Domenica 21 maggio 2023, Ascensione di Nostro Signor Gesù Cristo
GIUBILATE, GIUBILATE, LE STREGHE SON TORNATE (E CON ESSE LA CACCIA ALLE MEDESIME)
LA NUOVA CAMPAGNA CONTRO ALAIN DE BENOIST
Cosa pensa l’atlantista Giorgia Meloni di Francesco Giubilei che presenterà il libro del filo-putiniano Alain de Benoist? La casa editrice del 31enne, testa d’uovo del sovranismo italico e consigliere del ministro Sangiuliano, ha pubblicato La scomparsa dell’identità di Alain de Benoist, amico dell’ideologo di Putin Aleksander Dugin. Giubilei sarà al Salone del Libro di Torino per la presentazione del libro di de Benoist che, dopo lo scoppio della guerra, disse…
Estratto dell’articolo di Ilario Lombardo per la Stampa
È consigliere, lodato e magnificato pubblicamente, del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. È presidente di fondazioni e associazioni che sognano il trionfo di un nuovo nazionalismo conservatore, che sia anche la rivincita di una vagheggiata purezza italica.
È opinionista fisso nelle trasmissioni Rai perché il suo nome è da tempo nella short list degli ospiti graditi a Giorgia Meloni e agli uomini della premier a Viale Mazzini (anche se il suo impiego con il governo consiglierebbe di aggiornare i sottopancia tv per specificarne l’affiliazione e forse un certo conflitto di interessi, intellettualmente parlando). È fan della democratura di Viktor Orbán. È l’uomo delle relazioni internazionali che guarda con nostalgia alla destra sciamana di Donald Trump. Tutto a soli 31 anni. E non è finita.
Perché Francesco Giubilei è soprattutto un animatore culturale, editore della Giubilei Regnani, e il 21 maggio al Salone del Libro di Torino presenterà il volume, che edita lui stesso, di Alain de Benoist, La scomparsa dell’identità. L’autore, presente al Salone, merita una parentesi personale, significativa per capire sbandate, antiche passioni, radici, tradimenti e inversioni di rotta di quell’universo della destra italiana che è cresciuta con Meloni e il suo progetto politico.
Di quel brodo culturale in cui hanno galleggiato tanti, de Benoist è punto di riferimento. È il filosofo della Nouvelle Droite, la destra francese identitaria, pensatore controverso affascinato dai venti dell’Est, dallo spiritualismo di Aleksander Dugin, l’ideologo panrusso di Vladimir Putin. Con Dugin, De Benoist ha scritto anni fa un libro, Eurasia, Vladimir Putin e la Grande Russia. L’invasione dell’Ucraina era ancora un’aspirazione. Si combatteva in Donbass, per la Crimea e l’autocrate del Cremlino era osannato come una star dalle destre estreme europee. […]
Ad appena due mesi dall’invasione dell’Ucraina, nel pieno della mattanza di Putin, mentre l’Occidente si sta attrezzando per una risposta collettiva e compatta, de Benoist rilascia queste dichiarazioni a Breizh-Info, sito dell’estrema destra francese vicina a Éric Zemmour. Gli chiedono chi pagherà le conseguenze della guerra e la sua risposta è: “Io e te, ovviamente, non gli ucraini! Le squallide sanzioni, di portata senza precedenti, decretate contro la Russia per soddisfare le richieste americane, peggioreranno le cose”.
[…] De Benoist resta un pensatore che piace molto agli uomini del melonismo, che lavorano sui nuovi orizzonti di una destra conservatrice. Dietro la fissazione di Sangiuliano per Antonio Gramsci e una “nuova egemonia” non di sinistra c’è il filosofo francese, autore tra i più citati dal ministro della Cultura, celebrato agli “Stati Generali della Cultura nazionale” organizzato per suo volere da Giubilei.
Fu proprio lì, due mesi fa, che Sangiuliano annunciò con orgoglio che il suo giovane consigliere avrebbe conquistato uno spazio del Salone con de Benoist. “Merita un applauso”, disse, “fateglielo!”.
(Dagospia, 16 maggio 2023)
INTERVISTA AL FUMETTISTA ZEROCALCARE
“LA DESTRA È OSSESSIONATA DALL’EGEMONIA CULTURALE, LA SINISTRA L’HA GIÀ PERSA”
Non lo vedi arrivare, Zerocalcare. Un attimo prima è lì che snocciola aneddoti, disegna fumetti con le parole, racconta del viaggio in Iraq da cui è nato il libro No sleep till Shengal e di Cesare, un nuovo personaggio della sua prossima serie su Netflix, e un attimo dopo, senza preavviso, la conversazione prende direzioni inaspettate: il 41 bis, le carceri, l’individualismo che è una finestra che si affaccia sulla mitomania (copyright: Zerocalcare), il sogno del confederalismo democratico curdo, il fascismo, l’egemonia culturale. E il governo Meloni, certamente. Coi suoi ministri che rivendicano con orgoglio di avere un busto di Mussolini a casa e discettano di sostituzione etnica. “Non sono neanche stupito”, dice il quasi quarantenne Michele Rech, ospite di un’affollatissima ArenaRobinson, lo stand di Repubblica al Salone del Libro di Torino. “La questione della sostituzione etnica va avanti da tempo. Chi arriva da quella tradizione politica di destra radicale ne parla da anni, solo che prima era fuori dai radar…”.
