Minima Cardiniana 429/7

Domenica 30 luglio 2023, San Pietro Crisologo

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
ALLA SCOPERTA DI UN NUOVO RENOIR
di Eleonora Genovesi
Seconda parte

Una mattina, siccome uno di noi era senza nero, si servì del blu: era nato l’impressionismo” (Pierre-Auguste Renoir)

Ed eccoci pronti a proseguire il nostro cammino nel mondo del Renoir che, superata la stagione impressionista, dà origine ad un nuovo classicismo, come già svelato dal titolo della mostra. Un classicismo cui giunge dopo il viaggio in Italia compiuto nel 1881 che lo portò a staccarsi definitivamente dalla cerchia degli impressionisti dei quali non aveva mai approvato gli atteggiamenti anti-passatisti. Il nuovo Renoir non voleva più trasmettere la fugacità tipica del linguaggio impressionista, bensì persistenza di figure che fossero al di fuori del tempo e dello spazio. Il nuovo Renoir riconosce in Raffaello il vero maestro della luce, pur non avendo Raffaello mai dipinto all’aria aperta. Approdiamo ora alla Sezione 6 dedicata ai PAESAGGI in cui le vedute esterne si alternano con foto della vita di Renoir.
Continuiamo così questo viaggio che, attraverso gli occhi dell’artista francese, ci porta ad ammirare paesaggi del sud della Francia. Renoir, pur ritenendosi un pittore di figure, si dedicò anche al soggetto paesaggistico, sia durante la fase impressionista, che, successivamente, ispirato dai viaggi in Algeria ed in Italia e dal contesto paesaggistico della tenuta acquistata nel 1907 a Cagnes-sur-Mer, in Costa Azzurra.
Un Renoir ormai vecchio, vedovo ed in preda ad una forte artrite reumatoide, si innamora della luce del Mezzogiorno francese ed acquista una casa nel vecchio borgo di Cagnes-sur-Mer, facendosi costruire nel giardino un atelier dove continuerà a dipingere all’aperto sino al suo ultimo respiro.
Le opere in mostra coprono un arco temporale che va dal 1892 con la La Seine à Argenteuil, un omaggio ad un luogo frequentato nel periodo impressionista quando andava a trovare il suo amico Monet che viveva ad Argenteuil, per dipingere con lui all’aria aperta, al 1913, con paesaggi del sud della Francia. Nonostante il paesaggio sia uno dei soggetti più difficili da trasporre sulla tela, la possibilità di dipingere en plein air gli trasmise una gioia che si riverbererà sulla sua pennellata, come si può vedere in Antibes o Jeune fille et enfant dans un cadre champêtre (1900) e in Jeune fille en rose dans un paysage (1903 circa) che richiamano alla mente le scene bucoliche della pittura di Camille Corot. La pittura di Renoir si fa più “dolce e leggera” come scriverà al suo mercante d’arte Durand-Ruel, quasi a riagganciarsi alla pittura gioiosa e leggera del pittore rococò Jean-Honoré Fragonard.
Di tutti i dipinti presenti in questa sezione l’unico richiamo a Parigi lo si trova nella Seine à Argenteuil. Per il resto si tratta di vedute realizzate nel sud della Francia, in particolar modo nell’amata Cagnes-sur-Mer, dove Renoir visse negli ultimi anni della sua vita, affascinato dalla luce del mezzogiorno come gli era già accaduto anni prima con la luce italiana.
Ed anche in questa sezione le opere di Renoir sono accostate a quelle di artisti italiani quali Enrico Palucci con la sua Veduta del Lago di Iseo del 1946 e Arturo Tosi con Strada campestre a Cerete (1925-1930), ma particolarmente con Carlo Carrà, nella sua fase naturalistica, di cui è presente l’opera Case nel bosco del 1931caratterizzata da una pennellata che si cheta dando luogo ad una sintesi formale che riesce a coniugare sapientemente: robustezza delle immagini, vibrazione cromatica e forte senso della spazialità. Si passa poi alla Sezione 7: LA NATURA MORTA. E qui lascio la parola a Renoir: “Dipingere fiori riposa il mio cervello. Non mi costa lo stesso sforzo intellettuale di quando ho davanti una modella. Quando dipingo fiori, pongo sulla tela toni di colore, sperimento audaci valori, senza preoccuparmi di sprecare una tela. Con una figura umana non oserei tanto”.
Pare che l’ultima parola pronunciata da Renoir il giorno della sua morte, il 3 dicembre del 1919, sia stata Fleurs, fiore, alludendo alla sua intenzione di dipingere una composizione di fiori. Il genere della natura morta, in particolar modo quello floreale, è un genere già trattato da Renoir in gioventù, che fu dapprima interrotto nel corso della fase impressionista, per poi essere ripreso alla fine di questa. La citazione sopra riportata ci aiuta a capire lo spirito con il quale l’artista si riaccosta allo stile floreale. Tra le nature morte in mostra risalta per bellezza ed intensità cromatica le Rose in vaso del 1900, in cui una pennellata corposa conferisce grande plasticità alle forme, plasticità esaltata dalla potenza del colore.
