Minima Cardiniana 426/2

Domenica 9 luglio 2023, Santa Veronica

“QUO VADIS, HUMANUM GENUS?”
VERSO UNA GLOBALIZZAZIONE MULTIPOLARE
di Bruno Bosi
Prendendo in esame quella parte di umanità definita industrializzata o post-industrializzata, consapevoli che esistono anche realtà diverse che meritano di essere rispettate e tutelate, il cambiamento più evidente che si nota tra l’ultimo dopoguerra e la situazione che viviamo in questo inizio del nuovo millennio è dato da relazioni, che a livello economico e culturale, sono passate da una dimensione statale a una globale. Solo la politica non si rassegna a questo mutamento. In questo modo è tagliata fuori dalla funzione di strutturazione della globalizzazione inarrestabile.
Siamo passati da politici statali che, dando voce alle aspirazioni dei cittadini ad un futuro migliore, erano arrivati alla DUDU (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) come tentativo di stabilire relazioni pacifiche a livello globale, ad una situazione dove i politici statali sono l’ostacolo principale per una qualche forma di gestione della globalizzazione. I politici statali sono infastiditi da ogni tentativo di istituzionalizzazione della globalizzazione perché comporterebbe una limitazione dei loro poteri. Avendo già rinunciato alla sovranità verso un potere occulto, non istituzionalizzato, calato dall’alto, per mantenere una ragione di esistere, devono recuperare potere verso il basso, sui cittadini, andando oltre i limiti stabiliti dalla costituzione. Viene eroso continuamente il potere del popolo, sia trascinandolo in una situazione di sudditanza al potere globale dei dominatori, fino ad attribuirgli la responsabilità di volere la guerra, sia molestando i cittadini su questioni che dovrebbero appartenere alla sfera individuale come il modo di tutelare ognuno la propria salute o di vivere le naturali immutabili leggi di natura riguardanti la procreazione. L’ultimo espediente per avanzare in questa direzione è l’unanimità, di facciata, come in tutte le dittature. Una forma eccessiva di manipolazione della pubblica opinione che potrebbe rivelarsi l’occasione per smascherare e liberarci dai politici e da istituzioni che si definiscono democratiche, mentre per incapacità, per viltà e per difendere dei privilegi di casta, sono succubi del potere occulto dei dominatori. Questo potere si vuole imporre attraverso una gestione unipolare della globalizzazione rivendicata dall’Occidente ed è ovviamente osteggiato da chi non fa parte di questo schieramento. Si fa di tutto per far apparire l’Occidente come una comunità coesa definita Atlantismo, pronta a combattere per difendere la democrazia, mentre la realtà è completamente diversa.
La storia dell’umanità è da sempre caratterizzata dalla competizione per appropriarsi delle risorse alimentari o più in generale economiche, che sfociava nella violenza, nella guerra tra comunità limitrofe. La pace interna, a queste comunità, era perseguita dai dominatori politici, per creare una forza da scaricare nelle relazioni con l’esterno per sottomettere nuovi territori e nuovi popoli. Erano le ambizioni imperiali del paese che in un dato momento si sentiva il più forte, un continuo alternarsi di comunità cresciute fino a diventare imperi a vocazione globale, nei limiti di quelle che erano le conoscenze geografiche e le possibilità consentite dai mezzi di comunicazione del passato. Una volta che il più forte riusciva ad imporre la sua egemonia cercava di mettere ordine, di garantire una convivenza pacifica tra le diverse comunità sottomesse. A partire dal Medio Evo l’impero in Europa era un tentativo di organizzare una convivenza pacifica all’interno della Cristianità Occidentale da contrapporre all’Oriente Islamico. La responsabilità e l’autorità di una buona gestione di questa politica era affidata all’imperatore, una figura politica divenuta anacronistica col passaggio dall’Antico Regime alla Modernità. L’impero, da quello Romano a quello Asburgico, era più tollerante delle particolarità locali che non gli stati nazionali. L’impero non aveva la forza per pretendere un’unica omologazione come un’unica lingua o un’unica religione, mentre veniva regolarmente imposta nello stato nazionale. La frammentazione dell’umanità nelle entità statali (1648) era dovuta alle pretese delle case regnanti di origine medioevale, per tentare di protrarsi all’infinito. Le diversità culturali locali erano spinte fino alla conflittualità e alla guerra. Nasce il mito dei confini sacri e immutabili da difendere col sangue ma per chi ne ha la possibilità da spostare in avanti sempre col sangue. Non sono ammesse le sfumature, o di qua o di là. In questa logica nascono i nazionalismi. Le relazioni tra nazioni, che in tempi recenti verrà definito diritto internazionale, si è sempre identificato con la legge del più forte, una volontà di dominio mitigata solo dalle difficoltà pratiche, dai pericoli e dai costi della guerra.
