Domenica 18 giugno 2023, San Calogero
E, PER PARLAR DI COSE UN PO’ PIÙ SERIE…
L’INVENTARIO DELL’EREDITÀ DI BERLUSCONI E LE DESTRE
di Marco Tarchi
Tracciare un bilancio del ruolo che Silvio Berlusconi ha esercitato nelle vicende della destra italiana non è un compito così semplice come potrebbe apparire a prima vista. Per molti di coloro che si sono cimentati in questo compito, la sua funzione essenziale si può ridurre all’insolito aggettivo “sdoganatore”, che richiama le conseguenze dell’esternazione a favore della candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma, nel dicembre 1993, con cui si aprì un fulmineo processo di riammissione nell’area della legittimità governativa di un partito che, per le sue connotazioni neofasciste, ne era stato escluso sin dalla nascita. E non c’è dubbio che l’apertura al Msi, compiuta all’unico scopo di non lasciare da parte nemmeno uno dei voti necessari a sbarrare la strada al successo del fronte progressista nelle successive elezioni legislative – le prime svolte con un sistema prevalentemente maggioritario, che obbligava a costituire coalizioni quanto più larghe possibile –, è stato uno degli aspetti salienti dell’azione politica berlusconiana. Che è ben lungi, però, dall’esaurire l’inventario dell’eredità, controversa e ingombrante, che il Cavaliere ha lasciato al campo su cui non ha mai smesso di cercare di esercitare la sua egemonia.
Berlusconi e la destra
A Berlusconi la destra italiana infatti deve, prima di tutto, la rivelazione della propria esistenza – e consistenza – all’opinione pubblica di un paese che era stato abituato, dal 1948, a considerarsi politicamente diviso esclusivamente in sinistra e centro, pilastri del “bipolarismo imperfetto” descritto da Giorgio Galli. Fino al suo ingresso sulla scena, alla parola destra si accompagnava, nel senso comune, un’immagine di obsolescenza e marginalità, che tutt’al più rimandava alla stagione dei Cavour, dei Bettino Ricasoli e dei Quintino Sella, oppure evocava la nostalgia per pagine ormai chiuse della storia nazionale, come la monarchia e il fascismo. L’effetto respingente del vocabolo era così temuto che non solo la Democrazia cristiana evitava di farne uso, ma persino i liberali se ne tenevano a debita distanza, rifiutando ogni connubio con monarchici e missini, unici ospiti di quello sgradito ghetto. Grazie a quel tabù, la Dc aveva potuto incassare ad ogni tornata elettorale i dividendi della paura del comunismo diffusa in larghi strati della popolazione senza scalfire la propria immagine di “forza di centro che guarda a sinistra”, per dirla con il lessico inaugurato da Alcide De Gasperi.
Quello status quo, che neppure il terrorismo brigatista e il compromesso storico avevano scalzato, subì però l’improvviso scossone di Tangentopoli, che fece della forzata esclusione del Msi dai benefici del sottogoverno una patente di estraneità ai circuiti della corruzione e consentì al partito della Fiamma di eleggere sindaci in molti comuni e contendere il successo al cartello progressista in metropoli come Napoli e Roma. Il patron di Fininvest e Publitalia fu lesto a capire come stavano mettendosi le cose. Dc e Psi, verso cui si erano in precedenza indirizzati i suoi favori di moderato angustiato dal “pericolo rosso”, erano ormai avviati sul viale del tramonto e per battere le sinistre occorreva abbattere lo steccato dell’Arco costituzionale e fare dei neofascisti dei partecipanti a pieno titolo al gioco del potere.
Il bipolarismo
La mossa aveva un mero carattere tattico e opportunistico, ma gettava le basi di un bipolarismo di nuovo conio, che metteva ai margini del sistema quel centro che lo aveva sino ad allora dominato. Il puzzle si poteva comporre solo sottraendo all’ex Dc l’ala conservatrice e addomesticando la Lega di Umberto Bossi, che con “i fascisti” non era mai tenero. L’espediente della coalizione a due facce – con i missini al Sud e con i leghisti al Nord – riuscì, almeno all’inizio, nell’azzardata scommessa, anche se la rapida defezione della componente padana obbligò per alcuni anni Berlusconi ad uscire dai panni del mediatore fra alleati che si guardavano in cagnesco e, pur rafforzando la sua figura di padre-padrone della coalizione, gli impose una convivenza non sempre facile con partner indocili e, soprattutto nel caso di Fini, ambiziosi e desiderosi di succedergli nel ruolo di leader. Come le cose siano andate su questo versante, è cosa nota.
Lo spostamento a destra del Polo delle libertà e dei suoi succedanei non fu subìto passivamente da Berlusconi, come molti suoi avversari hanno sostenuto. Vero è che all’inizio la sua posizione non era abbastanza forte da consentirgli di imporre al Msi quella profonda revisione ideologica che gli avrebbe fatto comodo per guadagnare credito a livello internazionale e sbiadire quell’immagine di Cavaliere Nero che i media ostili si affrettarono a proiettare. Tuttavia, il repentino traghettamento nell’area di governo spinse gli alleati a un sia pur improvvisato e parziale maquillage, con tanto di cambio di nome, destinato a rafforzare progressivamente un processo di accettazione dei principi democratici che peraltro da tempo aveva messo radici nel ceto parlamentare missino. E negli anni successivi Berlusconi, che già nel 1976 aveva finanziato la scissione di Democrazia nazionale con cento milioni di lire (poi recuperati), tentò in più modi di suscitare una conversione moderata dei talvolta imbarazzanti compagni di viaggio.
