Domenica 2 luglio 2023, San Liberato Martire
CRISTIANITÀ OVVERO EUROPA, EUROPA OPPURE OCCIDENTE
Avviamo con questo numero dei MC una nuova rubrica, evidentemente ispirata a un noto saggio del poeta Novalis, Christenheit oder Europa. Un titolo che oggi può suonare ironico o ironicamente paradossale: in sé può significare ovvero, ma anche oppure. Novalis non aveva dubbi, aprendo il suo affascinante saggio con un alto elogio dell’età ottoniana; ma noi abusiamo dell’involontaria ambiguità di quel titolo, Christenheit oder Europa, e proponiamo a nostra volta un Christenheit oder Abendland ch’è piuttosto un Europa oder Abenland, nel senso disgiuntivo anzi oppositivo. Ci avete mai pensato alla bellezza inquietante di questa parola “Occidente” in tedesco, “La Terra della Sera”? Non vi ricorda la Terra di Mordor – dove l’ombra cupa scende cara alla vostra adolescenza tolkieniana?
Bene. Sono in troppi ad essere ancora convinti che Europa e Occidente sono la stessa cosa, o quanto meno che l’Europa è parte dell’Occidente. Quell’Occidente lì, che cominciava in America e magari perfino in Australia e fasciava gran parte del mondo (ma fino a dove? Certo erano frontiere mobili. Fino al Don, al Caucaso, agli Urali? E con l’Africa come la mettiamo? E sarà proprio “Occidente” la Spagna? Pensate a Granada…), è roba che è svanita con la prima guerra mondiale: il vecchio Spengler aveva ragione. E poi, rileggetevi Romolo Gobbi, che cavolo: lui lo ha dimostrato bene che quell’Occidente è tramontato. Ne è sorto uno nuovo? Sì, certo, Gobbi ha spiegato anche quello. L’Occidente come patria di ogni libertà individuale, l’Occidente cha ha il diritto alla ricerca della Felicità in questo mondo: la Felicità sua, beninteso, o meglio quella degli happy few membri delle sue più o meno esclusive élites mentre degli altri chissenefrega; l’Occidente della NATO nel quale a detta di Federico Rampini (tanto nomini…) sta per aggregarsi anche l’India, che accetterebbe di fare con USA, Australia e Giappone da quadrilatero anticinese sul Pacifico. Il tutto sulla base d’ipotesi ispirate dal fatto che il presidente indiano ha ricevuto solenni accoglienze durante la sua visita di stato a Washington: come se un fatto del genere non fosse, nell’etichetta diplomatica, assolutamente normale e non fosse segno di un bel niente. Idem per un altro sopraffino ingegno, Paolo Guzzanti, che preconizza il sollecito collasso della superpotenza cinese in quanto la Cina sarebbe stata indebolita, decenni fa, dalla politica demografica di Mao.
Parliamo di cose serie. Gli orizzonti mentali collettivi e le risorse etiche e concettuali europee, se avevano alcuni punti di contatto con gli USA e l’American way of life, ne hanno ormai molto meno: al punto che l’alleanza NATO è ormai divenuta principalmente uno strumento di controllo e di pressione per condizionale gli “alleati” europei, a detrimento di quella sovranità della quale si fa un gran blaterare in giro. Gli interessi statunitensi e quelli europei non coincidono affatto: è dal 2014 che le sanzioni volute dagli USA e accattate dai loro satelliti a detrimento della Russia nuocciono soprattutto a noialtri europei. E lo sappiamo tutti benissimo. Fino a quando continueremo a subire?
C’è poi tutto l’aspetto socioculturale dello iato euramericano che si va allargando. La freedom statunitense, sia declinata a sinistra dai liberals o a destra dai libertarians, resta segnata da un estremismo individualistico che poco ha a che fare con i valori societari e comunitari della freedom britannica, che pure sta alla base di quella americana; e meno ancora con la Liberté illuministica francese, che aveva profonde radici sociali, e meno ancora con le “libertà” (al plurale) tradizionali del mondo comunale italico, le Freiheiten delle Gemeinschaften germaniche, le libertades dei Fueros iberiche, tese tutte a limitare l’arbitrio degli individui più egoisti e arroganti e a valorizzare per contro quel principio solidaristico che ancora è vivo nei popoli e nelle famiglia e in forza del quale il grande Giorgio Gaber poteva lapidariamente affermare “Libertà non è sentirsi liberi – Libertà è partecipazione”, vale a dire solidarietà e collaborazione.