E la stessa pennellata la ritroviamo nei Pesci e nei Vasi a sfera (Vases Boules), entrambi del 1905. Quest’ultima opera, creata da un ormai anziano Renoir, è realizzata con grande maestria. Come avvenuto nelle sezioni precedenti ed in ottemperanza al principio di confrontare le opere di Renoir con quelle di artisti di epoche passate, coeve e posteriori, che caratterizza questa mostra, anche per quanto attiene il tema della natura morta è possibile operare dei confronti estremamente costruttivi con altri autori, come con Dalie del 1932, di Filippo De Pisis.
Due diversi modi di interpretare lo stesso tema: il ferrarese De Pisis, attivo a Parigi agli inizi degli anni Trenta, in cui dipinge en plein air come i grandi vedutisti ed entra in contatto con Edouard Manet e Camille Corot, e dove elabora una sorta di “stenografia pittorica” di matrice impressionista, che si traduce con una pennellata concitata, la quale, intersecandosi, crea un intreccio di linee ariose, esaltate dalla chiarezza dello sfondo, come si può vedere nel dipinto presente in mostra dal titolo Dalie. Di contro Renoir tende a dare matericità e senso di stabilità alle sue nature morte. Il confronto fra le nature morte di Renoir e quelle di altri artisti non si limita al solo De Pisis.
Troviamo anche Vaso di fiori realizzato dal lombardo Arturo Tosi nel 1946, dal forte intimismo naturalistico e poi Ortensie del ligure Enrico Paulucci del 1935 che guardava ai colleghi francesi della generazione precedente.
Renoir tratterà il soggetto della natura morta sino alla fine, rendendo i suoi dipinti sempre più luminosi, di una luce pura.
E racconterà che quando dipingeva i fiori si concedeva il lusso di sbagliare e di sperimentare arditamente con il colore senza porsi alcun problema nel caso la tela fosse andata sprecata.
In questo modo Renoir, sbagliando continuava ad imparare, traendo grandi insegnamenti dai suoi errori e il mezzo di questo suo arricchimento erano i fiori, da lui tanto amati al punto da essere proprio “fiori” l’ultima parola da lui pronunciata prima di morire. Al contrario, il percorso non termina in questo modo per il visitatore che prosegue il suo viaggio arrivando nella Sezione 8: IL RITRATTO FEMMINILE, tra tutte le sezioni, forse, la più complessa.
Che Pierre-Auguste Renoir fosse particolarmente attratto dal soggetto femminile è cosa risaputa. Nel corso degli anni l’artista nel rappresentare soggetti femminili preferirà esaltare l’aspetto estetico, quello di una bellezza ammirata, e non quello psicologico, al punto che i volti risultano quasi inespressivi come nel ritratto di Colonna-Romano del 1912 o in quello della collezionista Adèle Besson del 1918 in cui l’inespressività atemporale è ripagata da una notevole forza cromatica e dall’abilità nel condensare la figura della donna con lo sfondo indefinito.
Renoir nel ritratto di Adèle Besson non ci restituisce l’immagine di una donna appartenente ad un ceto sociale elevato, ma quella di una donna vista come “natura pura”.
E continuando il gioco di confronti con artisti italiani il corrispettivo dell’inespressività atemporale dei volti delle donne di Renoir lo si può ritrovare negli occhi in pasta vitrea di Giuliana, testa in bronzo realizzata nel 1942 da Antonietta Raphaël Mafai in cui la sensualità plastica di Rodin si fonde con il primitivismo di Jacob Epstein.
L’atemporalità dei ritratti femminili di Renoir vuole eternare il soggetto cogliendone, non la psicologia, ma gli elementi di pura natura, rifuggendo così dall’effimero nel tentativo di raggiungere l’eterno.
E poi con mio sommo stupore vedo apparire dinanzi ai miei occhi il Cristo in croce e Santa Maria Maddalena, dipinto realizzato a cavallo fra il 1540 ed il 1560 dal bresciano Girolamo Romano detto il Romanino. Immagino vi chiediate come ho fatto io cosa possa collegare quest’opera rinascimentale con i ritratti femminili di Renoir. Beh, questo più che ardito accostamento è dovuto alla felice intuizione che ebbe nel 1986 lo storico dell’Arte Carlo Ludovico Ragghianti, il quale nella precoce libertà della femminilità della Maddalena ai piedi del Cristo crocifisso, libertà incurante di “venustade et proportione” vede una sorta di “pre-incarnazione di Renoir”. In effetti il Romanino fu un artista vivace ed originale nella cui pittura convergono sollecitazioni diverse, rielaborate con uno stile personalissimo, ribelle all’ufficialità del suo tempo, ponendosi così come un precursore di Caravaggio e della modernità. La mostra prosegue alla scoperta di Gabrielle e degli affetti familiari dell’anziano artista nella Sezione 9 dal titolo Gabrielle e il mondo degli affetti familiari. La Gabrielle in questione è Gabrielle Renard, cugina della moglie di Renoir, che nel 1894 si trasferisce a casa dell’artista come bambinaia. E da subito diviene la modella preferita di Renoir oltre ad instaurare un legame molto forte con il piccolo Jean Renoir, secondogenito del pittore e futuro regista. Gabrielle resterà dai Renoir per 20 anni, anni molto felici per l’artista, a dispetto del peggioramento delle sue condizioni di salute.
