Domenica 17 settembre 2023, San Roberto Bellarmino
IL CORAGGIO DI CHIAMARE LE COSE COL LORO NOME. RIFLESSIONE SU UN PUNTO SUL QUALE ETICA, POLITICA ED ECONOMIA CONVERGONO
IL LAVORO
di Bruno Bosi
L’economia, l’attività economica è la vita della società e alla base sta il lavoro. Tutte le possibilità offerte dalle nostre ricche e complesse società nascono dal lavoro. Il lavoro è l’unica fonte di ricchezza, il denaro è solo l’ombra della ricchezza, la sua consistenza deriva da un atto di fede, basta voltargli le spalle e scompare senza lasciare una traccia di sé. Esigere il giusto riconoscimento di valore al lavoro significa togliere la funzione di riserva di valore al denaro. La politica per incapacità, per viltà per difendere dei privilegi si impegna a divulgare la fede nel mito della crescita eterna e nella funzione di riserva di valore del denaro. Il sistema attuale, il capitalismo finanziario, ama definirsi come società dell’abbondanza ed è vero per quanto riguarda l’offerta di beni prodotti col lavoro, ma nello stesso tempo è la società della scarsità di denaro per chi lavora. Si tace sul fatto che la funzione di riserva di valore attribuita al denaro accatastato nella disponibilità della finanza, inutilizzato e inutilizzabile, è solo la misura di quello che manca, e manca perché subdolamente tolto a chi lo produce col lavoro.
I liberisti vedono il lavoro come una componente del fare affari e dicono: “gli affari hanno una sola responsabilità sociale, quella di utilizzare le proprie risorse a svolgere attività destinate ad aumentare i profitti”. Il lavoro è considerato una merce e quindi il lavoratore è equiparato ad un qualsiasi utensile da lavoro dal quale è importante riuscire ad avere il massimo pagando il minimo. Se questo non basta si creano degli esclusi, dei disoccupati che saranno mantenuti dalla carità pubblica, a carico anche questi di chi lavora, e questa sembra essere l’unica categoria destinata ad un continuo incremento negli anni a venire. Se la politica non riesce o non vuole indicare la possibilità di una soluzione, tutti questi esclusi dovranno vivere nella speranza di riuscire miracolosamente ad uscire da questa situazione riuscendo non importa come a procurarsi del denaro, dovranno cercare una soluzione individuale, dovranno affondare un altro per restare a galla e così la società e la civiltà scivolano sempre più in basso.
I disastri prodotti da trenta anni di neoliberismo sono ormai percepiti da tutti, dobbiamo dirottare le forze della nostra società capitalista e democratica a divulgare la necessità di accettare dei limiti. Sono indispensabili per la tutela dell’ambiente e delle relazioni tra umani sia come singoli che come comunità. Se il denaro è lo strumento più efficace per procurarsi altro denaro è evidente che chi ne ha la disponibilità non si stancherà mai di accumularne, ma si sorvola sul fatto che questo denaro deve essere prelevato dal valore che dovrebbe essere riconosciuto al lavoro. In pratica succede che chi di denaro ne ha già tanto da non poterlo utilizzare ha di fronte la strada spalancata per accumularne ancora di più mentre chi fatica ad arrivare a fine mese vede inasprirsi ancora di più le difficoltà a tirare avanti. Diventa sempre più difficile iniziare un’attività con prospettive di successo. Prevalgono gli egoismi individuali premiati non tanto dalla disponibilità di queste abnormi quantità di denaro inutilizzato e inutilizzabile, ma dalla trasformazione di quello che dovrebbe essere il potere economico del denaro in potere politico che sta al di sopra delle istituzioni non più democratiche. Le istituzioni anziché adoperarsi per distribuire equamente le opportunità tutelano i privilegi attribuiti al denaro: col denaro tutto è possibile senza denaro tutto è impossibile. Solo cambiando la funzione del denaro si può perseguire la moderazione