L’Occidente adesso egemonizzato dal New World Order e teso ad affermare il primato degli USA da tempo in crisi – e il cui malessere si esprime nell’ingiustizia e nel disordine sociali, nel permissivismo galoppante associato all’arbitrio repressivo a alla cieca violenza crescente, nel traffico delle armi e della droga, nell’impero del dollaro associato alla frustrazione dei poveri, nella follìa dei nuovi culti parareligiosi e nell’ateismo colorato di superstizione – non ha, nella sua profonda miseria tanto socioeconomica quanto culturale-spirituale, niente da offrire agli europei la tradizione identitaria dei quali poggia sulla valorizzazione della grande storia del nostro continente e sulla sua storica funzione di cerniera tra quell’East e quel West del mondo che secondo Kipling non potranno mai incontrarsi mentre, al contrario, la loro storia dell’ultimo mezzo millennio mostra una grande globalizzazione già avvenuta sul piano materiale e che aspetta una sintesi su quella spirituale.
Cogliamo i segni di questo iter non ancora esplicito eppure preparato da alcuni segni che starà a noi trasformare in effettivi seri valori. L’incontro tra Europa e Asia nella prospettiva eurasiatica è uno di essi.
EURASIA, PIETRA D’INCIAMPO PER IL NEW WORLD ORDER
L’eurasiatismo consiste in una visione della storia che rimarca il mondo multiforme dell’Oriente eurasiatico, inteso non come “periferia” più o meno “barbara” contrapposta alla civiltà occidentale, ma come un’autonoma realtà culturale. Una mappa per capire.
“Si deve parlare di un unico continente, l’eurasiatico: così congiunto nelle sue parti che non è avvenimento di rilievo nell’una che non abbia avuto il suo riflesso nell’altra”: così il grande orientalista, storico delle religioni ed esploratore Giuseppe Tucci. Oggigiorno, specie dopo il fatidico 24 febbraio 2022, le parole “Eurasia”, “eurasiatico” ed “eurasismo/eurasista” sembrano divenute insulti. Cominciamo con qualche considerazione antropologicamente equilibrata e storicamente sensata, riguardante la storia di lungo periodo, divenuta ormai necessaria in questi tempi di public history ma altresì, ohimè, di cancel culture.
Premesso che poche cose nel nostro modo di fare e di concepire la storia sono così pericolose e deleterie della diffusa – e ormai incontournable – abitudine di proporre sempre nuove periodizzazioni (necessarie peraltro, dal momento che talvolta la storia, come dice Aldo Schiavone, “si spezza”), arruoliamoci anche noi un istante nell’armata dei periodizzatori e ripensiamo alla storia contemporanea partendo dall’ormai classica definizione di “secolo breve” da Eric Hobsbawm proposta per il XX secolo, il fatale Novecento, che in realtà si potrebbe a suo avviso far partire dalla sconvolgente ed epocale data del 1914, l’inizio della Prima guerra mondiale, e concludere con il triennio 1989-1991, la scomparsa dell’Unione Sovietica e la conseguente progressiva ridefinizione dell’Europa, dei rapporti fra Oriente e Occidente e insomma del mondo.