La rivista Ideazione
Ci provò in ambito culturale, lanciando una rivista (Ideazione) diretta proprio da un ex missino, Domenico Mennitti, e inviando in missione in un convegno organizzato in comune la pattuglia dei “professori di Forza Italia”, Lucio Colletti e Saverio Vertone in testa, ma senza successo. Ritentò con una provocazione di taglio più politico, distribuendo a migliaia di partecipanti ad un’assemblea organizzativa di Alleanza nazionale Il libro nero del comunismo appena sfornato dalla “sua” Mondadori, per sbarrare la strada al tentativo di Fini di entrare in dialogo diretto con D’Alema sulle questioni della riforma istituzionale. E continuò a farlo con un lavorio costante di attrazione e seduzione di singoli esponenti del partito alleato e rivale, finalizzato ad aprire la strada alla fagocitazione di An nel Popolo delle libertà: trappola in cui Fini non avrebbe voluto cadere, ma che i suoi “colonnelli” finirono per fargli digerire sotto la velata minaccia di passare dalla parte dell’uomo di Arcore.
Il populismo
Chi accusa Berlusconi di avere, con l’apertura al Msi, delegittimato i fondamenti antifascisti della Repubblica e aperto la strada ad una “banalizzazione” dell’esperienza mussoliniana funzionale ad una sua successiva e surrettizia rivalutazione, sottovaluta questo lato della vicenda, che per oltre quindici anni ha portato alla compressione degli umori ribellistici e antisistemici da sempre presenti nella base missina. Ad una destra abituata ai toni tribunizi di Giorgio Almirante, nel momento della massima popolarità del pool Mani Pulite, si era spinta ad assediare simbolicamente il parlamento plaudendo all’opera igienica dei magistrati milanesi, e rischiava di fare da coagulo dei sentimenti di vendetta anti-casta dilaganti nella società civile, l’imprenditore milanese che amava dichiararsi “prestato alla politica” impose il linguaggio assai meno drammatico di un populismo qualunquista, fatto di ammiccamenti ai pregi e ai vizi dell’uomo della strada, di difesa della routine piccolo-borghese dall’insicurezza e dall’“invidia dei comunisti” e non certo dei sogni di un assalto al quartier generale dell’intellighenzia di sinistra che qualche impaziente seguace del “gramscismo di destra” si ostinava a coltivare.
La destra e il dopo Berlusconi
Oltre, e forse più, che come sdoganatore e catalizzatore, Silvio Berlusconi andrebbe dunque forse considerato come l’addomesticatore di un’area politica che, anche per suo merito o colpa, non si è mai potuta dare, fino a quando la sua figura ne ha dominato la scena, un’identità in positivo, un profilo ideologico-culturale coerente, un progetto che andasse oltre il rifiuto di ciò che, di volta in volta, la sinistra proponeva. Non è un caso che solo quando la fulminea ascesa dello spread e la defezione finiana lo hanno obbligato a cedere il timone del governo a Mario Monti, destinandolo al declino, alcuni dei tratti dell’identità profonda della destra italiana che la sua leadership aveva offuscato, se non addirittura neutralizzato, siano ritornati a galla, sia pure in modo frammentario e con gli adeguamenti che il contesto dell’epoca impone. La decisa opposizione di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini a molte proposte ispirate ai principi del politically correct – che trovano tutt’altra accoglienza in esponenti di Forza Italia come Mara Carfagna (ora ex) – è un evidente indizio che per la destra l’ora del dopo-Berlusconi è definitivamente suonata.
BERLUSCONI, L’UOMO CHE HA DESACRALIZZATO LA POLITICA. FIN TROPPO
di Andrea Lavazza
C’è chi in queste ore lo ha ricordato come il leader che ha cambiato la politica focalizzando tutto sul fare e non sulle chiacchiere. E chi – come Diego Motta ieri su Avvenire – ha spiegato che in realtà Berlusconi stesso era il messaggio elettorale, senza bisogno di altro. Certo, le mirabolanti promesse, a partire dal milione di posti di lavoro, hanno segnato la parabola pubblica del fondatore di Forza Italia, ma quello che gli va senz’altro ascritto è l’approccio distruttivo-creativo al processo politico inteso nel senso più ampio. Non gli è riuscito di costruire una Seconda Repubblica dal punto di vista delle riforme istituzionali – come ha ricordato martedì Marco Tarquinio –, dove ha invece dato un’impronta decisiva è stato nello smantellare la “sacralità” di tutti i riti che accompagnavano la selezione dei rappresentanti del popolo e l’esecuzione del loro mandato.
