Minima Cardiniana 420/3

Domenica 28 maggio 2023, Pentecoste

POLITICA E POLITOLOGIA
INEVITABILITÀ DI UNA RIVOLUZIONE
di Bruno Bosi
La storia dell’umanità è un continuo susseguirsi di eventi determinati dalla contrapposizione tra le pretese dei dominatori e le aspirazioni dei dominati. Il progresso sta nella realizzazione delle aspirazioni dei dominati a condizioni di vita migliori. Il declino sta nell’inasprimento delle condizioni imposte dai dominatori. Oggi siamo indubbiamente in una fase di declino.
“Fine della storia”, come qualcuno aveva erroneamente previsto come conseguenza della caduta del muro di Berlino, poteva più saggiamente essere riferita alla soluzione globale dei bisogni economici. La scarsità di risorse, che da sempre è stata la causa della violenza e delle guerre, per la prima volta non è più il problema dell’umanità: lo è, invece, la disuguaglianza nella distribuzione. Quindi la storia non è finita, è cambiata, deve dedicarsi all’applicazione dei princìpi universali di giustizia ed uguaglianza anche nella distribuzione dei diritti economici sociali e culturali, come è già avvenuto, almeno formalmente, per i diritti civili e politici. Una volta che si è accettata l’uguaglianza nella distribuzione dei diritti politici, è dalla mancanza di giustizia nel riconoscimento dei diritti economici e sociali che nascono tutte le tensioni della nostra epoca. Anziché inseguire il mito della crescita eterna, che poteva avere un senso fino a quando perdurava la scarsità di risorse, finalmente potremmo dedicarci alla tutela dell’ambiente e alla diffusione dei valori universali di giustizia e uguaglianza. Sono gli unici accettabili da tutti, e pertanto potenzialmente in grado di portare al progresso nelle relazioni tra umani, passaggio indispensabile, per realizzare l’aspirazione ad un futuro migliore comune a tutta l’umanità.
Gli aspiranti dominatori sono sempre esistiti, sono diventati dominatori, poi sono stati travolti dalle umane aspirazioni ad un futuro migliore, infine sono rinati sotto sembianze diverse, ma la sostanza non è mai cambiata: dominatori che vivono a spese dei dominati. I dominatori sono sempre una piccola minoranza, mantenerli nell’ozio e nel lusso da un punto di vista economico sarebbe possibile ma non giustificabile da un punto di vista politico in una società di uomini liberi, non schiavi. La strategia per tenere sottomessi i popoli è sempre stata di mantenerli in uno stato precario di sussistenza. È una forma di decadenza delle relazioni che viene da lontano. In tutte le epoche si sono formate alleanze a sostegno degli egoismi individuali di chi disponeva dei mezzi per avanzare una pretesa di dominio. Un’ alleanza è un patto, anche non espresso formalmente, tra due o più parti, per raggiungere un fine comune. Il sostegno è sempre stato trovato in un’entità extra terrena: religiosa, ideologica o virtuale ma basata sulla fede. Nei tempi più lontani consisteva nell’omologazione del rapporto individuo-sacro, con l’istituzionalizzazione delle religioni, trasformate in strumenti a sostegno del potere politico; per secoli la ricompensa per l’accettazione delle ingiustizie nella distribuzione del benessere materiale era rimandata al paradiso, ma era concretamente imposta da regole che giustificavano soprusi fino al punto di minacciare la sicurezza o il diritto alla vita. Pensiamo all’antico Egitto, alla quantità di ricchezza destinata allo splendore di monumenti destinati all’eternità, ma pensiamo anche ai sacrifici di chi ha dovuto costruirli. Poi c’è stato l’abbaglio di valori disgreganti per la comunità umana globale che venivano convogliati nei nazionalismi e nella politica di potenza, perseguendo obbiettivi che poco o nulla avevano a che fare con la qualità della vita di chi doveva lavorare o combattere. Oggi siamo in una situazione di volutamente indecifrabile confusione tra potere virtuale del denaro, riconosciuto con un atto di fede, e potere politico, che comporta una fase di decadenza destinata a sfociare in un crollo, poi in un’inevitabile transizione che si cerca inutilmente di rinviare. La promessa che dava forza a questo sistema, la possibilità per tutti di arricchirsi, è smentita dalla realtà di un impoverimento per la stragrande maggioranza dell’umanità. Il risultato è una concentrazione di ricchezza e di potere, che presuppone una continua diminuzione del costo del lavoro, con un livello di disuguaglianza che non ha uguali nella storia dell’umanità, e porta al declino della nostra civiltà. Un ritorno ai tempi dove le disuguaglianze, politiche ma che diventavano anche economiche, non conoscevano limiti, mentre oggi sono le disuguaglianze economiche illimitate che diventano anche politiche. Sulla carta questo non è possibile in quanto i diritti politici sono riconosciuti uguali per tutti, e pertanto le decisioni prese a maggioranza sono in grado di cambiare il corso degli eventi che attualmente sono in favore di una piccolissima parte dei consociati. Ma la volontà dei consociati è condizionata dall’incessante bombardamento mediatico volto a divulgare il pensiero unico per un’omologazione che ormai ha raggiunto la sfacciata pretesa di unanimità nell’accettazione di assurdità come la guerra o la pandemia.