Nei tempi passati le ambizioni imperiali si scontravano con la realtà di mezzi di comunicazione poco efficienti, e finivano per dissolversi sotto la spinta delle identità locali. Oggi le possibilità offerte dal progresso tecnico scientifico permettono di ridurre le difficoltà dovute alla dimensione spazio. Lo strabiliante progresso dei mezzi di comunicazione ha rimpicciolito il pianeta rendendo possibile un’infinità di relazioni che erano impensabili nei secoli passati. Questioni che sembravano inconciliabili, come la contrapposizione tra cristiani e islamici, diventano insignificanti in un’ottica globale arricchita da un’infinità di altri punti di vista, e nello stesso tempo si creano i presupposti che poi diventano necessità di un’infinità di nuove relazioni culturali economiche e politiche. La globalizzazione c’è, è inarrestabile, è il dispiegarsi del progresso della civiltà umana, deve essere gestita, e questo è un compito che spetta alla politica. Questo tipo di relazioni, previste con l’ONU e la DUDU, soccombe se ci sono le condizioni per dare spazio alla pretesa di dominio di chi si sente il più forte. La pretesa di dominio, oggi in ossequio al nuovo corso che ama definirsi democratico, non è più definito imperialismo ma gestione unipolare della globalizzazione.
La società statale moderna è caratterizzata dalla separazione in due distinte sfere istituzionali, una politica ed una economica. Con la modernità la politica aveva accettato i principi di uguaglianza dei diritti ponendosi sul percorso, interminabile, verso la democrazia dichiarata raggiunta, solo formalmente, dopo la seconda guerra mondiale. Una forma di riparazione offerta dai politici ai popoli che avevano subito le sofferenze imposte con la guerra. Una pretesa politica di egemonia imperiale diventa inaccettabile ma questa pretesa è divenuta la ragione di agire della sfera istituzionale economica e subirà una accelerazione, imprevista quanto devastante, quando il capitalismo da industriale diventa finanziario. Da un punto di vista quantitativo in pochi anni le disuguaglianze sociali superano il record precedente raggiunto prima delle guerre mondiali. Da un punto di vista qualitativo il nuovo ordine scivola in una visione integralista che riconosce come unico valore il denaro, perseguire l’accumulo di denaro diventa la razionalità del nuovo paradigma dominante. Una verità assoluta che non ammette alternative, e si ripropone di eliminare ogni eventuale forma di contestazione a livello globale. Se ci troviamo di fronte al rischio di una terza guerra mondiale in un contesto di surriscaldamento globale con prevedibili effetti disastrosi per l’umanità, è evidente la necessità di cambiare rotta. Dobbiamo darci delle regole e dei limiti da rispettare incompatibili con la legge del più forte.
La DUDU prevedeva un mondo dove le nazioni grandi o piccole potevano e dovevano convivere in pace, libere di seguire ognuna una propria strada verso un futuro migliore. Era ancora una visione condizionata da un forte sentimento nazionalista e pertanto si prefiggeva di garantire le realtà statali di qualsiasi dimensione riconfermando il mito della sacralità dei confini immutabili. Lentamente i progressi dei mezzi di comunicazione hanno eroso l’impermeabilità dei confini. Non ha più senso delimitare col filo spinato da difendere col sangue le diversità culturali di costumi, di tradizioni, di religione o economiche tra paesi limitrofi che solo dai contatti o scambi economici e culturali possono usufruire della crescita di una comune civiltà. È questa la dinamica che spinge da sempre in direzione di relazioni globali come da sempre c’è chi tenta di porsi al posto di comando di un vertice non utile alla causa.