Ora è al governo.
“E infatti ora è diverso. Basta vedere quante presentazioni di libri che parlano del Piano Kalergi vengono fatte nei festival della letteratura, a Torino, a Roma… Il piano Kalergi è esattamente quella roba lì, l’idea che dei poteri forti programmino l’arrivo dei migranti per sostituire i popoli europei. Però poi non arrivano mai in fondo al ragionamento…”.
Cosa vuole dire?
“Che se fossero sinceri, e dicessero che l’italiano per loro può essere soltanto uno con legami di sangue e di pelle bianca almeno giocherebbero a carte scoperte. E invece rimangono sempre sottotraccia”.
La preoccupa la corsa del governo Meloni a occupare le agenzie culturali di questo Paese?
“Non particolarmente, perché ho la fortuna di vivere scrivendo e vendendo libri, non dipendo dalla benevolenza del governo di turno. Tuttavia, questa ossessione per l’egemonia culturale da riconquistare è il terreno su cui sono più pronti a lottare. A leggere chi era invitato agli Stati generali della cultura a Roma, sotto l’egida del ministro Sangiuliano, si capisce quale sia l’obiettivo. Difficile che questo governo possa uscire dall’Alleanza atlantica oppure rovesciare la politica economica dell’Italia, ma sul terreno della cultura hanno un personale che da 80 anni sta in panchina. Gruppi musicali, filosofi, scrittori che per me sono aberranti ma che però ci sono e sono seguiti”.
A chi sta pensando?
“Il nome di punta che sono riusciti a tirare fuori per la loro riscossa culturale al Salone di Torino è Alain De Benoist, considerato un faro dai neonazisti europei”.
Cambia il vento politico e cambia la Rai, cambiano i festival, cambia il mood della cultura dominante. Non è la prima volta che accade, o no?
“È vero che in tutti questi anni i posti in un certo ambiente erano occupati spesso da persone che guardavano allo schieramento politico di sinistra, però non hanno determinato un’egemonia culturale, si sono fatti largamente i cazzi loro… la vittoria del centrodestra alle ultime elezioni dimostra quale sia veramente il sentimento dominante in Italia”.
La sinistra italiana ha colpe?
“Non è riuscita ad avvicinare le persone che si riconoscono in certi ideali, trasmettendo loro un senso di smarrimento e di sfiducia verso la capacità della sinistra di prendersi in carico le questioni che riguardano la società”.
Il suo ultimo libro racconta del tentativo degli ezidi di Shengal (in arabo Sinjar, ndr) di rivendicare l’autonomia dall’Iraq creando una società basata sugli ideali del confederalismo democratico. Come è nato il progetto?
“Shengal è stato il teatro di un massacro dell’Isis nel 2014, con migliaia di morti e donne violentate. Quando sono partito, nell’estate del 2021, stava per scadere l’ultimatum del governo iracheno, contrario all’autonomia. Dall’altra parte c’era la Turchia che attaccava gli Ezidi colpevoli, ai loro occhi, di essere amici dei curdi. Mi hanno chiamato i curdi per far conoscere cosa stava accadendo in un momento per loro cruciale”.
E Il libro ha avuto l’effetto che speravano?
“Onestamente, credo di no. Ha venduto 140 mila copie, quindi 140 mila persone hanno saputo, ma non ha avuto il livello di penetrazione nel dibattito pubblico di Kobane Calling. Sa perché? Ce li siamo dimenticati, i curdi. Ci facevano comodo quando erano i primi avversari dell’Isis, allora erano degli eroi, adesso che l’Occidente pensa, sbagliando, che il rischio Isis sia finito, li abbiamo abbandonati”.
Un altro caso a cui si è appassionato è l’anarchico Alfredo Cospito detenuto al regime del 41 bis.
“Più che altro ancora oggi c’è chi mi scrive che sono amico della mafia, perché critico il carcere duro e l’applicazione a Cospito, che, ricordo, in quel processo non è stato condannato per fatti di sangue ma per degli ordigni nei cassonetti che non hanno ferito nessuno. Non mi ricordo quale tema ha spodestato gli anarchici, forse gli orsi del Trentino. Comunque, di carceri si parla troppo poco: non lo so come si fa una società senza carcere però le alternative ci sono, ma vi accedono solo le persone che hanno i soldi. Ci dovremmo porre il problema di come sia possibile che a parità di reato la differenza tra lo stare dentro o fuori una cella sia la classe sociale”.
