Minima Cardiniana 421/2

Domenica 4 giugno 2023, SS. Trinità

IL “CASO” FAZIO E ANNUNZIATA
MA L’EGEMONIA CULTURALE È UNA COSA SERIA
di Massimo Weilbacher
Il baccano, un po’ sguaiato e un po’ paradossale, scatenato dalle prefiche di sinistra che dopo avere occupato spietatamente e per anni poltrone, sedie, sgabelli e strapuntini in RAI e altrove si sentono defraudate dallo spoil system della destra al governo ripropone, anche se in modo farsesco, un tema molto rilevante, quello dell’egemonia culturale nella società.
Come al solito la situazione è grave ma non seria: scomodare il pensiero di un gigante come Antonio Gramsci per commentare il destino (sempre ben retribuito) di un Fazio o una Littizzetto o la stizza di una Annunziata (anche lei abilissima a cascare sempre in piedi) fa ridere i polli, ma il tema – depurato da questi aspetti farseschi – merita qualche riflessione.
Va detto, innanzitutto, che la vera egemonia culturale della sinistra o per meglio dire l’egemonia della cultura marxista/comunista – quella teorizzata da Gramsci e realizzata da Togliatti nel dopoguerra reinterpretandone il pensiero reso funzionale ai suoi obiettivi politici – non esiste più da anni.
L’epoca degli intellettuali organici, quelli che secondo Gramsci dovevano essere “i commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico” è tramontata da tempo insieme all’ideologia che li animava lasciando al suo posto un evidente degrado sottoculturale.
I mediocri intellettuali politicamente corretti di oggi sono lontani anni luce – per capacità, serietà, preparazione, spessore culturale – dai loro predecessori del dopoguerra molti dei quali, approdati al PCI dopo essersi formati gentilianamente nel GUF fascisti, avevano occupato e dominato per anni tutti i campi della cultura italiana.
Non solo quelli più utili alla politica, come la storia, la filosofia o anche l’economia, ma proprio tutta la cultura nazionale, dalla critica letteraria all’editoria; dalla storia dell’arte all’arte stessa; dal cinema alla letteratura, al teatro, alla musica e così via.
Figure come, citando a caso i primi che vengono in mente, Natalino Sapegno, Alberto Asor Rosa, Giulio Einaudi, Giulio Carlo Argan, Gillo Pontecorvo, Carlo Lizzani, Gianmaria Volontè, Elsa Morante, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Renato Guttuso, Ernesto Treccani e si potrebbe continuare ancora per molto.
Oggi quella cultura autenticamente egemonica non esiste più, e di storiografia marxista o critica letteraria marxista si parla solo in termini rievocativi o di ricostruzione storica, a parte i pochi giapponesi rossi che rifiutano di arrendersi alla realtà.
Ciò che ne è rimasto ed è arrivato fino a qui è solo la sua degenerazione, la damnosa hereditas che ancora intossica la cultura nazionale: un sistema di potere invasivo, settario, conformista e autoreferenziale capace di condizionare il dibattito pubblico e, soprattutto, abilissimo nell’occupare senza scrupoli ogni posizione rilevante nelle redazioni, nelle università, nelle case editrici, nei media, nelle scuole emarginando chi non fa parte della congrega omologata.
Una sorta di massoneria di sinistra o anche di fenomeno paramafioso: chi fa parte del clan lavora, fa carriera e si arricchisce, gli altri possono scegliere se omologarsi o fare la fame e cambiare mestiere. È questo che l’intellighenzia di sinistra e i suoi fiancheggiatori dei salotti radical chic stanno difendendo con i loro schiamazzi: un ben collaudato e sino ad ora intoccabile sistema di potere fonte di privilegi, fama, guadagni, prebende e favori.
Giorgia Meloni si è posta, senza mezzi termini, l’obiettivo di cancellare questa soffocante ipoteca culturale, ma per farlo non basta certo sostituire un sistema di potere con un altro uguale e contrario, far sedere gli amici sulle poltrone occupate dai nemici.