necessaria ad una società per rispondere ai requisiti di coesione necessari per risolvere i problemi ambientali e di pacifica convivenza. I più capaci ne possono avere di più ma lo devono spendere, in un sistema circolare che si autoalimenta, senza avere la possibilità di trasformarsi in potere politico. Se uno non lo spende lo perde, ma questo comporterebbe un miglioramento della qualità della vita anche di chi ha avuto un meritato successo, consentendo di dirottare le proprie energie su passioni alternative all’accumulo di denaro. Il sistema attuale è sorretto principalmente dalla smisurata fede nelle virtù del denaro da parte di chi non ne ha ed è costretto a puntare tutte le sue speranze nella possibilità sempre più remota di procurarsene con qualsiasi mezzo che significa sgomitare senza scrupoli coi propri simili. Sopraffare gli altri per non essere sopraffatti. Scompare quella che è la virtù fondamentale di una democrazia, la moderazione delle proprie pretese per consentire anche agli altri di realizzare pretese uguali alle nostre. Non vogliamo una società che persegue l’uguaglianza assoluta ma nemmeno che persegua una disuguaglianza illimitata. Uguaglianza è solo un attributo che per avere un senso deve essere riferito a qualcosa o a qualcuno, parlando di problemi sociali o economici nelle relazioni tra umani lo possiamo riferire all’egoismo o alla solidarietà presenti in tutti gli esseri umani. Dobbiamo fare in modo che le aspettative e le aspirazioni individuali siano contenute entro limiti che consentano anche agli altri la possibilità di realizzare le loro aspettative, è la soluzione più conveniente, la più efficiente da un punto di vista economico, ed è anche l’unica accettabile da tutti. Questo non significa pretendere di costruire un mondo dove siamo tutti uguali, l’uguaglianza non esiste in natura, siamo tutti diversi, per fortuna, e questa diversità è uno dei valori da preservare. La diversità è la ragione di esistere del mercato e dello scambio in economia, ma è anche il motore di ogni forma di progresso sociale, culturale, antropologico. Non dobbiamo aver paura a dichiarare anche in campo economico l’uguaglianza dei diritti, come è stato fatto per i diritti civili e politici, tanto la spinta individuale a valorizzare ognuno le proprie capacità, garantirebbe il livello di diversità che è indispensabile per ogni forma di progresso.
La forza del capitalismo liberista sta nella valorizzazione delle capacità individuali attraverso la competizione, una relazione che ha punti in comune con la conflittualità e la sopraffazione in quanto innalza i vincitori ma penalizza i vinti. La competizione è uno stimolo che produce dei risultati impossibili in un’economia pianificata dove vengono eliminate le ambizioni, la propensione al rischio, le capacità che appartengono alla figura dell’imprenditore privato. Una competizione per essere tale richiede di rispettare delle regole, fondamentale è partire alla pari. È interesse della società mantenere la possibilità di competere per tutti, senza esclusi, partendo da condizioni tendenzialmente uguali. Se invece i risultati delle competizioni presenti dipendono dai risultati ottenuti nelle competizioni passate, i ruoli sono già stabiliti e diventa più interessante affidarsi alla carità pubblica piuttosto che partecipare ad una competizione dagli esiti scontati. È l’esigenza di allargare il gioco alla partecipazione di tutti i consociati in una situazione di pari opportunità, che richiede un intervento della politica in economia. Senza questo intervento la competizione capitalista tende a creare degli eccessi nella spartizione della ricchezza che diventano dei veri e propri privilegi, delle concentrazioni di potere economico e politico che vanno ad annullare la competitività da un punto di vista economico e la libertà da un punto di vista politico.