La debolezza del sistema proposto dalla DUDU era, ed è ancora oggi, nella finzione di uguaglianza tra stati piccoli e deboli verso stati grandi e potenti, dichiarando l’uguaglianza tra le super potenze e realtà divenute insignificanti geograficamente, economicamente, politicamente, militarmente. È stata questa finzione di uguaglianza che non ha funzionato nel progetto dell’Organizzazione delle nazioni unite. Infatti il mondo si sarebbe dato dopo un paio d’anni un ordine bipolare dove gli stati dovevano schierarsi con una delle due super potenze. L’antagonismo tra i due sistemi economici, capitalismo e comunismo, aveva comportato una contrapposizione ideologica estrema che aveva spinto l’Occidente alla cementificazione in un unico blocco. L’Occidente diventa la più grande concentrazione di potere politico economico e militare mai esistita, e lo è senza istituzioni politiche preposte ad una qualche forma di governo. Paradossalmente viene escluso il metodo democratico nelle decisioni in quanto tutti i paesi aderenti a questo progetto sono considerati democratici. Sembra che il tutto sia dovuto ad una tacita convenienza che può più di una legge o di un trattato internazionale nel determinare una convergenza dei politici statali sempre gelosi della loro formale sovranità. Il tutto avviene senza la regia di una autorità politica istituzionalizzata che probabilmente sarebbe rifiutata come era stato rifiutato l’impero.
Con la fine del confronto bipolare il capitalismo, dal volto umano e in qualche caso socialdemocratico, avverte che la coesione richiesta dalla guerra fredda non è più necessaria. Rispuntano le pretese liberiste o neoliberiste, che avevano sempre vissuto come impedimenti alla loro potenzialità, i provvedimenti volti alla coesione. Per fare questo necessita di poter spaziare su tutto il pianeta, cosa che era impedita nel precedente ordine bipolare, poi deve riprendersi i diritti concessi ai lavoratori nella seconda metà del Novecento. Il nuovo corso viene teorizzato dal presidente degli USA come “edonismo reaganiano” e andrà a condizionare il successivo periodo fino ai giorni nostri. L’enciclopedia Treccani ne dà questa definizione: “Desiderio consumistico di vivere bene a dispetto degli altri, senza farsi troppi scrupoli, sfruttando a proprio vantaggio le disuguaglianze insite nel sistema capitalista liberista”.
Il potere politico di indirizzare l’economia, passata ad una dimensione globale priva di istituzioni, viene di fatto rinunciato dai politici, senza nessuna consultazione democratica. Il potere di iniziativa torna alla sfera istituzionale economica e trova espressione nella pretesa di dominio globale del capitalismo che diventa finanziario. La definizione benevola usata per indicare il fenomeno è libera circolazione dei capitali mentre in realtà è l’applicazione della legge del più forte che permette di drenare ricchezza da ogni angolo della terra per farla affluire ad un unico vertice. È funzionale a garantire una posizione di egemonia, contrassegnata da un’avidità senza scrupoli, che porta a giustificare la pretesa di ridurre tutta l’umanità e la natura al suo servizio. Delocalizzazione delle industrie per svalutare il lavoro e conseguente libera circolazione dei capitali per farli affluire ad un’unica cabina di regia, pongono le basi per far avanzare la pretesa della potenza egemone ad un ordine unipolare. Gli USA non essendoci più un antagonista ben definito da contrastare, devono ritagliarsi un ruolo di gendarmi di un nuovo ordine che gli consenta di mantenere questa posizione egemonica al di sopra di tutti gli altri. La pretesa di essere l’unico dominatore si è sempre dimostrata irrealizzabile in quanto spinge tutti gli altri ad un comportamento contrario a questo progetto. Infatti dopo la caduta del muro di Berlino i paesi occidentali tendevano nelle relazioni internazionali a cercare ognuno una autonoma strada. Il punto di svolta coincide con gli attentati del settembre 2001, una nuova “Pearl-Harbor” da tempo auspicata dal segretario di stato americano. La strumentalizzazione della minaccia del terrorismo diventa il nuovo collante per chiamare a raccolta tutti coloro che indipendentemente dalla loro provenienza geografica, politica, etnica, religiosa dimostrano di saper drenare ricchezza dai rispettivi paesi di origine per farla confluire ad