Tarchi morì a Milano il 16 febbraio 1974.
Per un approfondimento si rimanda al fondamentale volume di Riccardo Lazzeri, Economia e Finanza nella Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), ed. Terziaria, Milano, 1998.