Minima Cardiniana 432/7

Domenica 17 settembre 2023, San Roberto Bellarmino

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
L’ARTE DELLA MODA: L’ETÀ DEI SOGNI E DELLE RIVOLUZIONI 1789-1968
di Eleonora Genovesi
Prima parte

O si è un’opera d’arte o la si indossa
(Oscar Wilde)

Ed eccoci ancora qui a parlare di Arte… Vi confesso che personalmente non mi stancherei mai di parlarne perché, come dice Wilde: “Si può esistere senza arte, ma senza di essa non si può vivere”. Ed io rivedo me stessa in questa affermazione. Vedere mostre equivale ad una crescita continua, costante, che allarga sempre più i miei orizzonti… Pausa estiva? Ma neanche un po’: stavolta è toccato al Louvre che, a mio modesto avviso, lo si può aver visto mille volte, ma non lo si è mai visto del tutto.
L’Arte è un modo di essere, di porci nei confronti del mondo. L’Arte è un modo di sentire. L’Arte è stata la prima forma di comunicazione, l’Arte è stata, soprattutto nell’antichità, uno specchio del modo di pensare, di sentire, di vivere la realtà delle diverse civiltà. Per l’artista greco l’arte era portatrice di armonia e bellezza divina ma anche, come avviene in maniera molto chiara nella tragedia, era un mezzo attraverso il quale l’animo umano si risveglia e si rinforza.
Insomma: amate l’Arte perché amando l’Arte amerete voi stessi. Ed io mi sono amata ancora una volta andando a Forlì ai Musei San Domenico a vedere la splendida mostra dal titolo: L’ARTE DELLA MODA: L’età dei sogni e delle rivoluzioni 1789-1968, tenutasi dal 18 marzo al 2 luglio 2023, diretta da Gianfranco Brunelli e curata da Cristina Acidini, Enrico Colle, Fabiana Giacomotti e Fernando Mazzocca. Una mostra davvero unica, come le altre tenutesi nei Musei San Domenico, che ha come soggetto la moda, la moda dipinta, scolpita, ritratta, la moda realizzata da grandi artisti. La moda dunque l’abito: l’abito che modella, nasconde o mostra il corpo.
L’abito quale espressione di potere, di ricchezza ma anche di identificazione e di protesta. L’abito quale cifra distintiva di uno status sociale o elemento identificativo di una generazione. La mostra forlivese ci fa vedere come in uno specchio il profondo e antico rapporto esistente tra Moda e Arte. La moda, non solo come oggetto, ma anche come espressione di un comportamento e l’Arte quale strumento che ci racconta i sentimenti del tempo.
E il risultato finale della visualizzazione del rapporto dell’arte con la moda è davvero straordinario: si parte da Tintoretto e Batoni per poi passare alla moda dei tempi della Rivoluzione Francese e, attraverso 2 secoli, arrivare alla moda dell’epoca della Pop Art fino al 1968.
Il visitatore è calamitato da oltre 200 capolavori d’arte provenienti dalle maggiori istituzioni nazionali ed internazionali, quali la Fondazione Musei Civici di Venezia, il Belvedere di Vienna, le Gallerie degli Uffizi di Firenze, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, la Klimt Foundation di Vienna, il Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra, il Musée d’Orsay di Parigi, il Museo Stibbert di Firenze, la Pinacoteca Agnelli di Torino, le Raccolte Storiche di Palazzo Morando Milano, solo per menzionarne alcuni, capolavori di arte che dialogano con 100 abiti, dando luogo ad una mostra, non solo grandiosa, ma anche originalissima. Basta un attimo e ci si sente trascinati da tanta bellezza. Ma non si tratta di un puro godimento estetico, perché si prova la sensazione di tornare indietro nel tempo. Guardando quegli abiti è come se all’improvviso essi prendessero vita, fossero indossati da persone che si materializzano davanti agli occhi stupiti del visitatore.