Il fatto che in questo percorso di declino, dovuto alla rinuncia alle capacità critiche, ci siano ai primi posti i cittadini dei paesi occidentali, i più ricchi e i più apparentemente liberi, non è un buon esempio per chi proviene dai paesi emergenti. I grandi movimenti migratori, che sono solo all’inizio e sono causati dal nostro sistema a capitalismo finanziario liberista, prima subìto poi imposto da noi occidentali al resto del mondo, sono guidati dall’illusione che da noi i problemi siano stati risolti. La realtà è diversa, noi occidentali non ci lamentiamo, perché una volta fatto nostro il pensiero unico, siamo rassegnati al declino, alla rinuncia ai diritti conquistati nel secolo scorso, alla rinuncia ad un futuro migliore. Nella presunzione di essere ancora dei privilegiati, difendiamo con accanimento i nostri declinanti privilegi e ci accontentiamo della soddisfazione di vedere che gli altri stanno ancora peggio di noi. Nel frattempo i dominatori che si trovano al vertice della piramide ci stanno relegando tutti – occidentali che stanno diventando poveri e poveri che lo sono sempre stati – nel grigiore e nell’appiattimento della sterminata base della piramide.
Dobbiamo trovare il modo di contrastare la rassegnazione al declino imposta dal pensiero unico, e subito ne scaturisca l’azione politica. Guardando alle esperienze delle società del passato, vediamo che quando un sistema è entrato in crisi, la soluzione, più che da un ravvedimento di chi ha contribuito alla crisi, è stata portata dal contributo di forze nuove che venivano da fuori o che non erano tenute in considerazione fino a quel momento. Se vogliamo controllare in qualche modo i flussi migratori dobbiamo fare in modo che la ricchezza che oggi va alla finanza sia diretta a migliorare le condizioni di vita di chi vive in paesi dove ancora si muore di fame o di violenza. Per chi proviene da questi paesi non è possibile rassegnarsi a un ulteriore declino. Questo potrebbe essere il ruolo che oggi possono giocare i paesi emergenti e gli immigrati se si riesce a trovare una cooperazione con i dominati dei paesi occidentali. Per arrivare a questo ci vogliono il realismo e la saggezza di ammettere che in una società per molti aspetti già globale non esiste più un esterno su cui scaricare i problemi. Applicare la saggezza nella strutturazione delle relazioni sociali è la missione delegata alla politica. Saggezza che va cercata nella semplicità, in alcune regole elementari alla portata di tutti i comuni cittadini che al contrario vengono allontanati dalla politica da una pretestuosa complessità volta a giustificare assurdi meccanismi, creati per legittimare le pretese di sopraffazione dei più forti. Molte di queste assurdità vengono espresse con l’anglo-digitale per essere incomprensibili, per non essere oggetto di riflessione da parte dei cittadini. L’aspirazione a un futuro migliore, il motore del progresso di ogni civiltà, si scontra con le condizioni imposte dai dominatori e divulgate dai mezzi di informazione come paradigma dominante. Iniziamo col chiederci che cosa significa paradigma, una parola usata e abusata per disinformare. Serve per fare accettare acriticamente il garbuglio di miti, paradossi e assurdità che insieme contribuiscono o costituiscono le relazioni del modello dominante: un 1% di dominatori e un 99% di dominati. Oggi il paradigma, una parola derivante dal greco antico, si indica anche con un neologismo anglo-digitale: “mainstream”. Entrambi sono usati per dare un senso di fatalità, che diventa normalità, a una società dove esistono