Minima Cardiniana 429/3

Domenica 30 luglio 2023, San Pietro Crisologo

MA LUI È SEMPRE FRA NOI
L’amica Caterina Greppi m’invia questa memoria relativa a padre Paolo Dall’Oglio, gesuita e apostolo dei deboli e degli oppressi nel Vicino Oriente. Ricordo al riguardo anche il libro di Riccardo Cristiano, Una mano da sola non applaude, ed. Ancora, dedicato appunto a padre Paolo scomparso ormai da dieci anni, dal 29 luglio del 2013. Io l’ho conosciuto nel “suo” monastero siriano di san Mosè l’Abissino, pochi giorni straordinari di dialogo e di preghiera. Ricordo ancora la sera in cui arrivai, con qualche altro amico, in quello sperduto eremo siriano. Una pioggia torrenziale come se ne vedono solo nel deserto, poi una notte stellata e una cena nel deserto, con focacce cotte sulla pietra vino fatto d’uva. E una notte incantevole, indimenticabile, accanto al recinto delle capre. Caterina era con noi.
Quei giorni sono bastati a siglare un’amicizia eterna. Ora, speriamo tutti di accogliere Caterina nel gruppo degli amici dei “Minima Cardiniana”, persone di ogni età idee politiche e provenienza che hanno in comune un impegno: combattere tutte le battaglie che bisogna combattere, per il semplice motivo che bisogna farlo.

SBUCCIANDO PATATE A MAR MUSA. RICORDO DI P. PAOLO NELL’ESTATE DEL 1999
di Caterina Greppi
Non avevo mai sentito parlare di Paolo Dall’Oglio. Era il 1998, sembrano cento anni fa. Studiavo arabo al Pontificio Istituto di studi Arabi e d’Islamistica a Roma, ero all’ultimo anno. Il mio arabo era debole, almeno lo definiva così p. Maurice Borrmans, secondo il quale era necessario migliorarlo con un soggiorno in un paese in cui si parlava la lingua, magari non in Tunisia dove ero già stata e dove più che l’arabo imparavi il francese. “Dovresti andare in un paese dove parlano soltanto arabo – mi diceva p. Maurice – possibilmente in un paese del Medioriente, lo sai, più vicino sei all’Arabia e più l’arabo è puro, con meno influenze dialettali”.
P. Maurice mi diede il suo buon consiglio ed io, tra il confuso e l’incuriosito, dedicavo gran parte dei miei pensieri a fantasticare su dove sarei andata. La relativa assenza di guerre in quel periodo consentiva di andare in svariati paesi, anche lo Yemen poteva essere un’idea.
Qualche mese più tardi, senza ancora aver trovato una soluzione, andai a studiare nella biblioteca del Pontificio Istituto Orientale; lì vivevano alcuni gesuiti specializzati in arabo, siriaco e copto. Spesso, nella biblioteca, con penna e foglio per gli appunti, per controllare qualche citazione, si incontrava p. Vincenzo Poggi, specialista in storia delle Chiese orientali e arabista, che conoscevo da qualche anno. Quella mattina p. Poggi era tra le file degli scaffali nel seminterrato; con un po’ di soggezione, ma anche conoscendo la bontà di p. Poggi, mi avvicinai per salutarlo e informarlo sullo stato dei miei studi. La mia debolezza dell’arabo fu immediatamente presa a cuore da p. Poggi che disse: “So che è una idea stravagante ma io ti consiglierei di andare da p. Paolo Dall’Oglio in Siria che ha fondato lì una piccola comunità in un monastero antico nel deserto; Paolo è un uomo speciale, ha una forza dirompente, conosce molto bene il cristianesimo arabo e l’islam, è molto aperto e la sua comunità offre anche ospitalità. Io quando ero decano qui al PIO l’avevo chiamato a fare un corso sull’islam. Era un periodo particolare per lui perché era in uno stato di ‘verifica’ da parte dei gesuiti ma io non ho mai dubitato della sua lealtà”. Rimasi molto stupita. Un gesuita che fonda una sua comunità nel deserto, con qualche problema con la Compagnia, per di più italiano. In ogni caso c’era ancora tempo per pensarci, l’anno accademico sarebbe finito ad inizio giugno.