Come ha perfidamente rilevato Massimo Giannini, pessimo direttore de La Stampa, in una sorta di maldestra apologia dell’egemonia della sinistra “L’egemonia culturale non si costruisce dalla mattina alla sera”, come dire che se la cultura di sinistra è egemone è perché quella di destra è assente e magari nemmeno esiste.
Un vecchio luogo comune del tutto infondato che proprio l’insipienza della destra ha contribuito ad alimentare. Il rapporto tra destra politica e destra culturale è sempre stato assai problematico, caratterizzato sin dalle origini da reciproca diffidenza e insofferenza se non vera e propria ostilità.
Basti pensare alla vicenda dei cosiddetti “Figli del Sole”, il gruppo che costituì il primo nucleo del Raggruppamento Giovanile Studenti ed Operai, l’organizzazione giovanile del neonato Movimento Sociale.
Ispirati direttamente da Julius Evola, che aveva scritto per loro “Orientamenti” (che costituirà il nucleo fondamentale de “Gli uomini e le rovine”) e “Rivolta contro il mondo moderno”, animavano da posizioni non ortodosse e con grande seguito il dibattito politico-culturale del tempo attraverso le loro riviste “Imperium” e “La Sfida”.
Il partito, però, sotto la segreteria De Marsanich si orientava verso posizioni moderate, conservatrici e filoamericane (corsi e ricorsi, ma almeno allora c’era l’attenuante della Guerra Fredda) in funzione anticomunista e trascurava quasi completamente ogni elaborazione culturale, limitandosi alla generica e vuota propaganda patriottica e/o reducistica considerando con fastidio e diffidenza le “inutili elucubrazioni” dei giovani.
I quali giovani delusi dallo sviluppo degli avvenimenti, privi di reali prospettive all’interno del partito, lontani dalla linea politica prevalente e non condivisa, negli anni successivi di divideranno e disperderanno abbandonando quasi tutti la politica attiva per ripiegare sulla vita professionale o per intraprendere nuovi percorsi di ricerca culturale.
Non molto diverse sono le vicende di fine anni ’70, quando la cosiddetta “generazione Campo Hobbit” agita le acque stagnanti della cultura di partito proponendo elaborazioni nuove ed originali che tentano di superare i vecchi schemi, scoprendo autori come Alain de Benoist e avvicinandosi a fenomeni come la Nouvelle Droite.
Anche in quel caso, però, la risposta politica del partito fu di chiusura totale: Gianfranco Fini fu nominato d’autorità segretario nazionale del Fronte della Gioventù e Marco Tarchi espulso con un pretesto. Una scelta sciagurata le cui conseguenza si fanno sentire ancora oggi.
Nemmeno la Meloni e il suo cerchio magico hanno mai dimostrato grande feeling con la cultura di area, in genere ignorata e guardata con sufficienza, salvo qualche eccezione funzionale agli obiettivi del momento.
I quadri di FdI, oramai assurti a responsabilità di governo, hanno sempre considerato poco utile il dibattito culturale animato da “intellettuali con la puzza sotto il naso” occupati in “masturbazioni mentali”, in pratica lo stesso atteggiamento di De Marsanich nel 1950, ma espresso in modo meno elegante.
La insufficiente elaborazione culturale si riflette ovviamente nelle scelte: non sono solo le contingenze politiche e i necessari compromessi con l’establishment, nostrano e d’importazione, a produrre una legge finanziaria da far invidia a Draghi, una politica estera atlantista esageratamente servile e prona agli interessi americani (pur riconoscendo che il consenso dell’amico amerikano è indispensabile), politiche sociali ispirate da un liberismo di seconda mano malamente digerito. O anche polemiche inutili e puerili come quella sulla difesa dell’etnia.
Il tempo ci dirà se la destra di governo, cambiando registro, sarà in grado di gestire una vera e solida politica culturale o se si sarà solo limitata a far ruotare poltrone e strapuntini, con il rischio di restare subalterna e di non essere in grado di difendere la posizione, come già avvenuto in passato.
È difficile, però, non essere d’accordo con Marco Tarchi: “La Meloni liquiderà il passato della destra con una dolce morte” e con essa il suo ricco patrimonio culturale.
(Destra.it, 1 giugno 2023)