I politici fanno a gara a trovare nuove categorie da ricoprire col sacro unguento della dignità calata dall’alto, come se fosse una grazia concessa dalla benevolenza dei politici illuminati, mentre hanno rinunciato alla tutela della dignità che deriva dalla partecipazione al lavoro e al sentimento di solidarietà che deve esserci fra consociati. La dignità che viene dal lavoro e la solidarietà indispensabile per far parte di una società, sono il presupposto per l’esistenza delle istituzioni politiche democratiche, non possono essere da queste rinunciate. Se togliamo al lavoro, la funzione di garanzia di rispetto dei diritti di chi lavora, con che cosa lo possiamo sostituire? Come potremo preservare le diversità e la dignità se non dipendono più dalle proprie capacità, ma da una distribuzione dall’alto dovuta alla benevolenza dei magnati della finanza? Prima di scardinare le capacità acquisite fino ad oggi dovrebbero esserci delle risposte a queste domande, poi se il lavoro sarà svolto dai robot ben venga, ma prima si deve chiarire cosa ne sarà di quelli che fino ad oggi hanno materialmente prodotto la ricchezza e il progresso tecnico-scientifico, in cambio della promessa di un futuro migliore. Ci devono spiegare come si realizzerà l’esistenza umana, se non ci si potrà sentire parte attiva del divenire della società, se si deve essere parcheggiati in attesa di una distribuzione dall’alto, relegati nella consapevolezza di essere diventati un peso inutile. Lo stesso a maggior ragione per l’intelligenza artificiale, prima di buttare risorse nello sviluppo di queste tecnologie ci devono dire quali benefici e per chi li apporteranno. Se sarà possibile sostituire i lavoratori con l’intelligenza artificiale questi saranno relegati al ruolo di esclusi o di scarti da smaltire. Le conquiste tecnico-scientifiche sono da considerare fonte di progresso se contribuiscono ad un miglioramento delle condizioni di chi lavora.
Anche se la ricchezza di una società è fornita solo da chi lavora, in un sistema a capitalismo finanziario, viene accreditata a chi si vede attribuita la gestione dei flussi di capitale. Con la monetizzazione della ricchezza si consente al potere finanziario, in cambio di prestiti virtuali, di esigere dal potere politico la tutela delle sue pretese, infondate da un punto di vista economico. La politica fa sua la logica perversa della finanza predatoria e si adopera a farla accettare come razionalità e normalità. Il capitalismo finanziario ha stabilito un sistema di regole incomprensibili che si traduce nella distinzione tra i dominatori creditori e i dominati debitori che sono i lavoratori. Con la complicità della politica si instaura un sistema che consente agli addetti alla finanza di spacciarsi come creditori sugli unici soggetti solvibili, cioè coloro che producono la ricchezza vera, coloro che lavorano e per questo trattati come debitori. I debiti sottoscritti dai politici sono accollati a chi produce ricchezza vera, una parte della quale, in continuo aumento, sarà destinata alla restituzione di un prestito virtuale. È la parte che dovrebbe essere destinata a risolvere le ingiustizie, l’esclusione e la povertà che hanno raggiunto dei livelli intollerabili e nello stesso tempo sono causa di inefficienza anche da un punto di vista puramente economico. Le quantità abnormi di denaro che si dice esistano nella disponibilità dei nababbi della finanza sono solo potere politico di mantenere una parte dell’umanità, in aumento, in condizioni di povertà. Povertà che viene percepita come mancanza di denaro, il denaro destinato alla finanza è la misura di quello che manca, ed è desiderato ed idolatrato sopra tutto da chi non ne ha, che in questo modo diventa il più agguerrito sostenitore del sistema che lo tiranneggia. Deve essere chiaro che se chi, con le regole attuali, si vede attribuita la disponibilità di questo denaro decidesse ad un certo punto di riemetterlo, anche a titolo di dono, nell’economia reale, potrebbe solo procurare ulteriori disastri. La stessa cosa se il denaro fosse prelevato con azioni rivoluzionarie. È un meccanismo perverso per il quale non sono previsti limiti né come quantità né come termini temporali, sembra destinato a protrarsi fino a quando non soffocherà l’economia reale e crollerà con questa. Questo è stato ammesso dai capi di stato occidentali in occasione della crisi del 2007 quando la finanza ci ha trascinati ad un passo dal crollo. Il presidente americano dichiarava: “Ridistribuire la ricchezza frutto del lavoro, a chi materialmente la produce, solo questo può riportare il mondo ad una crescita sostenibile, in direzione della felicità”; ma subito smentita da un’altra dichiarazione sempre del presidente Obama: “La condotta dei grandi gruppi finanziari va considerata riprovevole sotto il profilo etico, ma dal punto di vista legale non si può imputare loro nulla”.