Ho visto p. Paolo, la prima volta, ad una conferenza dietro piazza Navona dove era tra i relatori. Dopo le interminabili domande di fine conferenza, mentre stava andando via, lo fermai facendomi forte della conoscenza e del consiglio di p. Poggi. Per nulla stupito mi disse di seguirlo, doveva andare verso Trastevere. Ancora oggi ho il ricordo di quella sera di febbraio mentre attraversavo ponte Garibaldi con questo uomo alto e imponente, con un passo deciso e volitivo che mi camminava accanto parlandomi di un posto quanto mai a me lontano e che le sue parole lo facevano sembrare dietro l’angolo.
Dopo una cioccolata calda, qualche domanda e un breve saluto ci proponemmo di rivederci a Mar Musa. San Mosè così si chiamava il monastero, per imparare qualcosa di più, come lui mi disse, che soltanto l’arabo.
Effettivamente, fu così.
A maggio decisi di partire. Visto, biglietti e pronti per la partenza. Una telefonata abbastanza confusa al monastero mi aveva fatto capire che a dir mar Musa, monastero nelle vicinanze di al-Nabek in Siria, Paolo, al mio arrivo non c’era. Infatti, atterrata e uscita dall’aeroporto, trovai ad aspettarmi due persone con un cartone in mano con scritto il mio nome.
I due, marito e moglie, con un bel sorriso, malgrado fossero le tre del mattino, mi caricarono su una specie di camioncino e mi portarono a al-Nabek a circa 80 km da Damasco.
Capivo molto poco del dialetto siriano, impacciata nel mio arabo classico tentavo di fare domande, ma purtroppo capivo poco le risposte.
I due signori mi portarono nella canonica di al-Nabek, mi mostrarono una stanza e mi fecero capire di mettermi a dormire e così feci. Le sei della mattina si fecero in un attimo. Andai alla finestra e vidi che ero effettivamente accanto ad una chiesa, con intorno soltanto deserto e polvere.
Alle otto bussò alla porta un personaggio quanto mai strano vestito da pakistano, con accento tedesco: era Jeans, uno dei monaci del monastero ed era appena tornato con Paolo da un viaggio in Pakistan. Mi disse di seguirlo e così mi ritrovai in una panetteria siriana dove nel forno a legna cuoceva il pane con i semini di sesamo.
Ricordo un posto buio dove la fiamma rossa del fuoco in qualche modo incantava, l’odore e il sapore del pane caldo e le alte pile di pane già fatto e pronto per essere venduto.
Dopo aver acquistato una pila di pane eccoci in una piccola via di al-Nabek, dove da una porta vidi uscire p. Paolo. Era la casa di Amin, un uomo ancora molto giovane ma segnato dal duro lavoro e dal sole, era il fac totum del monastero.
P. Paolo mi accolse con un buongiorno caldo e affettuoso. Mi disse che a breve saremo andati a Mar Musa e che avevamo dormito nella canonica perché arrivare di notte a Mar Musa sarebbe stato complicato: arrivati sopra la montagna dovevamo scendere da un viottolo stretto che costeggiava un dirupo.
Dopo aver caricato in un pick-up provviste e zaini salimmo sulla montagna, deserto sassoso la bādiyya, posti impervi e isolati, strada sterrata. Guidava Paolo, quando ad un certo punto trovammo lungo il percorso un vecchio ed una capra seduti sul ciglio della strada. Paolo chiese qualcosa al vecchio, il quale salì sul cassone del furgone con la sua capretta, scesero qualche km dopo in un luogo cui vi erano due o tre baracche in mezzo al nulla.
