Minima Cardiniana 416/6

Domenica 30 aprile, San Pio V

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
IL SURREALISMO DI MAX ERNST: QUANDO L’ARTE SI FA MAGIA
SECONDA PARTE
di Eleonora Genovesi

Questa è la vocazione dell’uomo: liberarsi della sua cecità”.
(Max Ernst)

Ed in questa dimensione surreale riprendiamo il nostro viaggio nel mondo magico di Max Ernst, l’artista poliedrico, che interpretò in modo visionario, non solo la storia dell’Arte, ma anche la filosofia, la scienza e l’alchimia, entrando nella sala 6 dal titolo “Natura e Visione”. Il Surrealismo, secondo la definizione data da André Breton, altro non è se non il dettato dell’inconscio, che molti poeti surrealisti tradussero in una sorta di scrittura automatica. Ed a questo punto del suo percorso, siamo a metà anni trenta, che Ernst avverte la necessità di trovare un metodo artistico che equipari la scrittura automatica della letteratura surrealista.
Questa sua ricerca lo conduce nel mondo della natura, una natura selvaggia, primordiale, che diviene la sua fonte di ispirazione come si può vedere nei due olii su tela dal titolo: Agli antipodi del paesaggio del 1936 e La città intera del 1936-37 che ci riportano al concetto di una natura predatrice.
In entrambe le opere il cromatismo adottato da Ernst per il cielo richiama alla mente dello spettatore, sia il tempo dell’alba che quello dell’inizio della notte, tempi di assopimento che aprono le porte alla dimensione onirica centro di tutta la cultura surrealista. E come nel Romanticismo tedesco di un Friedrich, anche nel Surrealismo di Ernst troviamo quella corrispondenza tra paesaggio esteriore e dimensione interiore.
Ma natura e paesaggio risulteranno elementi molto importanti, sia per quanto attiene l’invenzione di tecniche quali: il frottage, il grattage, la decalcomania e il dripping, sia ai fini della creazione di filoni che spaziano dal fantastico allo stupefacente, che investiranno anche la scultura e l’oreficeria, testimoniando la costante tensione dialettica tra vocabolo ed immagine, tra spirito e materia.
E proprio mediante il procedimento di una fortuita imitazione della decalcomania, da una parte, e quello del frottage dall’altra che l’artista avvierà un processo teso a scrutare sia la dimensione interiore che l’interpretazione dell’universo, come ci testimonia l’opera Figura Zoomorfa del 1928, in cui delle sovrapitture, di cui sono visibili singole zone di colore, vengono sovrastate da sagome che fanno emergere nuove entità.
Ernst così ci mette in contatto con un sommerso non visibile ma fortemente percepibile.
L’artista parlerà di questo stravolgimento della visione nel suo saggio Al di là della pittura, del 1936 nel quale compaiono estratti dal Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci che diviene così per Max Ernst un’irrinunciabile punto di riferimento per le sue ricerche tese a dare visibilità alla dimensione dell’inconscio. Il percorso prosegue nella sala 7 dal titolo “Il piacere di creare forme (Gestaltungslust)”, titolo già di per sé fortemente indicativo del pensiero dell’artista.
Ernst in alcune note biografiche parla di “Piacere dell’occhio”, di “Occupazione vitale: vedere”. Ma vedere cosa? Cosa intende Max Ernst con “vedere”?
L’artista con questo termine si riferisce a tutte le possibili modalità che ci facciano capire quale sia il fulcro del suo fare arte.
Sinteticamente le basi metodologiche dell’arte di Ernst sono date, da un lato dall’indagare l’interiorità al fine di fornirne l’interpretazione, dall’altro l’ideare delle tecniche di lavoro le cui conseguenti modalità di visione siano in grado di ribaltare quelle ordinarie.