Questa seconda affermazione sostiene il contrario della Dichiarazione di indipendenza americana considerata la base della moderna democrazia: “Tutti gli uomini sono creati uguali, il Creatore ha fatto loro dono di determinati inalienabili diritti, tra i quali la vita, la libertà e la ricerca della felicità. Per salvaguardare questi diritti gli uomini si sono dati dei governi che derivano la propria giusta autorità dal consenso dei governati; ogniqualvolta una determinata forma di governo giunga a negare tali fini è diritto del popolo modificarla o abolirla, istituendo un nuovo governo che basi la sua opera su quei principi che sembrano i più adatti a garantire la sicurezza e la felicità dei governati”.
Non essendoci giustificazioni economiche o politiche per il ruolo attualmente svolto dalla finanza, questa deve ritagliarsi uno spazio virtuale, al di fuori della vita reale e della società, dove non valgono i limiti comuni a tutto ciò che è umano e terreno. Il denaro circolante all’interno dell’economia reale deve essere scarso per stimolare l’indaffaramento di chi svolge attività produttive valutate solo in base alla quantità di denaro che possono procurare. Nello stesso tempo la pressione di mezzi di informazione che principalmente sono uno stimolo a desiderare un modello di vita consumista con una pubblicità falsa e ingannevole esaltano la disponibilità di denaro come la possibilità di esaudire ogni desiderio: col denaro tutto è possibile, senza denaro tutto è impossibile. Il denaro diventa sempre più importante per chi non ne ha. Chi non ne ha ma nello stesso tempo desidera averne diventa di fatto il più convinto sostenitore del sistema che lo opprime.
Il lavoro è l’arte di produrre la ricchezza reale, il benessere materiale che comprende le risorse per la soddisfazione dei bisogni essenziali, di riposo, svaghi, conoscenza, sicurezza. Anche la speranza in un futuro migliore o almeno non peggiore è un bene importante per la qualità della vita, è la possibilità di fare progetti. La situazione ottimale si ottiene se tutti partecipano, nei limiti delle loro capacità, all’attività produttiva, ma è la distribuzione che viene fatta della ricchezza prodotta che determina le condizioni di vita della comunità. I beni prodotti devono essere destinati ai lavoratori o a chi per ragioni di età o di altri impedimenti non può svolgere mansioni lavorative.
Il lavoro è il contributo che l’individuo è tenuto a fornire alla causa della società, in base alle sue capacità, per farne parte. Oltre agli addetti alle attività produttive deve mantenere la politica, fornire i mezzi per agire a tutte le istituzioni e tutti gli strumenti utili alla società, (istruzione, sanità, giustizia, infrastrutture, ecc.) e aimè deve mantenere anche i privilegi e la distinzione sociale dei parassiti. Ammettiamo che anche questo sia un aspetto inevitabile nelle relazioni umane, ma il compito della politica è proprio quello di limitare i danni prodotti da questa categoria. Si devono stabilire dei limiti per i parassiti mentre il capitalismo finanziario neoliberista ha innescato un meccanismo che richiede di destinare una parte della ricchezza prodotta col lavoro, in continuo aumento, a chi si occupa di barattare denaro contro denaro. La svalutazione del lavoro è finalizzata a garantire una rendita alla finanza. Non possiamo accettare che un’economia sia considerata efficiente se e in quanto è capace di peggiorare le condizioni di vita di chi lavora perché le teorie neoliberiste pretendono una diminuzione continua del costo del lavoro per destinare i profitti di questa politica ad un’entità che può solo prendere ma non ha niente da dare. Le resistenze di chi lavora a queste pretese sono aggirate cercando nuove categorie di lavoratori da sfruttare, o delocalizzando la produzione nei paesi più poveri o accogliendo gli immigrati per svolgere mansioni a condizioni che per noi sono per ora inaccettabili. I nuovi eldorado sono i paesi dove ai lavoratori sono riservati trattamenti di semi schiavitù.