In verità, sarebbe forse necessario fare un passo avanti rispetto a Hobsbawm e osare quale ch’egli non ha osato: il disincagliarsi del tutto dagli impacci simmetrico-calendariali dei secoli concepiti per blocchi omogenei di cento anni e cercare nuovi appigli. In questo senso, si dovrebbe forse guardare come momento d’avvio di una Modernità avviata verso la “Lunga Contemporaneità” al lungo tempo della ridefinizione delle istituzioni giuridico-sociali con l’introduzione dei sistemi rappresentativi. Parliamo quindi dell’età che dalla Glorious Revolution britannica giunge sino alla Restaurazione abbracciando gli anni compresi fra 1688 e 1815: un po’ meno di un secolo e mezzo, durante il quale alle rivoluzioni politiche britannica, americana e francese (compresa l’età napoleonica che, piaccia o meno, a quest’ultima ha conferito un senso) e alla fondazione delle nazioni moderne si è accompagnata, a esse inestricabilmente collegandosi, la prima “rivoluzione industriale”. Verso la fine di tale periodo la contrapposizione Oriente-Occidente, convenzionale e in fondo fittizia anch’essa ma piena di denso significato culturale (con tutti gli equivoci del caso), esplose in una specie di follia ossimorica: a causa di, o per colpa di, o grazie a (fate un po’ voi) Napoleone, e per esprimersi usando simboli archetipici schmittiani, la Francia provò a giocare ora la parte del Behemoth continentale europeo (e anche eurasiatico, viste le velleità di coinvolgimento di Russia e Turchia) assediando con il “Blocco Continentale” il Leviathan britannico signore degli Oceani, e quindi assumendosi il carico della leadership orientale in funzione di una lotta all’Occidente rappresentato dall’Inghilterra che Ugo Foscolo con geniale faziosità definisce “l’Anglia avara”; ora (cioè subito dopo) quella ben più utopistica e velleitaria della leadership occidentale contro la “barbarie sarmatica” dell’impero zarista. Poco più di un secolo dopo, in modo ancor più folle, la hitleriana “Operazione Barbarossa” si sarebbe illusa di poter azzerare gli esiti che si stavano rivelando infelici della guerra intereuropea avviata nel settembre del ’39 – dove anche a causa del trattato di non-aggressione Ribbentrop-Molotov, sembrava potersi figurare un nuovo fronte eurasiatico, quindi “orientale” – e di proporre se stesso a capo di una “Santa Lega” occidentale – e addirittura crociata – contro il comunismo ateo. Ciò configurava da parte del Führer una sterzata, addirittura un “rovesciamento delle alleanze”, simile a quella di Napoleone che, assalendo la Russia zarista nel 1812, si era rimangiato la politica dell’equilibrio continentale europeo impostata con la pace di Tilsit del 1807 e col trattato di Schönbrunn del 1809.
Ma non si può certo parlare, almeno nei tempi lunghi, di un totale fallimento delle prospettive napoleoniche. Al contrario. Sia pure ripudiando la sua tirannia – che d’altronde lasciò una lunga scia di nostalgismo politicamente fecondo –, l’Occidente abbracciò da allora con decisione il sistema liberistico da lui pragmaticamente promosso e protetto che, intrecciato alla morale calvinista (e ai suoi presupposti individualisti e razzisti), sarebbe divenuto anche, mutatis mutandis, l’asse portante del liberismo statunitense.
La fase successiva, procedendo con la gabbia cronologica della periodizzazione, sarebbe da individuare in un vero e proprio “secolo brevissimo”, dalla Restaurazione alla guerra franco-prussiana del 1870 con il precedente dell’apertura del canale di Suez del ’69 e della fondazione e la conseguenza della fondazione del “Secondo Reich” germanico e della Terza Repubblica francese. Tale fase, caratterizzata dalla contrapposizione, all’interno del fronte dei vincitori del Bonaparte, tra un’“alleanza liberale” francoinglese e una “coalizione reazionaria” dei tre imperi centrali, s’infranse per volontà della regina Vittoria la quale considerava intollerabile che il canale di Suez scavato su progetto e per impulso francese si proponesse a gestore della “via diretta” tra Gran Bretagna e India turbandone il progetto imperiale interoceanico.