Ed in tale ideazione saranno ancora natura e paesaggio a ricoprire un ruolo rilevante. In breve tutta l’arte di Max Ernst è un invito a vedere una realtà che, grazie al suo impegno nell’ampliare le possibilità di percezione, diviene una realtà, non più da copiare, bensì da percepire. Tra le opere presenti in questa sezione troviamo: Un orecchio prestato del 1935 in cui l’artista conferisce ad un frammento di corpo(l’orecchio) una nuova anatomia ma anche una nuova simbologia, quella di apprestarsi a percepire questa nuova realtà. Troviamo poi La natura dell’aurora del 1936: una natura tranquilla e al contempo inquietante, una natura selvaggia simile ad una giungla, vista come madre e fonte di infinite possibilità, animata da una strana creatura, in parte uomo, in parte uccello, quell’uccello antropomorfo alter ego di Ernst chiamato Loplop. E qui lascio la parola allo stesso Ernst che ci spiegherà cosa rappresenti la natura per lui: “Il meraviglioso piacere di respirare a proprio agio in un vasto spazio e, d’altro lato, la sensazione angosciosa di essere rinchiuso nella prigione formata dagli alberi attorno. Fuori e dentro, al medesimo tempo. Libero e prigioniero” (Max Ernst, 1970).
Troviamo poi l’olio dal titolo Il meteorologo, un’opera del 1951 realizzata negli Stati Uniti, dove era fuggito 10 anni prima dall’Europa in guerra. Si tratta di un dipinto le cui forme strutturate da linee tracciate liberamente ed incise su strati di colore sovrapposto assumono ancora una volta l’aspetto di un uccello, animale ricorrente nell’arte di Ernst, in cui l’artista identifica il suo alter ego di nome Loplop.
Loplop è un personaggio immaginario metà uomo e metà animale creato da Ernst che nasce come metafora del volo in sintonia con le teorie di Freud così care ai surrealisti. Il nome non è casuale poiché il suo suono evoca lo sbattere delle ali.
Loplop è considerato da Ernst il proprio alter ego in quanto possiede la libertà di azione e l’anticonformismo cui lui stesso tenderà per tutta la sua vita nel processo di invasione della dimensione dell’inconscio. Prima di lasciare la settima sala troviamo La festa a Sellians del 1964, opera realizzata in Provenza (a Sellians) dove si trasferirà a metà anni sessanta, che con il suo acceso cromatismo simboleggia l’allegria delle feste di paese. La libera composizione di volti e corpi che paiono fluttuare sulla tela assume una valenza musicale che diviene un inno alla vita.
Ed eccoci giunti alla sala numero 8, intitolata “Memoria e Meraviglia”, che raccoglie opere realizzate in differenti decenni che ci raccontano come lo straordinario genio di Max Ernst si ispiri a nuove fonti quali il ritorno all’antico o la storia della cultura, intrattenendo in tal modo un profondo rapporto con la memoria del passato.
Tra le opere presenti ecco la Pietà o La rivoluzione della notte realizzata nel 1923, ispirata al tema iconografico di origine tedesca della Pietà. In primo piano c’è un uomo inginocchiato, con lo sguardo rivolto verso il basso che tiene tra le braccia un giovane. È una figura che nella sua monocromia parrebbe scolpita a differenza di quella del ragazzo dai pantaloni di un rosso acceso che esalta il bianco della camicia sottolineando l’aspetto cromatico. Dietro, sulla destra un terzo uomo che parrebbe disegnato. Le tre figure rappresentano infatti le tre arti figurative: pittura, scultura e disegno.
Ed eccoci davanti ad una delle opere più note di Max Ernst: L’angelo del focolare del 1937 una figura fantastica che riunisce in sé elementi del rinascimento nordico e della teatralità barocca che coinvolge e cattura lo spettatore.
Un angelo identificato con una sorta di buffo e al contempo spaventoso trampoliere che avanza, distruggendo tutto ciò che incontra, in un paesaggio spoglio, desolato e desolante, in un’atmosfera allucinata, presagio della guerra ormai prossima.
Lo stesso clima di timore e angoscia lo si ritrova nel dipinto dal titolo L’anno 1939, in cui un tronco dalle fattezze scheletriche agita i suoi arti sgangherati all’interno di una sorta di tela costituita da segni disordinati e rapide macchie di inchiostro che esaltano il senso di movimento.
Ernst aveva ottenuto quell’effetto bucando una lattina e riempendola di colore nero. Successivamente la lattina, dopo essere stata legata ad una corda lunga 2 metri, veniva fatta oscillare sul foglio. L’accidentalità dell’oscillazione creava effetti indipendenti dalla volontà dell’artista.