Ed è stato proprio Oscar Wilde, volutamente citato in apertura, a sintetizzare il profondo rapporto tra opera d’arte e moda con la frase: “O si è un’opera d’arte o la si indossa”. L’arte, in tutte le sue declinazioni, ha costantemente evidenziato la profonda liaison che ha da sempre con la moda. Il rapporto tra Arte e Moda è un rapporto caratterizzato da influenze reciproche in una sorta di gioco delle parti, in cui l’arte è lo specchio della società e la moda è l’espressione della sua realtà simbolica, il segno tangibile dei cambiamenti sociali e culturali avvenuti nel corso della storia. Se in tutte le civiltà ben strutturate l’abito è l’elemento che dà visibilità al ruolo sociale, l’inizio del cambiamento costante della moda, risultato di un lungo processo storico, segna l’avvento della modernità.
Attraverso gli abiti si mostrano la propria ricchezza ed il proprio potere.
Già dai tempi dell’Ancien Régime farsi notare per l’abito che si indossa assume un significato programmatico ma anche una forma di comunicazione, concetti che perdureranno e cresceranno nell’epoca delle Rivoluzioni dell’età borghese. La moda, dunque, come elemento di comunicazione del potere, come simbolo di potere. Sinonimo di lusso e seduzione, la moda rispecchia la società del suo tempo anche a livello di contraddizioni.
Dalla fine dell’Ottocento e per tutto il corso del Novecento il rapporto fra arte e moda si rafforza: se da un lato gli artisti disegnano abiti creando la comunicazione della moda, dall’altro gli stilisti collezionano opere d’arte cui si ispirano per le proprie creazioni. Per usare le parole di Mondrian: “La moda non è soltanto lo specchio fedele di un’epoca, bensì anche una fra le espressioni plastiche più dirette della cultura umana”.
La mostra è strutturata in 15 sezioni di cui 6 al primo piano e 9 al secondo. Ad accogliere il visitatore, dopo l’Atena e Arcane di Tintoretto, troviamo due ritratti di Pompeo Batoni, quello della Principessa Giacinta Orsini Boncompagni del 1757 raffigurata accanto ai simboli ed alle allegorie delle sue passioni artistiche e quello di Henry Peirce a Roma del 1774.
Ci troviamo nella Prima Sezione: “Dall’Ancien Régime alle Rivoluzioni” come possiamo intuire dai bellissimi abiti, maschili e femminili esposti all’interno di strutture in vetro.
Il politico e saggista francese Jean-Nicolas Démeneunier nel 1776 affermava: “L’homme ne peut laisser à son corps la forme que lui a donné la nature” (“L’uomo non può lasciare il suo corpo nella forma che la natura gli ha dato”). Nello sfolgorio della società francese del Settecento, ben lontana dai problemi che assillavano il popolo, che celebrava l’apparenza, il lusso e la bellezza, l’abito assolveva al preciso compito di indicare lo status sociale della persona.
L’universo dell’aristocrazia del Settecento, frivolo e selettivo, dominato dallo sfarzo e dalla ricerca del piacere, come ci attesta la pittura di Jean-Honoré Fragonard (non presente in mostra), trovava nella moda e, di conseguenza, nell’iconografia del ritratto, una confacente forma di auto rappresentazione.
Ma qual era la capitale della moda? Chi diceva cosa fosse più chic? Chi dettava legge nel campo della moda?
Le nazioni che si contendevano il primato erano Francia ed Inghilterra. Se a metà Settecento il sarto del ceto aristocratico, il cosiddetto “Monsieur” doveva essere francese, così come le stoffe, ritenute le più belle, intorno al 1780 ecco apparire per le strade parigine abiti di foggia inglese.
Questo nuova tendenza importata da oltremanica, ma non copiata bensì rielaborata in Francia, aveva oramai preso il posto del completo maschile tradizionale, spesso realizzato con tessuti di pregio, costituito da marsina, sottomarsina, camicia, calzoni fermati al ginocchio, impreziosito da bottoni, galloni e ricami. L’abbigliamento maschile vantava un ricchissimo assortimento di abiti, passando da quelli informali agli sfarzosi abiti di corte, a quelli da cerimonia e poi quelli cavallereschi cui erano abbinati, a seconda dei casi, una vasta gamma di accessori, tra cui l’onnipresente parrucca incipriata che durante la rivoluzione diverrà il detestato simbolo dell’aristocrazia. Addirittura vi erano molti viaggiatori del Grand Tour che nel loro viaggio portavano con sé il vestito con cui volevano essere ritratti, come possiamo vedere nel ritratto Henry Peirce a Roma realizzato da Pompeo Batoni nel 1774.