S’inaugurò in tal modo – nel 1870, non già nel 1914 secondo la proposta hobsbawmiana – la nuova fase caratterizzata in un primo tempo dal revanscismo francese nei confronti della Germania e dalla rivalità anglorussa per l’egemonia sul continente asiatico: una rivalità che già aveva avuto un precedente carico di pessime premesse nei confronti del futuro con la guerra di Crimea del 1854, durante la quale tanto in Francia quanto in Gran Bretagna si erano impiantati i semi di una malapianta destinata a germogliare in paradossale simbiosi con una sua malvagia sorella: alludiamo alla russofobia occidentale. L’episodio, non iniziale com’è sembrato a Hobsbawm, bensì centrale di questa fase fu l’infausta “pace di Parigi” del 1919-1920, stipulata secondo il suo grande regista Woodrow Wilson per “mettere fine a tutte le guerre” e rivelatosi invece la Grande madre di tutti i conflitti da allora in poi: che non si esaurirono nel ’45, dal momento che poco dopo insorse la Guerra fredda e che lo stesso disagio nel Vicino Oriente, privato dell’elemento di equilibrio rappresentato dall’impero ottomano e aggravato dal “regime dei mandati” tra Siria e Palestina, si prolungò nella lunga stagione del terrorismo islamista, forse non ancor del tutto esaurita.
All’indomani del “secolo lunghissimo” 1870-1990, l’illusione teorizzata da Francis Fukuyama non condusse a un “Nuovo secolo americano” bensì, dopo l’avventura maldestra della Nato nei Balcani alla fine del secolo scorso nonché la tragedia dell’11 settembre 2001 e le aggressioni degli Stati Uniti contro Afghanistan e Iraq, destinate a lasciare un Vicino e Medio Oriente in condizioni peggiori di quelle riscontrate all’inizio della crisi, sfociò in un sistema di “multipolarismo imperfetto” che stenta tuttavia ad affermarsi. Questa fase incerta e per troppi versi drammatica, durante la quale tuttavia non erano pochi quelli che avevano sul serio confidato nella formula di Francis Fukuyama, quella dell’“uscita dalla storia” e di un impero americano sul quale non sarebbe mai più tramontato il sole, è corrisposta a un sogno dell’Occidente agitato e pieno d’incubi, sino allo sconcertante risveglio del 24 febbraio del 2022.
Abbiamo ritenuto necessario richiamare – con un taglio però inusuale – la storia del nostro mondo fra tardo XVII e primo XXI secolo per richiamare al fatto che le sorti del “nostro Occidente” sono strettamente connesse con tutto il contesto mondiale (the West è inconcepibile senza the Rest) al punto da renderci necessario il risveglio da un troppo lungo letargo: l’oblio dell’Asia in genere e della Russia in particolare, nefasto corollario dell’eurocentrismo-occidentocentrismo del quale troppo a lungo siamo rimasti prigionieri, si è nutrito per oltre tre secoli di un pregiudizio antirusso che da antizarista si è trasformato in antiasiatico che rischia di farci cadere nel tranello di una realtà deformata. Frattanto, la Russia procedeva nel solco tracciato da Pietro il Grande e da Caterina – e solo superficialmente e parzialmente interrotto durante la prima parte della storia sovietica – di un rapporto profondo con l’Europa che si esprimeva anche in termini storici e filosofici.
È necessario quindi rifarsi al pensiero eurasiatista di Konstantin Leont’ev, la cui opera Vizantinism i slavjanstvo (Bizantinismo e mondo slavo) ben rappresenta la fase preliminare di tale indirizzo di pensiero. Infatti quest’opera, in cui viene esposta una morfologia della storia che ricorda quella di Ibn Khaldun e preannuncia quella di Toynbee, vide la luce nel 1875, quarant’anni prima dello spengleriano Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente).
Prima che Spengler opponesse alla rappresentazione eurocentrista la visione di una molteplicità di cicli di civiltà, Leont’ev aveva dunque già osservato la nascita e il tramonto delle varie forme storico-culturali, fino a convincersi dell’imminente estinzione della civiltà “occidentale” per effetto di un inevitabile processo degenerativo. Siamo, certo, nel campo di un ostinato scientismo evoluzionistico, che faceva considerare le civiltà come piante che “naturalmente” nascono, si sviluppano e muoiono: ma la precocità in questo contesto di Leont’ev di un’“idea” europea rispetto ai processi intellettuali euro-occidentali sorprende comunque e fa pensare.