un unico vertice. È l’unipolarismo finanziario, il più facile da realizzare, con un click si possono determinare le sorti di miliardi di esseri umani. I dominatori, del club della finanza predatoria, potrebbero non essere più prevalentemente occidentali ma questo non cambia gran che. È la comunità dei ricchi, che non può pretendere una giustificazione politica ma deve essere presentata ed accettata come un dato fattuale, in una visione integralista che non ammette la possibilità di un’alternativa. Si punta su una forma di oligarchia globale, che ha un controllo assoluto sulla distribuzione della ricchezza, intesa come flussi di denaro. La potenza di questo blocco tende a diventare sempre più finanziaria, una vera tigre di carta supportata però da un apparato militare fino ad oggi incontrastabile. Questo enorme potere virtuale incentiva le speculazioni e sfrutta i disastri, guerre, pandemie, calamità naturali, come occasioni per spremere ricchezza dalle attività produttive, dal lavoro. Per giustificare una ragione d’esistere deve apparire come irresistibile e vitale cioè in continua espansione imponendo il mito della crescita economica eterna come soluzione di tutti i problemi. In questo modo la contrapposizione che sta montando a livello globale, e vede da una parte i paesi occidentali che si pretendono democratici, dall’altra i paesi in via di sviluppo e nuove potenze emergenti (BRICS), quasi tutti ex colonizzati, sta diventando sociale. Questo è imperdonabile alle democrazie e nello stesso tempo insostenibile dalle democrazie: un’economia liberista e una politica democratica non possono convivere senza arrivare a stabilire chi deve essere il timoniere della società. È comprensibile anche l’alternanza di cicli contrapposti dove può prevalere una volta l’economia una volta la politica ma deve esserci un confronto dialettico trasparente. Non è accettabile una relazione di dominio imposta da una entità virtuale, irraggiungibile da qualsiasi rimostranza con metodi democratici, che per far risaltare la propria potenza deve impoverire il lavoro e nello stesso tempo convive pacificamente con un’élite politica che si pretende democratica in quanto è pronta a trascinare alla guerra il suo popolo per imporre questa pseudo-democrazia al resto del mondo. In questo modo la democrazia diventa un metodo per addomesticare il popolo a non ribellarsi al dominio economico. La pretesa di guidare o imporre un governo unipolare della globalizzazione rivendicata dall’occidente ha come giustificazione ufficiale la diffusione del metodo democratico e il rispetto dei diritti civili e politici, mentre tralascia i diritti sociali economici e culturali che sono incompatibili con le pretese del liberismo. La democrazia deve distribuire tutti i diritti. Per chi si trova in condizioni di povertà sono più importanti i diritti sociali ed economici dei diritti politici. Oppure i diritti politici sono visti come un mezzo per accedere ai diritti sociali ed economici. La democrazia è un buon metodo di governo, non può essere perfetto e nemmeno deve necessariamente essere l’unico. È un tentativo di esprimere i valori universali di uguaglianza e giustizia, dei quali nessun sistema politico può pretendere di averne l’esclusiva. Se le democrazie occidentali non si impegnano a distribuire anche i diritti sociali ed economici, mitigando le pretese del capitalismo, del liberismo e della finanza predatoria, restano il consumismo, l’inquinamento, l’arrampicamento sociale, l’egoismo individuale. Diventa difficile pretendere di suscitare l’emulazione degli altri popoli che provengono da storie, tradizioni, condizioni molto diverse dalle nostre. Popoli che hanno sempre vissuto i contatti con l’occidente come dominati, costretti ad accettare questa subordinazione come esito di una abbagliante superiorità tecnologica. Il progresso tecnologico occidentale comporta una assoluta necessità di espandersi a livello globale, una forma di dipendenza o di debolezza. Anche gli ex colonizzati si rendono conto delle contraddizioni del sistema capitalista esasperate dal neoliberismo e non possono accettare un unico modello come prevede il progetto di globalizzazione unipolare che prevede un’unica comunione globale: la povertà nella rassegnazione ad una relazione di dominio imposta da chi ha il controllo dei flussi di denaro.