(la Repubblica, 20 maggio 2023)
LA WELTANSCHAUUNG MELONIANA CHE PORTA AL LINGOTTO ALAIN DE BENOIST
Salone di Torino. Il capofila della Nouvelle Droite interverrà domenica per parlare di “identità” accanto a Giubilei, consigliere del ministro Sangiuliano.
Non si può dire che sia la prima volta della destra al Salone. Addirittura, tre anni or sono, le polemiche erano sorte intorno alla presenza, poi annullata, di uno stand di Altaforte, la casa editrice legata a CasaPound, tra quelli ospitati al Lingotto. E, nei trent’anni di berlusconismo reale che tra alterne vicende elettorali ha comunque contribuito a plasmare l’immagine del Paese, quello di Torino è un appuntamento che ha sempre segnalato le mire dei governanti di turno su quello che con qualche approssimazione si potrebbe definire come “lo spazio di senso della cultura”.
Quest’anno, le avvisaglie della tempesta si erano coagulate intorno alla nomina della nuova direzione del Salone, allo scadere del mandato di Nicola Lagioia, per altro pesantemente attaccato in passato specie da parte degli esponenti della Lega. Sulla stampa, era circolato, non si sa bene con quanta ufficialità, vera o presunta, un totonomi che includeva i grandi classici dell’intellettualità destrorsa del momento: Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Veneziani, Giordano Bruno Guerri. Come è noto, non se ne è però fortunatamente fatto niente, dopo che l’allarme sull’indipendenza del Salone ha riempito, e a ragione, le cronache nazionali e torinesi.
Non c’è stato il colpo di mano, ma forse neppure la “normalizzazione” che altri paventavano. Al punto che domani Nicola Lagioia e Annalena Benini, rispettivamente direttore del Salone di quest’anno e direttrice del Salone dall’anno prossimo, discuteranno del “libro come luogo d’elezione della memoria, come rifugio o trasfigurazione di sé e del mondo, fino al libro come oggetto d’affezione in grado di trasformare l’anonimato di una casa”.
Ovviamente, all’indomani della presa manu militari della Rai, un brivido quanto alle intenzioni complessive delle destre di governo riguardo al comparto informativo-culturale è d’obbligo più che lecito. Ma, anche in questo caso, a ventun’anni dall’“editto bulgaro” di Berlusconi che annunciava la cacciata dai palinsesti di Viale Mazzini di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi, varrà la pena sottolineare come l’occupazione del territorio sia pratica comune delle “destre plurali”, e non solo di esse, una volta giunte al governo. Magari, allora come oggi, il problema riguarda i criteri con cui vengono scelti i nominati e le esperienze nel settore che possono o meno vantare.
Cosa c’è perciò di speciale in questa vigilia del Salone, quale lo scenario inedito cui si può guardare se non con cautela con una certa interessata e perplessa curiosità? Nell’anno primo dell’era Meloni ad annunciare il clima è la volontà, più volte espressa e affermata da figure di primo piano dell’esecutivo, a cominciare dal ministro “competente” Gennaro Sangiuliano, di costruire “un’egemonia culturale della destra”. Una prospettiva ribadita recentemente dagli “Stati generali della cultura nazionale”, svoltisi a Roma su iniziativa di Nazione futura, braccio culturale di Fratelli d’Italia e che vede oggi alcuni suoi esponenti lavorare a stretto contatto con Sangiuliano stesso.
Proprio Francesco Giubilei, presidente di Nazione futura e consigliere del ministro della cultura, interverrà al Salone accanto ad Alain de Benoist per presentare La scomparsa dell’identità, un volume del capofila della Nouvelle Droite di cui è anche l’editore (domenica 21, ore 12, Arena Piemonte). “Le grandi narrazioni collettive sono scomparse, le frontiere e i limiti si sono dissolti e i legami sociali sono ogni giorno più fragili. Così, privi di una bussola, non sappiamo più chi siamo”, si legge nel programma della kermesse per annunciare l’incontro.
Al di là del fatto che de Benoist non ha mai nascosto le proprie simpatie per Putin e che il terzo partecipante al dibattito, l’assessore regionale alle politiche sociali del Piemonte Maurizio Marrone (FdI) è noto per il proprio sostegno ai filorussi del Donbass – posizioni perlomeno bizzarre a fronte dell’atlantismo di ferro degli eredi della fiamma –, resta la considerazione che è proprio con la figura del filosofo francese che la destra intende far sentire la propria presenza al Lingotto.