Prima che Spengler, ripudiando l’eurocentrismo e reintegrando nei loro diritti le culture extraeuropee, facesse piazza pulita di quello che René Guénon chiamava “il pregiudizio classico”, Leont’ev aveva considerato la civiltà dell’antica Persia in maniera ben diversa da come veniva insegnata nelle scuole russe (e non solo russe), dove la retorica della “libertà” riservava ai presunti “barbari dell’Oriente” solo incomprensione e disprezzo. Ma una differenza rilevante fra Spengler e Leont’ev risiede nella valutazione di una civiltà che per lo studioso russo costituisce un oggetto d’indagine privilegiato: la civiltà bizantina. Infatti, da noi la storiografia liberale “ha per secoli considerato Bisanzio null’altro che una originale e sterile sopravvivenza del mondo greco-latino, asservita per di più (…) ad un ‘retrivo’ ideale religioso e monarchico. Generazioni di studiosi e di lettori occidentali hanno incessantemente tramandato una quantità di pregiudizi su Bisanzio, che, non somigliante né alla civiltà classica né all’Europa moderna, si sarebbe distinta solo per bigottismo, crudeltà e ristrettezza spirituale”, come scrive Aldo Ferrari in La Terza Roma (All’insegna del Veltro, 1986).
Nella visione di Leont’ev, in ciò correlata fortemente allo spirito del populismo slavista russo, l’universo folklorico-storico dell’immaginario russo animato da una profonda fede cristiana e da una fedeltà programmatica alle sue tradizioni riesce meglio, nelle sue visioni collettive, ad avvicinarsi alla realtà profonda che non la “filologia borghese” importata dall’Occidente liberale. Nazionalismo e panslavismo non potevano però riscuotere le simpatie di Leont’ev: se il nazionalismo progressista era un “cavallo di Troia” pensato per scardinare la società russa e i suoi valori profondi, il panslavismo faceva lo stesso usando il grimaldello antimusulmano nel nome di un’ortodossia cristiana intesa equivocamente. Al contrario, ortodossia cristiana e islam erano una duplice concorde barriera contro il dilagare della corruzione occidentale moderna. Ciò distanziava nettamente Leont’ev da altre figure della cultura russa, quali Berdjaev: Leont’ev si opponeva al luogo comune d’una eterna e inconciliabile inimicizia fra Russia e Turchia, che riteneva anzi la colonna vertebrale di una sensibilità e magari addirittura di una politica eurasiatica comune.
Il vero e proprio “manifesto” dell’eurasiatismo fu Ischod k Vostoku (La via d’uscita ad Oriente), pubblicato a Sofia nel 1921 da una casa editrice russo-bulgara. Si trattava di un volume collettaneo, del quale erano autori il geografo ed economista Pëtr Savickij (1895-1965), il linguista Nikolaj Trubeckoj (1890-1938), il musicologo Pëtr Suvčinskij (1892-1985) e il teologo Georgij Florovskij (1893-1973). Essi esprimevano in modi e con strumenti diversi, ma complementari, l’idea fondamentale secondo cui i popoli della Russia e delle regioni a essa adiacenti in Europa e in Asia formassero una comune unità naturale, in quanto sono legati tra loro da affinità storiche e culturali. La cultura russa veniva dunque vista non come una variante di quella “occidentale”, ma come una realtà a sé stante. Fondata sull’eredità greco-bizantina e sulla conquista mongola e dunque identificabile come “eurasiatica”, secondo gli autori questa realtà culturale era stata negata non solo dalle riforme di Pietro il Grande e dalla classe politica che aveva in seguito governato la Russia, ma anche dalla corrente slavofila, che il principe Trubeckoj accusava di voler imitare l’Occidente. Quanto alla Rivoluzione bolscevica, gli eurasiatisti la valutavano negativamente, ma si proponevano di studiarne il significato nel contesto della storia russa; Savickij, in particolare, vedeva nella Rivoluzione d’Ottobre uno sviluppo di quella francese, ma osservava che essa veniva a spostare verso l’Oriente l’asse della storia universale. Tale