Le radici della volontà di dominio di un unico vertice unipolare derivano dal modello o sistema Occidente, il vincitore della guerra fredda e che per questo si pretende il predestinato al dominio sulla società globale. Un potere di fatto, senza istituzioni, come le organizzazioni criminali, inaccettabile dai popoli dei paesi emergenti. Oggi quel che resta dell’egemonia occidentale è all’origine del contrasto tra la pretesa di imporre l’unipolarismo come sistema di governo della globalizzazione e la novità di paesi per la maggior parte ex colonizzati che rivendicano una gestione multipolare. Il superamento del bipolarismo non può essere l’egemonia di un polo su tutti gli altri, ma la ripresa di un percorso iniziato alla fine della seconda guerra, mondiale o globale, che aveva evidenziato la necessità di una gestione globale delle relazioni internazionali basate sulla sovranità degli stati esistenti. Il mondo multipolare è il superamento del sistema basato sulla sovranità degli stati nazionali esistenti, dichiarata solo formalmente, ma che non rispecchia più la realtà attuale nelle relazioni internazionali o semplicemente commerciali e finanziarie. Questa sovranità formale non è più sufficiente per consentire a uno Stato nazionale di affermarsi come entità autenticamente sovrana sia nei confronti degli stati più potenti che dei privati più ricchi, delle multinazionali. La sovranità nella dimensione globale richiede una dimensione che consenta di confrontarsi col più forte, e può essere raggiunta con una coalizione alla quale deve pervenire progressivamente la sovranità che era dei singoli stati. Il mondo multipolare non prevede un ritorno al sistema bipolare, che già sappiamo produrre un antagonismo esasperato, ma anche perché oggi non c’è una dimensione statale che da sola possa resistere all’egemonia dell’Occidente. Ci devono essere più di due poli in un mondo multipolare per avere relazioni improntate alla moderazione derivante da più punti di vista. Il mondo multipolare presuppone la presenza di più poli indipendenti ed effettivamente sovrani, in grado di resistere all’egemonia finanziaria e strategico-militare degli USA e dei paesi della NATO, così come non dovrebbe esserci un’egemonia culturale dell’Occidente. I diversi poli che andranno a costituire la globalizzazione multipolare non devono essere obbligati ad accettare l’universalismo di norme, valori e standard occidentali come la democrazia, il liberalismo, il libero mercato, il parlamentarismo, l’individualismo ecc. L’ostacolo più difficile da superare per procedere in questa direzione, è l’Atlantismo, una relazione di vassallaggio dell’UE nei confronti della potenza egemone che a sua volta è un semplice strumento dei dominatori, per avere una dimensione che consenta ancora l’illusione di poter dominare il resto del mondo.
Oggi con la pandemia, il riscaldamento globale e una guerra con la quale stanno giocando le nostre élite dominanti evidenziando un comportamento irresponsabile, dobbiamo chiederci come mai il buon senso non riesce a prevalere sulla incapacità e incompetenza dei nostri delegati. Probabilmente una delle cause consiste nel metodo. Si punta a dichiarazioni eclatanti che vengono presentate come traguardi acquisiti, per portare gloria ai politici, mentre si tratta di procedere con piccoli passi che però devono avere una direzione ben definita, piccoli risultati concreti parte di un progetto in continuo divenire ma che per avanzare richiede una partecipazione attiva dei cittadini alla politica. Le istituzioni degli stati divenuti vassalli hanno rinunciato la sovranità verso l’alto che non era la loro ma apparteneva al popolo, e puntano sui sovranismi per custodire gelosamente i loro poteri di tartassare i cittadini nella dimensione statale. La dimensione da recuperare in un contesto globale non è quella statale, sembra più giusto parlare di una dimensione locale all’interno di un polo sovrastatale che tenga conto delle sfumature cosa da sempre negata dagli stati nazionali. Gli stati nazionali erano nati per fare la guerra e raccogliere risorse per questo scopo, se andranno in disuso non saranno da rimpiangere. Totò, che nel film “la legge è legge” negli anni ’50 si guadagnava da vivere col contrabbando, al confine tra Italia e Francia, diceva: “che bella invenzione le dogane, senza dogane come si farebbe a fare del contrabbando?” l’evoluzione delle relazioni transfrontaliere gli ha dato ragione, un vero precursore, lungimirante.
L’uomo è il fine ultimo del progresso della civiltà ma è e sarà per sempre metà vizio e metà virtù. Per questo rivolgersi ai singoli individui predicando il bene serve a poco. Conviene agire sugli strumenti, sulle istituzioni che vanno a dare forma alle relazioni stabilendo dei diritti, dei doveri e dei limiti che tengano conto della condizione umana e terrena. Sono questi legami, politici ed economici, che possono indirizzare verso il progresso o il declino. Il progresso tecnologico ha annullato il senso delle rigide barriere dei confini statali per quel che riguarda le relazioni individuali, basta citare internet e le possibilità offerte dal digitale se usato a fin di bene. Il problema sta nel fatto che il digitale si presta ad un controllo centralizzato, controllo caduto nelle mani dei dominatori che lo usano contro l’umanità. È usato per implementare il pensiero unico, per sgretolare le capacità critiche individuali, per omologare l’umanità nella rassegnazione al declino, per impoverire il 99% contro un arricchimento assurdo di un 1%. Una dittatura imposta dalla sfera istituzionale economica che in oltraggio ai sudditi viene definita liberismo.