Il ritratto di Peirce è il tipico ritratto settecentesco: vediamo il gentiluomo inglese, immortalato in una posa elegante, nel corso dell’esperienza del Grand Tour, il viaggio di formazione che ogni rampollo delle famiglie aristocratiche compiva almeno una volta nella vita, e che aveva Roma come meta privilegiata.
E nello studio di Pompeo Batoni, considerato il miglior ritrattista dell’epoca, non passò solo Peirce ma tantissimi altri protagonisti dell’alta società internazionale per essere ritratti nelle loro uniformi o negli abiti di corte. Ma nel frattempo iniziavano a manifestarsi dei cambiamenti nell’ambito della moda, sia maschile che femminile. L’abbigliamento maschile, soprattutto quello inglese, tendeva ad una maggiore semplicità con abiti dal taglio semplice e lineare, giacche e gilet dalle lunghezze sempre più ridotte, adatti a uno stile di vita più dinamico.
Per quanto attiene invece l’abbigliamento femminile si avviava al declino la robe à la française, un modello composto da una sopraveste, una sottana, una pettorina che per anni fu oggetto di infinite variazioni di decorazioni realizzate con tessuti, pizzi, nastri e piume, da abbinare con maestria ad acconciature e ventagli. Questi cambiamenti della moda sono visibili nei ritratti di Anton Von Maron e di George Romney.
Ma è soprattutto nel Ritratto di Lady Mary Every realizzato da Romney nel 1780, e in quello di Elisabeth Philippine Marie Hélène de Bourbon realizzato nel 1782 dalla pittrice Élisabeth Vigée Le Brun che si coglie questo cambiamento: in una società infiammata da nuove idee democratiche, la scelta dell’abito con cui farsi ritrarre non esprimeva più lo stile o il potere della persona: all’obbligo di apparire ciò che si è subentra il diritto di apparire ciò che si desidera essere.
I primi ad accostarsi alle nuove tendenze della moda inglese furono gli esponenti del ceto aristocratico come ci attesta il bellissimo Ritratto della famiglia di Ferdinando IV di Borbone realizzato da Angelica Kauffmann nel 1782, una scena ambientata in un giardino che non ha nulla di ufficiale o rappresentativo, ma è caratterizzata da una forte intimità. In questo dipinto è visibile tutta l’evoluzione in atto del costume, come ci mostra la semplificazione degli abiti del re e dei suoi familiari, di chiaro influsso inglese.
Il look di Ferdinando, pur nella sua classicità, appare semplice grazie ai colori chiari delle stoffe del panciotto e dei calzoni che esaltano il bordeaux della marsina. La morbidezza del candido abito di Maria Carolina che avvolge il corpo senza fastidiose imbottiture accresce questo senso di elegante semplicità o easy chic come diremmo oggi. Napoli risentirà delle novità inglesi nel campo di moda, che frenano le esagerazioni della moda francese dominante intorno al 1780, grazie alle comunicazioni marittime con l’Inghilterra. Inghilterra che è già entrata nel periodo della sua prospera espansione industriale, grazie anche al perfezionamento della tecnologia delle macchine tessili.
L’Inghilterra che esporta anche in Italia le sue stoffe.
L’Inghilterra che apporterà una significativa semplificazione nel campo dell’abbigliamento con l’abbandono per le donne del guardinfante (struttura che permetteva a una gonna di gonfiarsi, costituita da cerchi di metallo di misura crescente.
Maria Antonietta e la sarta Rose Bertin contribuirono alla sua diffusione e all’adozione di stoffe di lana unite e cotonate leggere.
L’Inghilterra che dà una risposta all’esasperazione tutta rococò degli ultimi decenni del Settecento nella moda femminile con i suoi abiti ingombranti e le sue acconciature spettacolari. E qui la mente torna alla scena del bellissimo film di Sofia Coppola, la Marie Antoinette del 2006, in cui il parrucchiere di corte Léonard-Alexis Autié meglio conosciuto come Monsieur Léonard realizza per Maria Antonietta un’acconciatura gigantesca, tanto spettacolare quanto ingombrante arricchita dagli oggetti più disparati, sostenuti all’interno da fili metallici. Ma questa era la moda dell’età di Luigi XVI. Per fortuna in soccorso delle donne negli ultimi decenni del Settecento, dopo un periodo di esasperazione del rococò nella moda del vestire femminile e soprattutto nelle acconciature spettacolari, l’influsso inglese penetra nella cultura della moda del tempo, semplificando in modo deciso l’abbigliamento.