Il messaggio della discesa in campo inoltrato via videocassetta a tutte le tv oggi appare nulla di straordinario. Nel 1994 segnava invece uno spartiacque. La personalizzazione del confronto e la nuova formazione caratterizzata dalla figura del capo, dove tutto può cambiare, se resta presente l’icona in cui i sostenitori possono identificarsi, hanno trovato spazio in uno scenario reso in macerie dal ciclone Mani Pulite.
La filosofia generale del partito-azienda è stata fin dall’inizio quella di contrapporsi agli schemi classici del professionismo politico, primo vero “nemico” di Forza Italia insieme ai “comunisti” che di quel ceto erano l’unica parte rimasta quasi intatta dopo le inchieste giudiziarie. Berlusconi rispose e si sintonizzò su un umore popolare che le sue stesse televisioni avevano alimentato. Le monetine lanciate contro l’amico Bettino Craxi davanti all’hotel Raphaël nell’aprile del 1993 furono una delle premesse su cui poté edificarsi il consenso basato sull’antipolitica, sull’ostilità verso una classe dirigente bollata collettivamente e sbrigativamente come corrotta e obsoleta. Soprattutto giudicata incapace di tenere il passo con la modernità e legata a un mondo autoreferenziale. Ci voleva un homo novus, proveniente dall’imprenditoria, scelto tra coloro che, appunto, fanno e producono; non si perdono in chiacchiere.
In primo luogo, l’idea di disintermediazione totale: non c’è più bisogno di un cursus honorum, di una competenza specifica per essere candidato a un ruolo istituzionale; basta una abilità comprovata in un altro ambito (e poi semplicemente la notorietà di qualunque tipo nella società dei media) per avere un mandato diretto, ottenuto grazie alle emozioni più che razionalmente o ideologicamente motivato. Il leader, pertanto, si costruisce nella sua immagine che travalica gli aspetti “politici” che, anzi, devono essere messi sullo sfondo. In tal modo, ed è il secondo momento di questa rivoluzione, funzionano le vittorie sportive della squadra di proprietà e le barzellette, la ricchezza esibita e i gesti che rompono il rigido protocollo avvicinando colui che ha un ruolo elevato ai cittadini diventati allergici ai formalismi.
Una tendenza che si autoalimenta secondo la regola che la moneta cattiva scaccia quella buona, gli istinti bassi scalzano i tentativi di elevarsi quando non si mantenga lo sforzo verso l’obiettivo più alto. Né d’altra parte, si tratta di un fenomeno che è accaduto nel vuoto, indotto dal solo Berlusconi, se è vero che persino il Papato ha visto una rapida transizione da un pontefice che parla al plurale e viene condotto in portantina a un pontefice che telefona direttamente ai fedeli e tiene in mano la propria borsa salendo la scaletta dell’aereo. Il Cavaliere però ha spinto sul pedale della laicizzazione distruttiva della politica con l’alone della vita privata eccessiva ad allargarsi sull’immagine pubblica, ricorrendo alla gag e allo sberleffo nei vertici internazionali, rompendo il protocollo di cui pensava di non avere più bisogno, rifiutando spesso la divisione dei poteri e degli interessi nel nome di una presunta efficacia dell’azione di governo.
Populismo ante-litteram per l’Europa. Certamente, un modello che è sembrato adatto ai tempi e ha conquistato imitatori grazie ai risultati ottenuti. Può sembrare paradossale affermare che Beppe Grillo, acerrimo oppositore di Berlusconi, che ha sempre ricambiato l’avversione per il M5s, abbia mutuato uno stile ancora più corrosivo verso il sistema liberal-democratico (di qui gli slogan sul Parlamento da aprire come una scatoletta di tonno) proprio dal leader che metteva nel mirino. Eppure, il fondatore di Forza Italia ha dato un contribuito non irrilevante a mettere in moto quella slavina che ancora rotola nel mondo. Nelle stesse ore del suo funerale di Stato nel Duomo di Milano, l’ex presidente americano Donald Trump compariva in un tribunale di Miami per rispondere dell’accusa di avere trattato la cosa pubblica (documenti segreti) come proprietà privata e incitava i propri fautori a ribellarsi alle decisioni dei giudici.
Il tycoon Usa che ha studiato le mosse del magnate italiano prima di entrare in politica forse ricordava l’attacco alla magistratura “politicizzata” quale “metastasi della democrazia” lanciato nel 2008 senza che l’enormità dell’affermazione si ritorcesse contro chi l’aveva pronunciata. Avvelenare i pozzi per ottenere un vantaggio immediato non è un buon servizio alla società e alle generazioni future. Di questa colpa si sono macchiati anche molti altri in questi anni e il declino non solo dell’autorità ma pure dell’autorevolezza dei rappresentati del popolo è da imputarsi al successo di un modello che ha avuto cantori ed epigoni nel giornalismo e nella cultura e si è diffuso da destra a sinistra.
Nella rottura innescata dalla nascita di Forza Italia voluta da Silvio Berlusconi molti vedono l’affermarsi del bipolarismo e una semplificazione dei processi rappresentativi. Questa lettura positiva rischia di oscurare le conseguenze fortemente problematiche che un preciso stile politico continua a produrre.
(Avvenire, 15 giugno 2023)