Le attività produttive sono giudicate solo con riguardo alla quantità di denaro che se ne riesce a ricavare con una continua svalutazione del lavoro che equivale ad un impoverimento della società. Una volta che riesce a determinare una scarsità di denaro nell’economia reale, ecco che la finanza si dice generosamente pronta a concedere nuovi prestiti sia ai privati che alle istituzioni pubbliche. Chiedere nuovi prestiti, significa concedere titoli per imporre ulteriori ristrettezze economiche all’economia reale, indebitarsi significa rinunciare alla libertà: “Un americano indebitato è un americano che non sciopera” diceva Alan Greenspan.
Per essere certi che alla scadenza del prestito, di una ricchezza solo virtuale, ci sia la disponibilità e solvibilità del debitore, a restituire una parte della ricchezza reale prodotta col lavoro, al creditore è assegnato il potere di stabilire le condizioni che devono essere riservate a chi lavora, considerate un costo che deve essere limitato al minimo indispensabile. È il ruolo svolto dalle agenzie di rating, che danno il voto ai politici. Il voto sarà alto se questi anziché fare gli interessi dei loro elettori, cittadini lavoratori, garantiranno le pretese dei falsi creditori.
Per ritrovare il cammino in direzione di un futuro migliore dobbiamo cercare nel groviglio di relazioni che ruota attorno al ruolo riservato al lavoro per determinare una rivalutazione del lavoro. Sono passati più di due secoli da quando ebbe origine la rivoluzione francese che sinteticamente ebbe origine da questa affermazione: “Il terzo stato (chi lavora) è tutto, la nobiltà e il clero (chi non lavora) non sono niente. Sono cambiati i termini, ma il problema, rimane lo stesso. Manca un leader politico che abbia il coraggio di dire: il reale (il lavoro) è tutto, il virtuale (il denaro o la finanza) non è niente. Nel capitalismo industriale i problemi erano stati alleviati con trattative e contrasti più o meno violenti che sono durate due secoli. L’incontro scontro era inevitabile tra due categorie, lavoro e capitale, contrapposte ma anche complementari, costrette a convivere, a confrontarsi ed anche ad urtarsi. Il buon senso spingeva a cercare una soluzione pacifica, accettabile e conveniente per tutti, culminate coi quaranta anni successivi alla seconda guerra mondiale dove la politica stabiliva anche le linee guida dello sviluppo economico. Nel nuovo corso neoliberista le relazioni in ambito economico sono determinate dalla silenziosa scomparsa della controparte destinataria delle richieste dei lavoratori. L’homo economicus rassegnato a contare solo per il suo potere d’acquisto non ha più una controparte con la quale dialogare, alla quale presentare le sue lamentele o arrivare a uno scontro fisico. Non è possibile perché l’antagonista è in una dimensione solo virtuale, non ha e non vuole istituzioni ma potere di fatto come le organizzazioni criminali. I principi democratici non possono interferire con la presunta razionalità che i nostri politici riconoscono ad un’entità virtuale come la finanza. Non resta che la rassegnazione a contribuire alla gloria di questo nuovo Olimpo che pretende per poche migliaia di ricchi una quantità di ricchezza pari a quella del resto dell’umanità. Nonostante il grandioso aumento della ricchezza prodotta siamo ancora nella situazione dove si deve supplicare la possibilità di un lavoro, per poter avere di che sostentarsi e da questa possibilità restano ancora esclusi percentuali che vanno da un 10% nei paesi più fortunati alla quasi totalità nei paesi più poveri. L’orario di lavoro nonostante gli enormi progressi tecnico-scientifici è ancora