Davvero l’egemonia culturale e l’indicazione della possibile Weltanschauung meloniana si affidano a uno degli autori che ha incarnato nell’ultimo mezzo secolo il ritorno delle tesi più violentemente anti-egualitarie del panorama politico e culturale? Una critica radicale della democrazia che ha assunto di volta in volta l’aspetto della chiusura comunitaria, del differenzialismo, dell’elogio di tutti i populismi, della denuncia del tramonto delle identità e delle appartenenze. Il tentativo di ricostruire, dopo e contro il ’68 e sulle macerie delle culture di destra che avevano contribuito alle tragedie della prima metà del Novecento, un lessico d’attacco che rendesse nuovamente possibile discriminare e dividere, separare e selezionare gli esseri umani. Se de Benoist è esibito come un campione delle idee che si vorrebbero rendere egemoni, è evidente come il problema con la destra è molto più profondo di quanto si sarebbe portati a credere. E, in questo caso, di una minaccia che arriva dal futuro, più che dal passato, si tratta.
(Guido Caldiron, il manifesto, 18 maggio 2023)
RIPARTE LA CACCIA AL FILOPUTINIANO
ORA VOGLIONO LA CENSURA DI DE BENOIST AL SALONE DEL LIBRO
Riparte la caccia al filoputiniano. In un Occidente che spesso e volentieri sul tema della guerra si liscia il pelo ribadendo come altrove la libertà di pensiero sia una chimera, la censura però avanza rigogliosa.
Stavolta è toccato al celebre autore francese Alain de Benoist. L’invito al Salone del Libro di Torino ha suscitato prima scalpore, poi, di fatto, la richiesta di censura.
Parte tutto da un fatto: Nicola Lagioia, direttore del Salone del Libro, doveva lasciare il posto a Paolo Giordano. Che però rifiuta per non avere attorno a sé consiglieri nominati da un ministro di Destra (alla faccia del pluralismo). Resta Lagioia e nel frattempo viene invitato de Benoist. Subito partono le lamentele al grido unanime di “propaganda di destra”, trascurando però che de Benoist fa del superamento della dicotomia destra-sinistra un baluardo della sua opera. Se dunque l’accusa di suprematismo è debole, si tirano in ballo le posizioni sulla guerra. L’autore francese è notoriamente antiamericano, ma qui la contraddizione è duplice: che ne è del pluralismo delle idee? E perché contestare qualcuno che neppure è invitato per parlare di guerra?
Riaffiorano ricordi della casa editrice Altaforte, sbattuta fuori qualche anno fa dal Salone del Libro di Torino proprio per aver pubblicato troppi libri ideologicamente “a destra”.
Amaro il commento dell’editore Francesco Giubilei da Francesco Borgonovo.
“È nata una polemica abbastanza surreale sul fatto che Alain de Benoist abbia delle posizioni sul tema della guerra definite in modo molto semplicistico come ‘filoputiniane’. Il punto è che innanzitutto noi non lo stiamo invitando a parlare della guerra ma a parlare del tema dell’identità e a presentare il suo libro su questo. Mi sorprende che le stesse persone che accusano Alain de Benoist di avere delle posizioni filoputiniane ‘non ortodosse’ sul tema della guerra siano gli stessi che due-tre giorni fa gridavano alla censura su Rovelli. Cioè, come funziona sostanzialmente? Che Rovelli nel momento in cui dice di essere stato censurato – cosa assolutamente sbagliata, visto che ognuno deve esprimere il suo parere – diventa un martire. Nel caso di de Benoist, invece, si dice che non dovrebbe intervenire al Salone del Libro di Torino per le sue posizioni sulla guerra: allora mettiamoci d’accordo, perché mi sembra il classico esempio dei due pesi e delle due misure. Inoltre viene invitato da una casa editrice che, fino a prova contraria, è privata e che lo invita lecitamente”.
(RadioRadio, 16 maggio 2023)
POLEMICHE INUTILI
Un atto politico contro la stupidità: Schlein vada da de Benoist al Salone del libro.
L’editore Francesco Giubilei, che è un collaboratore del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, porta un libro di Alain de Benoist, La scomparsa dell’identità, al Salone del libro di Torino. La notizia è stata accompagnata da alcune polemiche sui giornali, anche sulla Stampa: non bisogna, de Benoist è putiniano, è amico di Dugin, Meloni ne prenda le distanze… Ora, come diceva anche Paolo Mieli ieri mattina con Simone Spetia a Radio24, questa polemica è al confine con l’assurdo. È mai possibile che in questo strano paese qualsiasi oscuro professorucolo minchioneggiante possa andare in tv a fare propaganda filorussa avendo “carta -bianca” di dire sciocchezze a getto continuo, mentre un grande intellettuale francese, l’ottuagenario ispiratore della Nouvelle Droite, che incidentalmente fra le tante altre cose è anche filo russo, non possa andare al Salone del libro? De Benoist ha delle opinioni sull’Ucraina e sulla guerra di Putin che sono agli antipodi di quelle del Foglio e di qualsiasi liberaldemocratico. Ma ridurre la sua figura a “amico di Dugin” è un po’ come se per descrivere Gramsci si dicesse che era un “amico di Berija”. Alain de Benoist non è un colorito personaggio del sottosuolo televisivo, composto di mattocchi no vax e sostenitori del regime russo. Non è nemmeno un iscritto al bislacco comitato DuPre di Carlo Freccero. Egli è dal 1970, almeno, il pensatore che ha tolto i detriti del Novecento alla destra, sorprendendo la sinistra che lo ha letto e studiato. E non a caso, infatti, è un intellettuale che nel suo paese mai ha votato Le Pen, sia padre sia figlia. Mai ha ceduto al populismo, aprendo anzi un confronto polemico, sapido, profondo, con il liberalismo diventato nel frattempo, secondo lui, un’ideologia e non più una prassi della politica. È stato un allevatore di generazioni di eretici, de Benoist. L’aver pensato di poter scatenare contro di lui istinti da censura, al Salone del libro, è un po’ come se domani qualcuno chiedesse di togliere il ritratto di Giorgio Napolitano dalla galleria dei presidenti al Quirinale perché durante l’invasione d’Ungheria questo gran vegliardo era dalla parte dei carri armati sovietici. O come se qualcuno volesse proibire la pubblicazione dell’Unità perché alla morte di Stalin aveva titolato: “È morto il padre dei popoli”.