disuguaglianze eccessive. Il paradigma è una visione della realtà, una tra le tante, che a un certo punto riesce ad imporsi sulle altre. Se riconosciuta dalla comunità scientifica, che a sua volta deve essere riconosciuta come tale, fornisce un giudizio sempre opinabile, che si pretende razionale cioè inopinabile, e assume il valore di una rivoluzione scientifica diventando normalità. A quel punto deve essere accettata senza tener conto dell’origine storica e sociale, una fatalità. Il paradigma porta con sé l’accettazione, la sottomissione, la rassegnazione a un punto di vista che pertanto deve essere subìto. Si accetta un paradigma inconsapevolmente, ci si lascia incanalare da forze occulte in un percorso del quale non si conosce la destinazione se non come rassegnazione o accettazione passiva del declino. Il paradigma è un mito che si vuole divulgare dandogli una veste di normalità fatta passare per razionalità. Il mito è una rappresentazione tendenziosa della realtà che, proposta e imposta da un’élite economica, politica o intellettuale, viene accolta con un atto di fede. È una visione essenzialmente conservatrice che persegue l’immutabilità delle gerarchie nelle relazioni sociali: conservare i privilegi acquisiti. Oggi il perno sul quale si fonda il mito dominante o paradigma è il riconoscimento della funzione di riserva di valore attribuita al denaro. Col denaro tutto è possibile, senza denaro tutto è impossibile: ne consegue che tutti devono inseguire il denaro. Il denaro diventa importante soprattutto per chi non ne ha, inseguire il denaro diventa la razionalità di qualsiasi azione umana. Un potere eterno e illimitato attribuito al denaro, per nascondere lo status di dominatore, pure illimitato nel tempo, di chi ne ha la disponibilità. Togliendo la funzione di riserva di valore eterno per il denaro, sottoponendolo a una scadenza, tutto andrebbe a posto automaticamente, con la conseguente moderazione nella bramosia di denaro, l’accettazione di un limite all’accumulo, pur nel rispetto della disuguaglianza delle capacità individuali. La funzione di riserva di valore, attribuita al denaro accumulato, è solo virtuale perché destinato a restare inutilizzato in quanto, come ricchezza, non può rientrare nell’economia reale, mentre rientra nella società come potere politico, occulto, dei dominatori. Attribuisce a questi il potere di appropriarsi di una parte sempre più grande della ricchezza reale prodotta nell’ultimo ciclo produttivo, andando a restringere la parte che rimane per chi lavora. Queste ingiustizie sono presentate come fatalità da subire con rassegnazione, giustificate dal politicamente corretto, da formule matematiche, dall’interpretazione fuorviante di dati statistici. Basti pensare che la valutazione delle comunità statali si attua in base a due indici principali: tasso di crescita del PIL e tasso di urbanizzazione. Il tasso di urbanizzazione indica lo spostamento o deportazione della popolazione a vivere nelle periferie delle grandi città in condizioni di miseria, che significa aggiungere povertà spirituale alla povertà materiale già vissuta nelle aree rurali di provenienza. Ma il culmine dell’assurdità consiste nell’uso che si fa del valore nominale del PIL: lo si divide per il numero degli abitanti ed abbiamo il PIL pro capite! Non c’è alcun riferimento alla reale distribuzione della ricchezza della comunità. Nemmeno nei paesi che si pretendono a democrazia avanzata, dove il capitalismo neoliberista ha prodotto un livello di disuguaglianza che non ha precedenti nella storia dell’umanità.