sostanzialmente quello di un secolo fa. Le condizioni retributive devono rispondere a dei criteri di efficienza e di competitività che richiedono una costante diminuzione del costo del lavoro. La ricchezza è prodotta solo col lavoro e dovrebbe essere destinata a chi lavora mentre nel nostro sistema per ricchezza si intende solo la parte che viene sottratta a chi lavora, il lavoro è un costo da limitare o se possibile eliminare per dare una rendita al denaro accumulato inutilizzato. Per di più siamo obbligati ad essere consumisti, ad essere considerati in base al potere d’acquisto mentre i redditi da lavoro tendono a diminuire, aumentano i disoccupati, gli esclusi e si amplificano le distanze tra i primi e gli ultimi. Anche il risparmio di chi lavora finisce alla finanza che compera tramite i fondi di investimento la fabbrica dove questi lavorano e la ristrutturano che significa risparmiare sul costo del lavoro.
Lo sviluppo tecnologico favorito dal capitalismo porta alla disoccupazione tecnologica che può portare vantaggi e svantaggi per la società. Lo svantaggio è quello di trovarsi senza un reddito di sostentamento, il vantaggio è quello di liberare energie per scopi non economici. L’alleggerimento dal bisogno economico potrebbe consentirci la libertà di dedicarci alle nostre passioni, coltivare la saggezza nelle relazioni coi nostri simili e con l’ambiente, ma perché questo sia possibile dovremo adoperarci affinché il poco lavoro che rimane sia equamente distribuito diminuendo le ore lavorate. Queste erano le previsioni di Keynes. A distanza di quasi un secolo dobbiamo constatare che i risultati degli enormi progressi tecnologici sono stati quasi totalmente fagocitati dalla finanza e il problema economico è ancora il maggior problema. Il problema non è più la scarsità di risorse ma una distribuzione assurda di queste. Nonostante l’enorme aumento della produttività del lavoro nell’ultimo secolo, non ci sono stati dei cambi di posizione nella gerarchia sociale, i lavoratori sono ancora gli ultimi, non c’è mai stata una significativa diminuzione dell’orario di lavoro. Il valore del lavoro deve essere legato alla produttività, se questa è decuplicata significa che per vivere deve bastare un decimo del tempo di lavoro dei tempi passati.
L’economia è la collaborazione tra diversi soggetti per la fornitura di idee, di lavoro, di semilavorati, di consulenza o di servizi in vista di un risultato futuro ma incerto. Il denaro svolge una funzione di misura e di certificazione della collaborazione fornita, che associa il fornitore-creditore e l’imprenditore-debitore nella spartizione del risultato, del bene che sarà prodotto. Prodotto che è destinato ai consumi di chi partecipando alle attività produttive, ha ricevuto la certificazione della sua collaborazione con il diritto ad una quantità prestabilita di potere di acquisto espressa in un’unità di conto che è il denaro. L’attuale organizzazione del lavoro tiene in vita degli aspetti di conflittualità e di invidia che potrebbero facilmente essere eliminati ma sono funzionali al “dividi e impera” di chi vuole imporre una relazione di dominio. Le principali cause di conflittualità sono la divisione tra chi lavora nel pubblico e chi nel privato, la differenza di trattamento fiscale tra lavoro dipendente e indipendente che scatenano le interminabili polemiche tra evasori e contribuenti, gli ostacoli ad un cambio di mansioni nel corso della vita lavorativa. Se ci fosse la volontà politica sarebbero problemi facilmente risolvibili. Le istituzioni che si pretendono democratiche devono tendere a produrre più uguaglianza per i diritti, i doveri e le opportunità.