Scatenare strumentalmente un caso al giorno contro la destra al governo d’Italia, spesso senza riflettere, forse non è il migliore viatico per sconfiggerla. Alla fine non si vince perché si fa più rumore, ma perché si hanno più idee e magari migliori. Chissà che domenica prossima, a Torino, ad ascoltare De Benoist non ci vada anche Elly Schlein. Sarebbe il suo primo vero atto politico. Contro il tafazzismo inintelligente.
(Salvatore Merlo, Il Foglio, 18 maggio 2023)
IL PRECEDENTE DEL 2018: IL “NO” DI FONDAZIONE FELTRINELLI
Cacciari e Lerner ci spiegano perché de Benoist non è un fascista.
“È odiosa e mafiosa la censura a de Benoist, impedito a tenere una conferenza. Ma è ripugnante il silenzio dei media e dei moderati”, twitta Marcello Veneziani. Dopo l’articolo del Foglio di martedì scorso, nel quale si dava conto della sospensione dell’incontro alla Fondazione Feltrinelli con Alain de Benoist, filosofo e scrittore francese, teorico della Nouvelle Droite, i grandi giornali – da Repubblica al Corriere – sono rimasti in silenzio. L’incontro, in programma per il 13 febbraio 2018, avrebbe dovuto essere introdotto da Piero Ignazi e moderato da Gad Lerner, non esattamente l’internazionale nera. “De Benoist – dice al Foglio Lerner, che ai tempi dell’Infedele lo ha ospitato due volte in trasmissione – è una figura diversa da militanti o dirigenti di partito della estrema destra e ha sempre tenuto fortissime critiche nei confronti del Front National”.
Massimo Cacciari, un altro intellettuale certamente non ascrivibile alla destra, dice al Foglio che la decisione è “scandalosa, allucinante”. Dice di non conoscere le “studiose e studiosi” che hanno firmato l’appello contro la conferenza. “Mai sentiti”, dice il filosofo. “Con de Benoist si può essere d’accordo o no, ma è un intellettuale di vastissima cultura, che da anni studia i fenomeni della globalizzazione da un punto di vista molto critico, con grande competenza e conoscenza”. Quello di de Benoist è un pensiero critico anche nei confronti di “un certo cosmopolitismo”, presupposto della globalizzazione, ed “è certamente un pensiero radicalmente anti illuministico, ma è ferocemente critico di ogni nostalgia reazionaria, fascista o nazista”. Tra i suoi maestri culturali, ricorda Cacciari, c’è Georges Dumézil e in lui sono riscontrabili influenze guenoniane. “Le sue posizioni sono state discusse in Italia da tutti i punti di vista, qui in Italia il suo mentore è Marco Tarchi, che da anni lavora con il gruppo di Danilo Zolo. Insomma, le sue posizioni possono risultare convergenti con quelle di una certa sinistra”. De Benoist da tantissimo tempo “viene invitato da circoli intellettuali e culturali che con il fascismo non hanno nulla a che spartire e svolge una analisi dei processi di globalizzazione di cui bisogna tener conto, a meno che di non essere ciechi e sordi. Ed è scandaloso che la fondazione Feltrinelli accetti questi diktat”. Insomma, “ma questi studiosi hanno letto una parola di de Benoist? È un critico feroce della globalizzazione all’americana, ha criticato tutte le guerre statunitensi. Ripeto, basta vedere in Italia i rapporti che Tarchi, suo mentore, ha con Zolo”. Oltretutto, de Benoist con il partito di Marine Le Pen non c’entra nulla, “anzi, ha sparato contro il Front National”. Poi certo, solleva una questione sulla situazione occidentale ed europea riguardante la denatalità e la crescita della religione musulmana, “ma questo mica vuol dire tornare a Hitler. Dice che con questi tassi di natalità, nel giro due generazioni la maggioranza degli europei non sarà di origine europea. Ma li ha visti i dati dell’Istat?”.