E sarà la stessa regina Maria Antonietta ad abbandonare le acconciature turrite e la costosissima moda degli abiti rococò, scegliendo di utilizzare abiti dalla foggia semplice, seppur anch’essi costosi. Sempre tornando alla Marie Antoinette di Sofia Coppola, ricordate alcune scene in cui la regina gioca a fare la contadinella, tra pecore e galline, nel segno della filosofia di Rousseau che vorrebbe un ritorno alla natura?
Tra gusto per il travestimento e il piacere per la vita all’aria aperta, già nel 1779, solo 10 anni prima dello scoppio della rivoluzione, Maria Antonietta e le sue dame di corte passeggiavano vestite da pastorelle con abiti bianchi in mussola leggera, nastri tra i capelli e grandi cappelli di paglia, all’interno dell’Hameau de la Reine (il Villaggio della Regina) una specie di villaggio rurale fatto costruire nel 1782-1783 nel parco di Versailles ulteriore dipendenza del Petit Trianon. Ma la vera svolta la si ebbe nell’autunno del 1783 quando venne esposto al Salon di Parigi il ritratto di Maria Antonietta con in mano una rosa, abbigliata con un semplice vestito leggero in mussola bianca e con indosso un cappello di paglia a tesa larga, realizzato dall’amica e pittrice di corte Élisabeth Vigée Le Brun, dipinto esposto in mostra che mi ha emozionata non poco. Questo ritratto scatenò l’indignazione di visitatori che pensarono che la regina fosse praticamente quasi spogliata. L’abbigliamento scelto contraddiceva i canoni di rappresentazione della monarchia, negandone i doveri reali. Altri invece pensavano che Maria Antonietta volesse portare al declino l’industria della seta francese. Tuttavia l’abito in mussola della regina, oggetto di tanto scandalo, divenne poi di gran moda con il nome di “chemise à la reine” (camicia in stile regina) grazie alla complicità della modista in voga in quegli anni di nome Rose Bertin, come si può ammirare nel dipinto di Adélaïde Labille-Guiard dal titolo Ritratto di Donna del 1787 esposto in mostra. Tornando allo straordinario ritratto di Maria Antonietta, Élisabeth Vigée Le Brun ci restituisce l’immagine di una giovane donna dall’eleganza discreta e anche lievemente malinconica, colta nell’intimità della sua casa mentre sistema dei fiori in un vaso. Intimità che ritroviamo anche nel ritratto di Marie-Joséphine-Louise de Savoie, comtesse de Provance realizzato sempre dalla Vigée Le Brun.
Ma ahimè il processo di semplificazione dell’abbigliamento per la povera Maria Antonietta toccherà l’apice con un’informe veste bianca ed una cuffia, quando, appena trentottenne, affrontò il patibolo.
Ed è così che la ritrae il pittore inglese William Hamilton nel dipinto esposto in mostra, Marie Antoinette quittant la Conciergerie il 16 ottobre 1793 (Maria Antonietta lascia la Conciergerie il 16 ottobre 1793), conferendole le fattezze di una figura angelica nella sua bianca veste di mussola, concorrendo così alla nascita del mito della regina martire.
L’austriaca Maria Antonietta, divenuta regina di Francia troppo presto, figura tra le più controverse, si impose come icona di stile, ispirando tendenze di moda dall’epoca dell’imperatrice Eugenia, durante il Secondo Impero, per arrivare ai costumi da ballo settecenteschi presenti nel ballo organizzato dalla leggendaria Marchesa Casati in piazza San Marco nel 1913, fino ai nostri giorni come è possibile ammirare nel bellissimo abito verde e beige realizzato nel 1998 da John Galliano (per il marchio Christian Dior) che fa sognare. Decisamente interessante il posizionamento in mostra dell’abito di Galliano che ha come sfondo il dipinto di Maria Antonietta che lascia la Conciergerie, che mi ha fatta riflettere sul concetto del Sic transit gloria mundi.