I posti di lavoro offerti dal settore pubblico dovrebbero essere accessibili a tutti, un diritto dovere, che aiuterebbe a capire come funziona la pubblica amministrazione e a sentirsi parte attiva della società. Anche questo era previsto dalla DUDU art. 21: “Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di uguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese”. Dovrebbe esserci una rotazione in base al rapporto tra competenze richieste e competenze disponibili che escluda ogni discrezionalità da parte dei politici amministratori. Solo così si riuscirebbe ad estirpare la piaga della raccomandazione che porta discredito e disprezzo per le istituzioni democratiche.
Come esiste un’agenzia delle entrate per assicurarsi che chi produce la ricchezza ne destini una parte alla società di appartenenza dovrebbe esserci un’agenzia delle uscite per porre un freno alla corruzione dilagante che comporta una lievitazione dei costi di tutte le opere pubbliche per infrastrutture nuove o manutenzione e gestione di quelle esistenti. Lavorare significa produrre ricchezza, sembra una precisazione superflua, ma in realtà esiste anche l’equazione lavoro uguale stipendio, che risponde alla funzione di procurare consensi distribuendo posti di lavoro inutili che pesano anche questi su chi svolge lavori utili.
Si dovrebbe prevedere un limite ai mega stipendi di amministratori di enti pubblici che producono solo perdite. Anche le pensioni gestite dall’INPS dovrebbero essere rigorosamente uguali per tutti. Chi vuole di più è libero di rivolgersi a forme di assicurazione privata. Solo eliminando le ingiustizie più macroscopiche si può pretendere di contrastare la tendenza all’evasione fiscale.
L’imprenditore è la figura più importante in un’economia di mercato, facciamo diventare tutti imprenditori, almeno di se stessi, tutti con partita iva ed eliminiamo il sostituto d’imposta. Lavoro dipendente solo quando si lavora per il pubblico. La ricchezza prodotta col lavoro rimarrebbe a chi lavora e la politica dovrebbe chiedere, umilmente, il necessario per la sua esistenza ai lavoratori. In questo modo i lavoratori avrebbero la forza di far valere i loro diritti. Ci sarebbe una spinta alla cooperazione tra due categorie che con le regole attuali sono spinte alla conflittualità. Un unico trattamento fiscale comporterebbe un maggiore interesse alla politica intesa come gestione della società, e i cittadini tornerebbero a votare. I cittadini lavoratori sarebbero responsabilizzati e spinti ad una azione di controllo sui politici che ridurrebbe i margini di sperpero e di corruzione. Dobbiamo pensare ad un nuovo contratto sociale per distribuire la ricchezza a chi la produce come era stato ammesso anche dai capi di stato occidentali nel 2007. Per poter dedicare più tempo ad aspetti delle relazioni umane che non sono la produzione ma che sono altrettanto importanti per la qualità della vita, l’orario di lavoro dovrebbe essere oggetto di una significativa riduzione. Solo così il lavoro può avere la giusta valutazione e gratificazione. Solo così si può tutelare l’ambiente. Questo consentirebbe di alleggerire i compiti dello stato, di diminuire le tasse, il debito pubblico e l’inquinamento. Si potrebbe allungare l’età pensionabile, ma nello stesso tempo ridurre l’orario di lavoro mantenendo invariata la retribuzione complessiva riservata al lavoro. Delle ore diminuite per il lavoro retribuito, una parte potrebbe essere destinata a lavori di pubblica utilità, che ridurrebbero le spese pubbliche per manutenzione di infrastrutture e beni pubblici. Un’altra parte ad attività relative alla sfera individuale che comunque alleggerirebbero la spesa pubblica per sanità, strutture per anziani e bambini. Questo potrebbe essere il nuovo contratto sociale per il futuro, per chi inizia a lavorare da ora. Per chi ha lavorato fino ad oggi ed ha maturato una pensione i mezzi devono essere trovati risparmiando sulla spesa per armamenti, corruzione, burocrazia. Qualora non bastasse si dovrebbe attingere dall’illimitata disponibilità della finanza in quanto se le risorse sono state dirottate per calcoli sbagliati in quella direzione è perché sono state sottratte dal valore del lavoro. Se invece questa presunta ricchezza illimitata è solo fumo, è ora di renderlo pubblico, e di correggere immediatamente il tiro. Forse si dovrà nazionalizzare qualche attività senza risarcire gli onnipotenti fondi di investimento che stanno fagocitando l’economia globale.