Dare un passaggio ad una persona mi sarebbe sembrato normale, il caricare la capra mi sembrò allora una cosa straordinaria e mi fece capire che ero giunta in un’altra parte di mondo.
Oltre al cielo limpido e celeste di quel mattino ricordo ancora che il colore dominante era il marrone in tutte le sue sfumature, chiaro nella polvere, scuro nella terra, medio nella roccia.
Arrivati sulla cima della montagna lasciammo il pick-up in un garage costruito con sassi a vista.
Prendemmo zaini e provviste e scendemmo lungo il sentiero che portava al monastero.
Quello che apparve dopo poco alla mia vista mi lasciò piena di stupore, il monastero era una fortificazione di origini antiche; avevo visto qualche immagine del posto ma non dalla parte alta.
La porta di entrata era fortificata, bisognava abbassarsi per entrare quanto era piccola, era una cosa strana e al contempo maestosa per i suoi muri spessi.
Attraversai quella porta sentendomi orgogliosa di poterlo fare, fui avvolta da una sensazione non facile da spiegare, era come il vivere il presente in una scenografia molto remota ed affascinante.
Arrivammo al monastero nella tarda mattinata, conobbi anche gli altri monaci. Huda, Butrus e una sorta di novizia di nome Miriam.
Erano tutti indaffarati con le faccende quotidiane. Mi portarono a vedere la mia stanza, si affacciava sul retro del monastero, verso la porta fortificata da dove eravamo entrati. Era una piccola stanza, soffitto di legno, letto per terra. Pulita.
Mangiammo qualcosa tutti insieme. Il mio arabo non era certo migliorato in una notte, capivo molto poco ed ero stanca, andai a riposare e pensai che in quella solitudine – eravamo nel deserto – non so quanto avrei resistito.
La sera faceva ancora piuttosto fresco: ricordo che calata la notte indossavo un maglione, d’altronde eravamo quasi a 1300 mt di altitudine.
Alle 19.30 c’era la preghiera comunitaria una mezz’ora di meditazione e poi la messa.
Erano tutte delle cose nuove per me: il rito, la lingua in cui veniva fatto. Immersa in questa nuova e suggestiva situazione iniziai la mia permanenza per tre mesi in questo angolo remoto di mondo.
Con il passare dei giorni cominciai a conoscere meglio le persone che vi abitavano, alcune più loquaci altre meno.
Durante la settimana c’era un via vai di turisti che si fermavano qualche giorno, alcuni una notte soltanto. Anche qui ci fu un paradosso: in quei tre mesi conobbi una infinità di persone che provenivano da ogni parte del mondo. Americani, australiani, giapponesi, tedeschi, francesi e italiani. Alcuni studenti di arabo che oggi insegnano nelle maggiori università europee ed americane.
Mai mi sarei aspettata di conoscere così tante persone, il mondo girava intorno a Mar Musa.
Il giovedì sera arrivavano anche siriani e libanesi, il venerdì era giorno di festa, appartenevano a confessioni religiose diverse: cristiani ortodossi e di altre Chiese orientali legate a Roma, latini, protestanti. E tanti musulmani, sciiti e sunniti. Tutti, non so se per curiosità, convinzione o cortesia, partecipavano alle funzioni. Mar Musa era una realtà viva ed emozionante di dialogo.
Durante la cena si parlavano tre o quattro lingue diverse, mai nessuno si sentiva estraneo o escluso.
Non ho mai visto a tavola alcol, era mal visto il fumo e solo nelle festività si mangiava carne di montone. Anche p. Paolo aveva smesso di fumare da poco tempo, almeno mi disse così un giorno.
Imparai a mungere le capre, fare il formaggio e raccogliere i boccioli di rosa con cui si faceva la tisana in arabo definita zhourat. P. Paolo con la sua kūfiyya in testa, maglietta bianca e calzoni marroncini, dirigeva in qualche modo il tutto. Non sempre era facile.