Secondo l’Istat in Italia nel 2017 c’è stato il 2 per cento in meno di nascite rispetto al 2016 e i decessi sono aumentati del 5,1. “E se fra 50 anni non ci saranno più europei sarà un problema o no? Se ne può parlare o no?”. Insomma, dice Cacciari che coloro che tappano la bocca a de Benoist ed evitano di interrogarsi su queste questioni “sono i migliori alleati dei Matteo Salvini e dei Donald Trump. Ce ne accorgeremo anche noi quando avremo il nostro Trump. Non c’è niente da fare: Dio acceca coloro che vuole perdere”. D’altronde, come ha scritto Alessandro Campi sul Mattino mercoledì scorso (“Se Feltrinelli ha paura del dibattito”) “è un vecchio vizio della sinistra estrema quello di chiudere la bocca al prossimo con la scusa di battersi per una nobile causa. Con la differenza che tra i poliziotti del pensiero degli anni Settanta, quelli dell’antifascismo militante, c’erano personalità del calibro di Umberto Eco (che Dio lo perdoni per alcune delle cose scritte all’epoca…)”.
Oggi i nuovi inquisitori sono, citando a caso, “Martina Avanza (che si occupa di gender studies in prospettiva etnografica a Losanna), Pietro Castelli Gattinara (suo un recente libro su CasaPound), Maddalena Gretel Cammelli (assegnista bolognese studiosa del “millenial fascism”, qualunque cosa voglia dire), Sara Garbagnoli (autrice del certamente fondamentale “Against the Heresy of Immanence: Vatican’s ‘Gender’ as a New Rhetorical Device Against the Denaturalization of the Sexual Order”), Massimo Prearo (che si interessa di costruzione sociale della sessualità e di movimenti LGBTQI) e Giovanni Savino (insegnante di italiano in Russia). A quanto pare, gli studiosi effettivi di destra e di fascismo sono pochissimi tra i firmatari”. Dopo l’articolo, la Fondazione ha scritto al quotidiano napoletano per far sapere di aver invitato i ricercatori a un seminario “sul tema della Militant Democracy”. “La toppa è peggiore del buco”, dice Campi. Si sospende l’invito a de Benoist, mentre i censori vengono “blanditi, promossi ed eletti al rango di interlocutori preferenziali”. “Preparatevi a tempi intellettualmente e politicamente cupi”.
(David Allegranti, Il Foglio, 9 febbraio 2018)
DUE INTERVISTE AD ALAIN DE BENOIST
“La questione identitaria e la modernità”
Il filosofo francese si sofferma sui fondamenti dell’Identità da un punto di vista filosofico, evidenziando le contraddizioni del nostro tempo.
In occasione dell’uscita in libreria di “Nous et les autres, L’identité sans fantasme” (Le Rocher), Alain de Benoist risponde alle domande di “Breizh-Info”. La questione identitaria attraversa da parte a parte la società. Ma cosa sappiamo dell’identità, filosoficamente parlando? A cosa rimanda? Come comprenderla? È a queste domande – e ad altre – che risponde Alain de Benoist, da filosofo.
BREIZH-INFO. Innanzitutto, questo libro parte dalla volontà di dare una risposta ai dibattiti attuali sull’identità o le identità, dibattiti monopolizzati mediaticamente e curiosamente dall’estrema sinistra e da una certa sinistra?
ALAIN DE BENOIST: “Direi piuttosto che parte dalla volontà di vederci più chiaro in questi dibattiti che, oggi, assomigliano a una giungla. Al giorno d’oggi, tutti parlano di identità, ma il più delle volte sotto forma di litania o slogan. Quando si chiede a coloro che ne parlano di più di dire che cosa intendano con ciò, quale contenuto diano all’identità, che idea se ne fanno, si ottengono risposte perfettamente contraddittorie. Il mio libro è un tentativo di messa a fuoco. La prima parte, la più teorica, si sforza di mostrare come la nozione di identità si è formata nel corso della storia sociale e della storia delle idee, in connessione in particolare con l’ascesa dell’individuo. La seconda, più attuale e più polemica, analizza l’identitarismo razzialista veramente delirante degli ambienti indigenisti o ‘postcoloniali’.
Nell’introduzione dico che l’identità è insieme vitale e vaga. Vitale perché non si può vivere senza un’identità, vaga perché l’identità è sempre complessa: comprende diverse sfaccettature che possono entrare in conflitto tra loro. I due errori da evitare sono di credere che l’identità non sia vitale perché sfocata, o che non possa essere sfocata se è veramente vitale.