Ammettiamo che il capitalismo sia il metodo di produzione più efficiente per una società industrializzata o post industrializzata. I due pilastri portanti comuni a tutta la società capitalista sono il lavoro, corpo e sostanza della ricchezza e il denaro che ne è solo l’ombra. Sono da riequilibrare le relazioni tra questi due elementi del sistema capitalista. Il lavoro è la prima forma di attività economica, finalizzata al sostentamento dell’umanità, espressione della civiltà umana in continua evoluzione ma sottoposta ai limiti di un’esistenza terrena. Il denaro è un derivato del lavoro, non può dare origine a un potere illimitato nella quantità e neppure nel tempo. Una lucida descrizione critica a questo sistema era stata data fin dagli albori del capitalismo da Sismondi: “Hanno separato l’ombra dal corpo e riescono ad imporre il loro lucroso commercio della sola ombra”. Il denaro deve rientrare in un sistema circolare che si autoalimenta, dove i più capaci ne avranno di più ma lo devono spendere altrimenti lo perdono. Ma in questa proposta non c’è niente di eversivo, non sarebbe la prima volta che si apportano delle modifiche ad un sistema dominante quando si iniziano ad evidenziare dei contrasti insostenibili se si ha l’umiltà di accettare delle critiche costruttive. In passato erano stati stabiliti dei limiti per i latifondi, per i monopoli, erano state abolite relazioni sociali che negavano la dignità come orari di lavoro troppo pesanti o il lavoro minorile, erano previsti provvedimenti redistributivi con un’imposizione fiscale progressiva. Andando indietro nel tempo erano stati aboliti i privilegi insostenibili della nobiltà, erano vietate pratiche predatorie come l’usura, ed ancora prima esistevano le leggi suntuarie volte ad impedire l’ostentazione del lusso ritenuto fonte di contrasti sociali. Ora sembra arrivato il momento di liberare la società capitalista dal capestro del debito pubblico e privato. Significa rivalutare il lavoro che comporta una drastica riduzione della funzione di riserva di ricchezza attribuita al denaro. Non ha senso accumulare quantità abnormi inutilizzate e inutilizzabili ma che hanno solo un valore negativo, possono togliere ma non hanno niente da dare, non potranno mai rientrare nell’economia reale che però hanno il potere politico di mantenere in un perenne stato di necessità. Se queste enormi quantità di denaro, si dice pari a quaranta volte il PIL mondiale, hanno un valore allora basterebbe prenderne una piccola parte, da considerare attribuita alla finanza per un errore, e potremmo appianare tutti i problemi economici della nostra società capitalista. Se invece questa ricchezza non esiste, e per questo non si può prelevare, ma è solo un mito teso a giustificare una forma di potere politico, espressa in una relazione di dominio, che per avere una ragione di esistere deve impoverire il lavoro, una politica che si pretende democratica ha il dovere di dirlo pubblicamente. Se le enormi quantità di ricchezza attribuite alla finanza al di fuori della realtà risultano essere solo fumo, rimangono a pesare su chi lavora e produce ricchezza, le risorse sperperate nella gestione della finanza, i costi del mantenimento della “mano ben visibile” degli apparati militari con relative distruzioni e riparazioni e tutte quelle attività parassitarie create per dare lustro al sistema dominante. Se queste risorse fossero distribuite a chi lavora, con una sostanziale riduzione degli orari di lavoro e quindi lavoro utile e ben retribuito per tutti, il mondo andrebbe molto meglio. L’ambiente nel quale dobbiamo vivere, le capacità cognitive individuali, le relazioni tra individui, la qualità della vita ne avrebbero un beneficio. Il contrario di ciò che sta avvenendo ora con la rassegnazione al declino e la responsabilità è imputabile al vuoto politico lasciato dai delegati statali nella gestione della globalizzazione. Questi dovrebbero essere gli argomenti all’ordine del giorno di una politica responsabile di una gestione globale facilitata dal digitale se usato a fin di bene. Se ci sarà un’evoluzione in questo senso non sarà più a trazione europea e nemmeno occidentale, ma sarà imposta da forze nuove espressione dei paesi emergenti che pretendono una gestione multipolare della globalizzazione. Questo non è necessariamente un male, abbiamo dominato il mondo per cinque secoli ci sta che si debba passare la mano. L’intelligenza vorrebbe che anziché andare allo scontro per tentare di rinviare il passaggio di mano, si instaurasse una collaborazione puntando su mezzi politici e diplomatici per stabilire condizioni che tendano alla giustizia più di quelle che noi occidentali avevamo imposto con la forza.