A volte nel monastero passavano delle persone con problemi mentali, venivano accolti e collaboravano a portare avanti il lavoro come potevano nei campi, nella stalla, in cucina.
Non si chiedeva altro che collaborazione. Probabilmente ogni tanto veniva qualche funzionario del governo in incognito per controllare chi era di passaggio.
Arrivavano nel monastero famiglie siriane con storie dolorosissime legate alla realtà politica, padri e figli dei quali non si avevano più notizie dopo essere stati imprigionati.
Nel pomeriggio il mio compito era quello di catalogare i libri nella biblioteca situata sotto il grande terrazzo. Si scendevano delle scale e ci si trovava in mezzo ad una bella collezione di libri. Spolverare e catalogare era il mio compito. In una delle finestre aveva fatto il nido un nibbio, vidi i pulcini crescere con la madre che dava a loro il cibo procurato dal maschio.
Chiunque passava da Mar Musa doveva fare qualcosa si collaborava anche per cucinare.
Nel grande tavolo sul terrazzo si mettevano patate, pomodori e altri ortaggi, venivano puliti e tagliati da chi si sarebbe fermato a pranzo. Era anche questo un buon modo per parlare, conoscersi e stare insieme.
Non sapevi nulla di chi stava lavorando insieme a te, potevi trovarti insieme a delle giovani siriane sposate con due o tre bambini che giravano intorno, oppure a un eminente studioso di qualche università. In assoluto anonimato a me toccò la fortuna, un tardo mattino, di sbucciare le patate con Franco Cardini.
Anche fare il bucato si rivelò una esperienza nuova. La biancheria: lenzuola, asciugamani, pigiama, pantaloni e magliette di chi viveva fisso nel monastero, dovevano essere messe in un grande pentolone con del sapone, dopo la bollitura erano sciacquate con il minimo dispendio di acqua. In qualche modo la cosa funzionava.
Nei pochi momenti in cui p. Paolo era libero – spesso era a parlare con le tante persone che avevano bisogno di conforto o bisogno – si parlava di teologia islamica o di orientalisti, fu per me una scoperta il concetto di badaliyya di Massignon, si leggeva il Corano o più semplicemente ci si raccontava qualcosa. Mi parlò degli studi fatti a Napoli all’Orientale, del soggiorno a Parigi dove facendo il lavapiatti esercitava il suo arabo con gli algerini; come aveva scoperto il monastero di Mar Musa, la sua destinazione voluta dai gesuiti nelle Filippine e la disobbedienza nel tornare in Siria per rifar vivere quel luogo di antica preghiera, la sua predilezione per il vangelo di San Marco.
Era un uomo estremamente colto. Parlava molto bene l’arabo, sia il dolce dialetto siriano che il classico. Mi piaceva parlare con lui e ne apprezzavo il coraggio, aveva delle idee molto audaci e senza pregiudizi nei confronti delle altre religioni, comprendeva il disagio delle minoranze cristiane orientali in terra siriana. Amava profondamente la Siria e il suo popolo, arabo cristiano e musulmano.
Solo chi è stato in quei posti sperimenta quanti fraintendimenti possono sorgere con i cristiani orientali quando si parla di dialogo e amore verso i musulmani.
Spesso chi è un missionario (parola non del tutto esatta a suo riguardo) in una terra straniera, in qualche modo rimane estraneo al posto dove vive: non era così per p. Paolo, per quanto ho potuto conoscerlo, era completamente entrato in empatia con questo popolo.
Ogni tanto si arrabbiava e non era facile in quei momenti stargli intorno: lo ammetteva anche lui, ogni tanto diventava iroso, magari per comportamenti sbagliati da parte di tutti noi.
Quando succedeva, il giorno seguente, dopo un colloquio con abuna Jaques (l’altro sacerdote cofondatore di Mar Musa) spariva per un paio di giorni. Non capivo queste improvvise sparizioni; poi con molto tatto qualcuno mi disse che sicuramente era stata una penitenza ordinata in confessione da p. Jaques.