E nell’ammirare un bellissimo ventaglio in avorio e carta dipinta del 1750, delle straordinarie scarpe in stile Maria Antonietta facenti parte della collezione realizzata da John Galliano nel 1998 dal titolo Marquise Masque in onore della marchesa Casati ed altre scarpe di manifattura italiana del 1720-1730 circa, eccoci arrivati alla Seconda Sezione denominata “Il Direttorio e l’Impero”. Entriamo nel mondo della Rivoluzione francese la cui lotta per la libertà e l’uguaglianza, che cambierà profondamente il volto dell’Europa, investì anche il settore della moda conferendo all’abito dei precisi significati sociali, culturali, ideologici. Se il 5 maggio del 1789 a Versailles nel corso degli Stati Generali, ultima rappresentazione dell’Ancien Régime, a dispetto delle proteste del Terzo Stato, vennero ancora imposte delle precise regole di abbigliamento tese ancora una volta ad identificare le varie classi sociali, il 29 ottobre del 1793 la Convenzione (Assemblea costituzionale e legislativa incaricata di trasformare la Francia in una Repubblica durante la Rivoluzione) decretò la totale, assoluta libertà di vestire “secondo la volontà individuale”.
Dopo la morte di Robespierre, che segnò la fine del regime del Terrore, l’abbigliamento femminile sarà costituito da abiti in mussolinina dal taglio dritto che richiamavano le tuniche classiche, come ci attestano i ritratti dell’epoca, confermando il rapporto di influenza reciproca che caratterizza la ritrattistica e la moda. Ecco il ritratto della poetessa Teresa Bandettini Landucci nelle vesti di una musa realizzato da Angelica Kauffmann nel 1794. Ma sarà nei dipinti del famoso ritrattista francese François-Xavier Fabre che si espliciterà l’influenza che il rinnovato interesse per l’arte antica, che caratterizza l’epoca neoclassica, ebbe sulla moda. Nel ritratto della contessa Skotnicka come in quello di Alexandrine de Bleschamp le due donne indossano abiti con il punto vita alto, dalle linee fluide e morbide che esaltano il corpo, rammentandoci quella “quieta semplicità e nobile grandezza”, tipiche dell’arte greca, ritenute da Winckelmann i presupposti della vera bellezza. Dunque la nuova moda prevede l’uso di abiti semplici che esprimano la bellezza ideale. Ma questa rottura con il passato non è motivata solamente da fattori artistico-letterari bensì anche dalle modalità della nuova vita borghese, dinamica e operosa che necessita di abiti semplici come tuniche, mantelle, scialli di cui quelli invernali realizzati in cachemire. Ma con l’avvento di Napoleone la moda tornerà ad assumere una valenza politica. La nuova classe dirigente voluta fortemente dal Bonaparte, costituita da nuovi ricchi o parvenue che dir si voglia, farà della mondanità e quindi della moda uno strumento politico. Donne come la raffinata Joséphine Beauharnais, moglie di Napoleone e Julie Clary, dell’alta borghesia marsigliese, divenuta moglie di Giuseppe Bonaparte e quindi regina consorte di Napoli e di Spagna, divennero le protagoniste indiscusse della moda nei salotti e nei ricevimenti alle Tuileries (la Julie Clary rimase alla corte del cognato Napoleone fino al 1808 quando, già regina di Napoli e Spagna, fu inviata a Napoli per aiutare il marito a sedare delle piccole rivolte). In mostra troviamo il ritratto di Giulia (Julie) Clary con le figlie Zenaide e Carotta dipinto nel 1808-1809 da Jean-Baptiste Joseph Wicar. Quest’opera, sebbene rispecchi il modello francese di evidente ascendenza neoclassica, che solitamente contempla la persona, ritratta a figura intera, abbigliata riccamente in abiti di corte, all’interno di un ambiente arredato in stile impero, restituisce agli occhi del visitatore un clima di intimità affettiva fra la madre e le figlie. La regina consorte di Napoli e di Spagna, Giulia Clary, è ritratta di tre quarti con il trono alle sue spalle, mentre accoglie le 2 figlie: a destra Carlotta che le offre una colomba, a sinistra Zenaide che regge dei fiori.