Per capire bene ciò di cui si tratta nella narrazione identitaria, bisogna prendere in considerazione tre categorie di differenze: tra l’identità ereditata, in genere alla nascita, e l’identità acquisita (che è determinante quanto la prima: quando si muore per le proprie idee, si muore per un’identità acquisita), tra l’identità individuale e l’identità collettiva, e soprattutto tra l’identità oggettiva e la percezione soggettiva che ne abbiamo. Le diverse sfaccettature della nostra identità non hanno infatti ai nostri occhi la stessa importanza, ed è questo che determina il nostro senso di prossimità rispetto agli altri. Se sono bretone, francese ed europeo, mi sento più bretone che francese o il contrario? Più francese che europeo o il contrario? Se sono cristiano, mi sento più vicino a un cristiano del Mali che a un pagano norvegese (per ragioni religiose) o il contrario (per ragioni culturali)? Se sono una lesbica di destra, mi sento più vicina a un uomo di destra (per ragioni politiche) o a una lesbica di sinistra (per ragioni di carattere sessuale)? Si possono immaginare mille domande di questo genere. Esse ci dimostrano che i diversi aspetti della nostra identità non si armonizzano necessariamente tra loro”.
BREIZH-INFO. L’era della globalizzazione, l’avvento della società liberale, in particolare dopo i conflitti civili del XX secolo in Europa, sembravano aver cancellato in parte la questione identitaria, che torna oggi sotto altri aspetti. Il segno di una forza molto più importante di qualsiasi questione di carattere economico in particolare?
ALAIN DE BENOIST: “La questione identitaria non fa ritorno, essa spunta semplicemente. Nelle società tradizionali, la questione dell’identità non si pone nemmeno. È nell’epoca moderna che comincia a porsi perché i punti di riferimento svaniscono, e sempre più persone si interrogano su ciò che sono e su ciò a cui appartengono. ‘Chi sono?’, ‘chi siamo?’ sono domande che sorgono solo quando l’identità è minacciata, incerta, o già scomparsa. È questo che rende tale nozione intrinsecamente problematica. Supposta come soluzione, è anche parte del problema.
È un errore credere che l’ampiezza delle preoccupazioni identitarie situi le questioni di carattere economico su un piano secondario. L’economico e il sociale fanno anche parte dell’identità. La nostra identità economica, sociale, professionale o di altro tipo non è dissociabile dagli altri aspetti della nostra personalità. Questo è particolarmente vero per le classi popolari, che sono ben consapevoli di essere attualmente oggetto di una discriminazione sia culturale che sociale: si sentono straniere nel proprio Paese e subiscono un disprezzo di classe costante. Si sentono quindi doppiamente escluse. Separare l’identità e il sociale non ha senso. Questo è ciò che non ha compreso Eric Zemmour, che ha creduto di poter resuscitare il clivage destra-sinistra associando un discorso anti-immigrazione dei più ansiogeni a opzioni economiche liberali. Le classi popolari hanno naturalmente preferito Marine Le Pen a lui”.
BREIZH-INFO. Questo inizio del XXI secolo sembra ugualmente segnare il ritorno della questione della razza, del razzialismo, nel dibattito identitario, specialmente a causa dei movimenti indigenisti (ma non solo). Ritiene che questo dibattito sia fondamentale o che costituisca invece una forma di regresso, di essenzializzazione dell’identità attraverso questo prisma?
ALAIN DE BENOIST: “Le razze esistono, e i fattori razziali devono essere presi in considerazione come tutti gli altri. Dare loro un’importanza centrale, voler spiegare tutto con essi, è incoerente. Ho già pubblicato tre libri contro il razzismo, non ci tornerò. La vera natura dell’uomo, è la sua cultura (Arnold Gehlen): la diversità delle lingue e delle culture deriva dalla capacità dell’uomo di affrancarsi dalle limitazioni della specie. Voler fondare la politica sulla bioantropologia equivale a fare della sociologia un’appendice della zoologia, e impedisce di comprendere che l’identità di un popolo è innanzitutto la sua storia. Non è soltanto una regressione di tipo riduzionista, è anche profondamente impolitica. Il risultato lo vediamo con i deliri razzialisti dell’ideologia ‘woke’, che sono perfettamente paragonabili ai deliri del suprematismo bianco americano: il grado zero del pensiero politico”.
BREIZH-INFO. Perché ha scelto di soffermarsi particolarmente sulla questione dell’identità ebraica? Essa cosa ci dice oggi?
ALAIN DE BENOIST: “Dedico a tale questione un ‘excursus’ posto in appendice al mio libro. La ragione è semplice. Negli ultimi due millenni, il popolo ebraico è sempre stato posto a confronto (e si è sempre confrontato) con la questione della sua identità. Mentre tanti altri popoli sono scomparsi nel corso della storia, è riuscito a mantenersi in diaspora tramite una disciplina intellettuale costante e tramite la proscrizione dei matrimoni misti. Senza questa endogamia rigorosa, sarebbe senza dubbio scomparso. Ciò che è ugualmente interessante, è che il pensiero ebraico è sempre stato combattuto tra un polo universalista e un polo particolarista. La risposta che l’ebraismo ortodosso dà alla domanda: ‘Chi è ebreo?’ differisce totalmente dalle legislazioni antisemite che distinguono dei ‘semiebrei’, dei ‘quarti di ebrei’, il che non significa granché. Secondo la tradizione della halakha, ciò che prevale è la legge del tutto o niente: uno è ebreo se è nato da una madre ebrea, non lo è se è nato da un padre ebreo e da una madre non ebrea. Naturalmente, col passare dei secoli, tutto ciò ha dato luogo a discussioni appassionate, che si sono ancora intensificate dopo la creazione dello Stato di Israele. Ho scelto questo esempio per dimostrare che l’identità non è mai una cosa semplice”.