Renoir realizzerà numerosi dipinti dei suoi affetti familiari: ritrarrà i piccoli Jean e Pierre, e Gabrielle da sola e con il figlio Jean. Tra i ritratti presenti in mostra meritano una citazione il bellissimo quanto sconosciuto Tete de Gabrielle, un olio su tela prestato dal Museo di Belle Arti di Rouen, e due disegni a sanguigna: Jean Renoir dans les bras de Gabrielle, con tutta probabilità solo uno studio preparatorio, che emana grande dolcezza e grazia, ponendosi come un ulteriore esempio di sapiente equilibrio di morbidezza e linearismo, e Ritratto del figlio Pierre in cui Renoir ritrae il suo terzo figlio a meno di un anno. Anche questo disegno è permeato di dolcezza come l’altro. Ma il vero capolavoro è Gabrielle, un olio su tela del 1910 proveniente dal Petit Palais di Ginevra che nella sua morbidezza e gioia cromatica costituisce la summa dei canoni del ritratto femminile renoiriano. La dolcezza degli affetti di Renoir trova il suo equivalente nell’opera del bolognese Bruno Saetti di cui in mostra è presente il bellissimo olio su tela dal titolo Bambina sul cavalluccio del 1932, ma ancor più nelle opere del fiorentino Armando Spadini, definito nel 1919 da Giorgio de Chirico come un “Renoir dell’Italia”.
Di Spadini, eccellente disegnatore e appassionato colorista, si possono ammirare diverse opere quali: la Famiglia a Villa Borghese del 1912-13, Sotto la pergola del 1914, Bambini all’aria aperta e Bambina tra i fiori entrambi del 1915, e Bambini che studiano del 1918 il dipinto preferito del Presidente Luigi Einaudi, oltre ad essere il retro della banconota da 1000 Lire entrata in circolazione nel 1990.
La pittura di Spadini è sempre fluida e pregevole dal punto di vista degli impasti. In Bambini che studiano vediamo due bambini appoggiati ad un tavolo mentre sono intenti a scrivere.
L’immagine, dal taglio fotografico, costruita con un colore pastoso quanto delicato e la luce che sembra accarezzare morbidamente i ragazzi, evocano dolcezza nello spettatore.
A conclusione della mostra troviamo la Sezione 10 intitolata Renoir incisore e litografo, preceduta da un bellissimo video di una gita in campagna dell’artista.
A partire dal 1890 Renoir si dedica all’arte dell’incisione.
Avendo riscontrato difficoltà nel rendere la sua personale tavolozza cromatica, dopo la pratica sia nelle acqueforti che nella litografia, decide di adottare una linea chiara di solo contorno. Tra tutte le litografie e le acqueforti presenti in mostra, tutte belle peraltro, quelle che mi hanno colpita in modo particolare sono la litografia del 1904 dal titolo Claude Renoir a testa china, un ritratto estremamente delicato del figlio Claude e l’acquaforte Le chapeau épinglé (La spilla nel cappello), successivamente riprodotta a colori, di una grazia davvero particolare o per dirla con le parole di Henri Loÿs Delteil, di una “grazia innata, di un’innocenza e freschezza che appartengono soltanto a lui”.
E dulcis in fundo, una raffinatezza cinematografica firmata da Jean Renoir, figlio del pittore e celebre regista: in un film del 1936, Una gita in campagna, Jean omaggiò il padre richiamando in eleganti inquadrature le scene e le atmosfere dei suoi dipinti. A conclusione di questa straordinaria mostra che fa conoscere un Renoir meno noto, ma non per questo meno vero del Renoir impressionista, mi rendo conto che, sala dopo sala non si hanno difficoltà nel trovare correlazioni tra quel che vide e da cui trasse ispirazione Renoir e coloro che ne furono influenzati. Tutto questo grazie alla bravura del curatore Paolo Bolpagni che grazie a questa retrospettiva ci mostra come Pierre-Auguste Renoir sia davvero un che di raro con la sua perpetua ricerca dell’eterno che, a fine mostra, si può dire abbia sfiorato. Questa mostra sul nuovo classicismo di Renoir ci restituisce l’immagine di un artista al contempo inquieto e calmo, testardo ma sempre pronto a crescere come dimostra il suo distacco dall’impressionismo alla ricerca di qualcosa di stabile ed eterno che lo ha reso un modello per moltissimi artisti, non solo suoi contemporanei ma anche venuti dopo di lui.

“Per fare questo disegno ci ho messo cinque minuti, ma ci sono voluti sessant’anni per arrivarci
(Pierre-Auguste Renoir)