Così Max Ernst creò la tecnica dell’oscillazione, una delle numerose tecniche di automatismo surrealista, insieme a quelle del frottage, grottage e sovrapittura utilizzate dall’artista, cui successivamente si ispirerà Jackson Pollock.
Pollock la chiamerà dripping (gocciolamento) e la estenderà a tutta la tela coinvolgendo tutto il corpo, dando origine al movimento Action Painting. In Sogno e rivoluzione del 1946 Ernst mixa elementi ripresi dalla rivoluzione francese come il berretto frigio rosso con elementi che fanno riferimento alla rivoluzione copernicana in pittura, innescando una sorta di dialogo arcano tra una creatura mostruosa ed un pittore-giacobino che agita delle lance posizionate in prospettiva che richiamano tanto le scene di battaglia del mitico Paolo Uccello.
Al genio italiano di Leonardo da Vinci Ernst dedica l’opera dal titolo Progetto per un monumento a Leonardo da Vinci del 1957 caratterizzato da uno stile cangiante e da forme geometriche che creano una maschera posta sul volto di Leonardo. E poi il dipinto dal titolo Il Romanticismo, chiaro riferimento ai pittori del romanticismo tedesco come Caspar Friedrich che offrono al surrealismo l’opportunità di fondere visone interiore ed esteriore in un rapporto fortemente empatico. E poi i bronzi Per le strade di Atene del 1960 e Ritratto di un antenato del 1974.
Ed eccoci giunti alla fine di questo percorso surrealista con la sala 9 intitolata “Cosmo e crittografie”. Davvero un gran finale con lo sguardo rivolto alle stelle del cielo.
Nelle opere presenti in quest’ultima sezione, realizzate negli anni immediatamente precedenti allo sbarco dell’uomo sulla Luna, arte e scienza dialogano con lo sguardo verso il cosmo.
Ernst, come tipico della sua poliedricità, attinge ispirazione dall’astronomia ma anche dall’antropologia e dalla fisica. E nell’universo artistico di Ernst compaiono alla fine del 1961 delle opere dette Crittografie ossia delle scritture segrete realizzate con segni cifrati che alludono alla scrittura automatica elemento fondante della produzione artistica surrealista. Tra le opere esposte troviamo: Il mondo dei naives del 1965, Maximiliana o l’esercizio illegale dell’astronomia del 1964 o la Nascita di una Galassia del 1969.
Si tratta di opere cosmiche, realizzate fra gli anni sessanta e settanta con le quali l’artista si riappropria del mondo e della realtà. Si chiude così un percorso estremamente variegato specchio della poliedricità di Max Ernst. Al termine di questo esteso percorso espositivo si chiarisce bene il concetto di Ernst umanista di cui si era parlato all’inizio.
L’umanesimo dell’artista altro non è se non il suo esser un ricercatore perennemente inesausto, mai soddisfatto delle conclusioni cui giunge, ma che, a dispetto di questa sua costante ricerca di superamento di se stesso, riesce a costruire un progetto granitico quanto coerente.
La sua poliedrica curiosità lo ha portato a interessarsi di filosofia, psicologia e psichiatria, storia dell’arte, fisica, astronomia, anatomia, botanica, antropologia, magia e alchimia.
E per esprimersi Max Ernst mette in atto, spesso inventandole, le tecniche più disparate, come il collage senza colla, il frottage, il grattage e il dripping, tecnica quest’ultima portata in seguito alle sue estreme potenzialità da Jackson Pollok.
La mostra, attraverso l’esplorazione dell’avventurosa parabola creativa di una figura così eclettica come quella di Max Ernst, segnata dai grandi avvenimenti storici del Novecento, ci restituisce il ritratto di un’epoca letto in chiave retrospettiva. A conclusione di questo viaggio nel mondo di Max Ernst mi rendo conto di essere entrata in una sorta di camera delle meraviglie che mi ha sfidata a cimentarmi in avvincenti giochi di percezione, suscitando in me stupore e meraviglia. Dunque si riconferma l’immenso valore dell’Arte, non solo balsamo dell’anima, ma anche crescita attraverso sfide costanti che ci spingono a metterci in gioco.

Dipingere per me non è un divertimento decorativo o l’invenzione plastica di una realtà sentita; deve essere ogni volta invenzione, scoperta, rivelazione”.
(Max Ernst)