BREIZH-INFO. Lei ha consacrato l’essenziale della sua vita alla difesa dell’identità, e in particolare della civiltà europea. Come sono cambiati il suo sguardo e la sua percezione di ciò che lei è e di ciò che sono gli altri nel corso di diversi decenni? E oggi, chi è lei, chi sono gli altri?
ALAIN DE BENOIST: “Il mio sguardo senza dubbio si è affinato, ma non è mai cambiato. Personalmente, mi definisco fondamentalmente un europeo, solidale con la sua storia e la sua cultura. Nell’epoca della crisi generalizzata delle dottrine universaliste, auspico che l’Europa diventi una potenza a livello di civiltà autonoma. Ma questa definizione della ‘nostrità’ non è esclusiva rispetto agli altri. Non porta né alla xenofobia né al rifiuto di riconoscere i valori e la grandezza delle altre culture del mondo, al contrario (su alcuni punti dovremmo anche prendere esempio). Nei nostri rapporti con gli altri, dobbiamo capire che ogni identità è dialogica: non si ha identità se si è soli. I sistemi universalisti si sforzano di far scomparire l’alterità a vantaggio di un mondo unidimensionale. Sono questi sistemi che rappresentano il nemico principale, perché vogliono debellare le differenze tra tutti i popoli”.
(da Éléments, https://www.revue-elements.com/quest-ce-que-lidentite/)
“L’uomo moderno non ha identità”
Il filosofo Alain de Benoist riflette sulla mancanza di valori culturali che hanno fatto perdere l’identità all’uomo moderno, in favore di una “cancel culture” che nega le differenze.
Il filosofo, intellettuale e scrittore Alain de Benoist, intervistato dal quotidiano La Verità in occasione dell’uscita del suo ultimo libro La scomparsa dell’identità, riflette sulla carenza di valori che la società moderna ha imposto, provocando una crisi identitaria e culturale, per la quale, un grande ruolo sta avendo l’educazione scolastica, che non punta più all’insegnamento di una solida identità nazionale. Secondo Benoist, questa crisi nasce già a partire dal primo ingresso nella società industriale, quando “c’è stata una perdita di radicamento legata all’esodo rurale, con continui spostamenti che hanno fatto sì che si nascesse in un luogo ma raramente vi si restasse per tutta la vita”.
E oggi, aggiunge il filosofo, viene trascurata anche la diversità, che invece è importante nella società: “Sono convinto che per riappropriarci dell’identità dobbiamo innanzitutto essere consci delle sue specificità, di ciò che ci differenzia dagli altri, a livello individuale o collettivo”. Il paradosso europeo sembra essere quello di perdere l’identità culturale storica, ma di favorire allo stesso tempo una nuova diversità: “Da un lato abbiamo persone che ormai non sanno più chi sono, sono affette da una sorta di amnesia, non sanno più a quale civiltà appartengono, a quale nazione. Dall’altro ci sono persone che abbracciano queste nuove identità compulsive, immaginarie, ed è qui che si trovano un po’ i deliri della cancel culture, della teoria del genere”.
Alain de Benoist, sulla crisi identitaria dell’uomo moderno, specifica che molto si deve all’odierna cancel culture che vorrebbe evitare la differenza anche tra uomo e donna, e dice “Oggi siamo arrivati addirittura a negare la differenza tra gli uomini e le donne, la divisione binaria, la più intima della storia dell’umanità. È la divisione primaria: siamo uomini oppure siamo donne, invece qualcuno vuole far credere che esista una terza possibilità, per confonderci, per confondere il sesso e il genere”.
Una confusione che si ripercuote sulla carenza di valori, trascurati ormai anche dalla scuola, e sottolinea come sia necessario chiedersi “perché le scuole, che dovrebbero svolgere un ruolo importantissimo a questo riguardo, non agiscano più come dovrebbero”; questo perché “pensano a quello che viene proiettato al cinema o in televisione, oppure agli schermi dei social network, e questo è un tratto prettamente moderno”. Per invertire la rotta, avverte de Benoist, servirebbe guardare al passato e riscoprire il senso di appartenenza, solo così si può guardare al futuro “Con la prospettiva di sapere che siamo gli eredi di qualcosa di grande”.
(Valentina Simonetti, ilSussidiario.net, 11 maggio 2023)