Se queste patologie della convivenza civile diventano la normalità, il modello dominante – o, come si dice oggi il nuovo paradigma –, diventano difficili da curare. Queste assurdità, assieme alla prospettiva di future pandemie, di una guerra nucleare e di disastri ambientali come ci prospettano o minacciano gli attuali dominatori, ci fa ritenere che siamo giunti alla fine di un ciclo alla quale dovrà seguire un’inversione di tendenza. Il sistema attuale ci ha condotti in un vicolo cieco, un circolo vizioso che è destinato a soffocare l’economia e a crollare insieme a questa. Se vogliamo evitare il crollo, una situazione di pericolo per tutti, dobbiamo intervenire con decisione ed eliminare quelle istituzioni che impediscono la coesione tra consociati di una società che tende al globale. Istituzioni che erano state create per garantire libertà, sicurezza e felicità ma che col tempo sono diventati strumenti per difendere privilegi che sono utilizzati per dividere, per creare invidia e conflittualità tra le varie categorie che compongono la base sterminata dei dominati. “Dividi ed impera” è da sempre il motto dei dominatori. Marx, il pensatore giustamente più odiato ed altrettanto giustamente più amato, aveva detto: “Proletari di tutto il mondo, unitevi”. Sembra, però, che il messaggio sia stato raccolto dai dominatori. I dominatori dominano perché hanno messo da parte ogni distinzione di razza, nazionalità, fede politica e religiosa e sono uniti solamente dalla volontà e possibilità di controllare i grandi flussi di denaro con una strategia globale. I dominati sono divisi su tutto, si fanno dettare l’agenda dai dominatori, non prendono mai l’iniziativa. Portano avanti polemiche interminabili come comunismo e anticomunismo, fascismo e antifascismo, poi si dividono in sì-vax e no-vax, poi in pro-Russia e pro-Ucraina ecc. Una presa di coscienza della condizione di dominati comune al 99% degli umani significherebbe rivoluzione. Una rivoluzione pacifica, in quanto la controparte è insignificante sia come numero che come consistenza: basterebbe voltargli le spalle. Come avvenuto ai tempi della Rivoluzione francese per chi difendeva i privilegi della nobiltà o, più recentemente, con i burocrati che dominavano i regimi comunisti. Perseguire un sistema sostenibile sia da un punto di vista ambientale, sia di pacifiche relazioni coi nostri simili è un’assunzione di responsabilità nei confronti delle generazioni future. La conquista avvenuta nel secolo scorso dell’uguaglianza dei diritti politici ci consente di imporre una svolta rivoluzionaria senza ricorso alla violenza. Mettere da parte la conflittualità tra i partiti funzionale solo alla bramosia di potere dei capi partito che hanno ridotto il potere politico dei cittadini alla stregua del tifo calcistico. Un leader politico deve unire e non dividere. Deve trovare obiettivi condivisibili da una larga maggioranza finalizzata a raggiungerli in tempi brevi. Poi questa maggioranza potrà sciogliersi e se ne formerà un’altra su altri obiettivi. Per questo metodo è preferibile la forma del “movimento” rispetto a quella del partito. La fedeltà eterna a un partito non ha più ragione di esistere, impedisce alla democrazia di funzionare, è una contrapposizione fine a se stessa mentre il metodo democratico è la ricerca di soluzioni condivisibili.
Un supporto per muoverci in questa direzione lo possiamo trovare nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, subito dopo aver toccato il fondo con gli orrori della seconda guerra mondiale, che rimane il punto più alto raggiunto dalla nostra civiltà, valido ancora oggi come allora. La Dichiarazione sostiene esplicitamente che non può esistere libertà, intesa come uguaglianza dei diritti civili e politici senza gerarchie prestabilite, se non c’è anche uguaglianza e giustizia per i diritti sociali economici e culturali. I cinque diritti (civili, politici, sociali, economici e culturali) erano inseparabili e complessivamente dovevano rappresentare la garanzia di dignità che doveva essere riconosciuta a tutti gli appartenenti alla comunità globale. In fase di ratifica sono stati divisi in due trattati separati: uno per i diritti civili e politici e un altro per i diritti sociali economici e culturali. Il primo è stato divulgato e ha portato all’abolizione del colonialismo. Oggi viene strumentalizzato per giustificare l’intromissione dei paesi più forti negli affari interni di altri paesi col pretesto di esportare la democrazia. Il secondo non ha avuto nessun seguito, e questo rende impresentabile la democrazia che l’Occidente pretende di imporre al resto del mondo. Dobbiamo imporre ai delegati politici di ripartire dalla DUDU e considerare i cinque diritti inseparabili, oppure aspettare rassegnati a che ciò avvenga nel prossimo dopoguerra.