spostamento, peraltro, non costituiva di per sé un elemento antieuropeista: al contrario, l’Europa veniva collegata strettamente all’Asia secondo del resto i suoi connotati obiettivamente geostorici. L’unità dell’Eurasia costituiva il tema centrale dello studio L’eredità di Gengis Khan, che Trubeckoj pubblicò nel 1925 riprendendo e sviluppando una diversa e più positiva concezione del dominio “tataro” che già nel XIX secolo si era affermata all’interno della storiografia russa. Secondo Solov’ëv e Kljucevskij, infatti, i “tatari” non solo non avevano spezzato la continuità dell’evoluzione storica della Russia, bensì l’avevano dotata di quella forte organizzazione statale che tanto era mancata nell’epoca kieviana. Allo stesso modo, come accennato, non vanno dimenticate le correnti culturali che hanno guardato positivamente al confronto fra Oriente e Occidente, come nel caso proprio del filosofo Vladimir Solov’ëv, maestro di Dostoevskij nonostante fosse molto più giovane. Egli non cadde nel nazionalismo ingenuo degli slavofili: se criticava “l’Occidente che si decompone”, aveva parole dure per “l’Oriente pietrificato”. Negli ultimi anni della sua vita poi coltivò il sogno dell’unità fra la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Il suo scopo era dunque quello di rompere le barriere filosofiche fra Oriente e Occidente.
Per la successiva generazione eurasiatista, non si può dimenticare il contributo di Lev Nikolaevič Gumilëv, filologo, perseguitato e imprigionato, quindi combattente volontario in un “reparto di punizione” che partecipò alla conquista di Berlino nel 1945. Riammesso all’università, affrontò varie vicissitudini e nel 1948 partecipò alla spedizione archeologica nell’Altai, che portò alla luce il tumulo d’oro di Pazyryk. Nel 1948 fu arrestato per la terza volta e condannato a dieci anni di campo di confino speciale per attività controrivoluzionaria; nel 1956 venne rilasciato e riabilitato perché il fatto non sussisteva. Tornato a Leningrado, fino al 1986 lavorò come collaboratore scientifico dell’Istituto Nazionale di Ricerca di quell’Università. Morì nel 1991, affranto per la fine dell’Unione Sovietica. I popoli turanici dell’ex Urss hanno manifestato stima e riconoscenza nei riguardi di Gumilëv; la sua produzione scientifica ha sgombrato il campo dai pregiudizi turcofobi e antimongoli, mostrando il contributo che gl’imperi di Attila, di Gengis Khan e di Tamerlano hanno dato alla storia dell’Eurasia. Ad Astana, capitale del Kazakistan, la locale Università Eurasiatica è stata intitolata al suo nome. L’eurasiatismo di Gumilëv consiste in una visione della storia in cui viene messo in primo piano il mondo multiforme dell’Oriente eurasiatico, concepito non più come “periferia” più o meno “barbara” contrapposta alla vera civiltà (occidentale), bensì come un’autonoma realtà culturale, con un suo proprio sviluppo politico e scientifico. Va notato com’egli non si sottraesse alla definizione di “eurasiatista”, ma al contrario l’accettasse con orgoglio.
Il movimento eurasista è attivo in Russia e fuori in vari Paesi, e arruola al suo interno la discussa personalità di Aleksandr Dughin, considerato ideologo di Putin. Dopo avere esercitato una considerevole influenza su ampi ed eterogenei settori della cultura russa, in seguito al crollo dell’Urss l’eurasiatismo è stato accolto soprattutto da coloro i quali si oppongono all’inserimento della Russia nel sistema occidentale. Tuttavia è interessante notare come in alcuni ambienti eurasiatisti si stia manifestando la tendenza a sottolineare la non identificabilità perfetta fra l’Occidente e l’Europa, notando che la tematica relativa alla Modernità è molto complessa e che fra le due sponde dell’Atlantico e le rispettive vicissitudini e connotazioni storico-antropologiche molte sono le distinzioni da mettere in luce.
(Vita e Pensiero, 3, maggio-giugno 2023)