Il lavoro non può essere valutato solo in denaro, non è una merce. Non ha senso stabilire il salario minimo, non lo ha per chi lavora, lo ha per chi vuole estorcere valore dal lavoro. In una società dove tutti devono lavorare, cioè apportare il loro contributo al benessere sociale, si dovrebbe parlare di salario massimo. Se la ricchezza prodotta col lavoro fosse destinata totalmente a chi lavora non ci sarebbe nulla da temere dalla monetizzazione del prodotto del lavoro. Se fosse distribuita in natura o in unità di conto come il denaro non cambierebbe nulla. Il problema nasce quando una parte del prodotto viene destinato ad un’entità esterna ai processi produttivi, un’entità che può solo prendere ma non ha niente da dare. Una parte che deve essere in continuo aumento per dare un senso economico a questa forma di prelievo, un senso solo negativo, la misura di qualche cosa che viene a mancare dalla vita reale per essere accatastato nella disponibilità di un’entità virtuale extra terrestre e disumana. Per impedire questo la remunerazione del lavoro non dovrebbe essere solo monetaria ma dovrebbe comprendere anche il godimento di quei beni non monetizzabili come la tutela dell’ambiente, il riposo, la crescita culturale, la convivialità, la salute. Se il progresso tecnologico è per la società reale, oggi deve essere possibile un elevato tenore di vita con poche ore lavorate da tutti, questo sarebbe anche la più efficace politica di contrasto al riscaldamento globale. Con una riduzione significativa dell’orario di lavoro il cittadino potrebbe prendersi cura dei figli e degli anziani, della propria salute, dell’ambiente. Avrebbe meno necessità di servizi pubblici quindi un minor carico fiscale. Sarebbe più responsabilizzato, incentivato a dare il meglio di se stesso anche da un punto di vista sociale e politico. L’insieme di questi elementi dovrebbero costituire il salario massimo che spetta al lavoro e non è fagocitabile semplicemente perché non accumulabile.
Il contrasto è tra un 1% di privilegiati contro un 99% di progressivamente penalizzati, non dovrebbe essere difficile trovare una solida maggioranza in grado di cambiare le regole attuali. È un circolo vizioso che sembra giunto al capolinea, l’aspirazione ad un futuro migliore è sostituita dalla rassegnazione al declino. Si tratta di smascherare le assurdità fatte passare per razionalità da una casta di politici che in cambio di privilegi si sono posti al servizio della finanza predatoria, stimolando una conflittualità paralizzante per ogni tentativo di riformare un sistema insostenibile. Scrollarsi di dosso il “dividi e impera” che comporta di litigare su tutto per non cambiare niente strumentalizzando divisioni tra destra e sinistra, tra fascisti e comunisti che non hanno più senso. Per il paradigma dominante neoliberista al reale, a chi lavora, sono da destinare solo gli oneri mentre gli onori o privilegi devono andare al virtuale, alle attività finanziarie, oppure dobbiamo cambiare le regole. In una società democratica, come si pretende la nostra, possiamo cambiare le regole, senza ricorso alla violenza, pur perseguendo obbiettivi di portata rivoluzionaria.