Andava a fare un paio di giorni di preghiera e digiuno in un eremo sulla montagna.
Al suo ritorno tutto tornava normale, anche il suo umore.
L’intensità delle emozioni che si provavano in quel posto erano estremamente intense, le relazioni con le persone, gli incontri di poche ore diventavano importanti.
Ho pensato molte volte al perché, mai in altri posti mi è capitato qualcosa di simile. Era come se cadessero le barriere, tutti eravamo più veri.
Prima di arrivare nella parte alta del monastero, nel piccolo sentiero lungo il crinale, c’era una grotta con l’antico cimitero dei monaci; nulla, tranne una croce, faceva riconoscere quel posto.
Avvicinandosi, si potevano vedere le ossa in piccole nicchie che il vento e la pioggia avevano scoperto. Era un luogo particolare che riportava alla memoria la vita dei padri del deserto siriaco.
Il cerchio della vita, quella terrena, finiva lì.
Con molta lentezza anche il mio arabo in qualche modo era migliorato; mi ricordo lo stupore nel momento in cui, senza rendermene conto, iniziavo a capire e rispondere in arabo, momento magico dell’apprendimento di una lingua. Ma certamente a Mar Musa non imparai solo quello.
Lasciai Mar Musa un pomeriggio di fine agosto per tornare in Italia. Fu difficile scendere i gradini e girarmi per dare un ultimo sguardo al monastero; mi ripromisi con estrema determinazione che sarei tornata. Purtroppo non fu così.
L’improvvisa malattia e morte di mio padre mi fecero prendere altre strade. Ricordo la telefonata di p. Paolo qualche giorno dopo che mio padre venne a mancare, parole di conforto e di speranza, un atto pieno di generosità ed affetto.
Non ci furono molte occasioni per rivedersi, forse un paio, qualche lettera, ancora cartacea, in cui mi parlava dei nuovi progetti e gli sviluppi della nuova costruzione accanto al monastero centrale. Talvolta mi arrivava qualche notizia da persone che nel frattempo erano state in Siria ed avevano trascorso lì qualche giorno.
Ho rivisto Paolo, per l’ultima volta, nella primavera del 2013; era maggio, lo incontrai davanti all’università Gregoriana, vestito da sacerdote. Si accese una sigaretta e me ne offrì una.
Mi raccontò che era stato espulso dalla Siria; alcuni dei suoi monaci erano ancora a Mar Musa e mi chiese di pregare per Huda che era rimasta lì. Sottolineò il fatto che era diventato un posto pericolosissimo.
Mi accompagnò verso il Pontificio Istituto Orientale a piazza santa Maria Maggiore, lungo via Nazionale fece l’elemosina ad un povero dicendogli “prega per me”.
Disse che sarebbe rientrato dalla Turchia via terra in Siria; non poteva restare in Italia, doveva dare istruzioni alla sua comunità: “perché quando muore un fondatore c’è sempre scompiglio”.
Ci siamo salutati all’arrivo a p.zza Santa Maria Maggiore, un abbraccio e la promessa di risentirci. Mentre si allontanava, pensai che non l’avrei mai più rivisto.
Ringrazio ancora oggi di questo breve incontro perché mi diede l’occasione di abbracciarlo e ringraziarlo.
Dal luglio 2013 non abbiamo più notizie di p. Paolo; rientrato in Siria, se ne persero le tracce dopo il tentativo di contattare i rapitori di due vescovi ortodossi, uno della Chiesa greco-ortodossa e l’altro di quella siro-ortodossa, in una delle zone più pericolose della Siria.
Penso che soltanto questo fatto possa far capire molto della generosità, coraggio, onestà e fiducia nel prossimo di p. Paolo.
Arrivederci Paolo, ovunque tu sia!