Di Joséphine, che scelse la sopraveste a strascico, successivamente divenuta manto di corte, è presente in mostra il ritratto dell’imperatrice realizzato da Antoin-Jean Gros nel 1808 in cui vediamo Giuseppina che indossa una robe en chemise, una tipologia d’abito d’ispirazione greca diffusa, come già detto, nel periodo del Direttorio e che si era imposta durante la dominazione napoleonica. Questa foggia è caratterizzata dalla vita alta, un’ampia scollatura e trasparenze. La moda imperiale cercò di contenere al massimo le nudità, servendosi di espedienti quali l’allungamento delle maniche e l’uso di indossare sull’abito altri indumenti quali: redingote, scialli, mantelli. E la Giuseppina ritratta da Gros in ottemperanza a questi dettami porta uno scialle rosso avvolto attorno alla vita e appoggiato sulla spalla.
Scialle e abito dell’imperatrice furono realizzati in morbidissimo cachemire, nuovo materiale importato dall’India alla fine del XVIII secolo dalla Compagnia delle Indie e comparso a Parigi nel 1796 divenendo subito di gran moda.
Napoleone, di ritorno dalla campagna d’Egitto ne portò uno a Giuseppina che in seguito ne divenne un’appassionata collezionista. Completa la mise un velo impalpabile, fissato con un piccolo fermaglio al capo, i cui bordi dorati richiamano la cintura. Nella corte napoleonica ricostituita dopo l’incoronazione imperiale avvenuta il 2 dicembre 1804, la forma dell’abito, pur restando fedele ai suoi canoni di base, viene gradualmente arricchita. È giunto così il tempo in cui il gusto neoclassico si impone in tutta l’Europa per un ventennio.
Questo straordinario accattivante viaggio nell’Arte della moda prosegue con il ritratto che definirei poetico di Ugo Foscolo realizzato nel1813 da François-Xavier Fabre. È un dipinto piuttosto noto in cui Foscolo è ritratto con una giacca nera e con una camicia con volant, un Foscolo semplice ma al contempo elegante e ricercato come se l’abito rappresentasse la sua personalità, da una parte schietta, dall’altra elegante. E sapevate che Foscolo scrisse un sonetto dal titolo “Pel Ritratto dipinto dal Fabre”? Lascio la parola a lui:

Vigile è il cor sul mio sdegnoso aspetto,
E qual tu il pingi, Artefice elegante,
Dal dì ch’io vidi nel mio patrio tetto
Libertà con incerte orme vagante…

Pur, se nell’onta della Patria assorte
Fien mie speranze, e i di taciti e spenti,
Il mio volto per te vince la morte.

Ugo Foscolo con queste parole interagendo con l’immagine del suo ritratto, rafforza il suo ricordo nei posteri.
Ecco poi il Ritratto a tre quarti di Napoleone in “petit Habillement” di re d’Italia realizzato da Andrea Appiani tra il 1815 ed il 1814, commissionato da nobili bresciani, quale segno della fedeltà filonapoleonica della nobiltà dell’epoca.
Seguono poi bellissimi abiti maschili e femminili di manifattura francese e italiana. Particolarmente affascinanti quelli femminili in seta, tulle con ricami in argento, di un’eleganza senza tempo. E prima di concludere il percorso di questa seconda sezione con un abito in organza con ricami in argento della collezione Alta Moda Primavera/Estate 2005 di John Galliano (per il marchio Christian Dior), ecco la bellissima Danzatrice con le mani sui fianchi realizzata da Antonio Canova nel 1812. È un’opera in cui armonia, leggerezza ed eleganza del panneggio dell’abito, che parrebbe un velo che lascia intravedere il seno, e la bellezza del volto di profilo, sono l’espressione più vera del codice stilistico di Canova. Mi sento letteralmente catturata da quel che vedo e al contempo assetata di vedere e vedere ancora. E con questo stato d’animo mi accingo ad entrare nella terza sezione quella intitolata: “Il carattere romantico: ragione e sentimento”.
Siamo in pieno Ottocento, finita l’epoca napoleonica cui subentra la restaurazione, vediamo il consolidarsi del romanticismo quale risposta al razionalismo illuminista.
A livello di moda l’abito deve rispondere al nuovo tipo di vita, una vita decisamente più dinamica del passato. L’abito romantico non può e non deve più riflettere modelli antichi.
L’establishment della restaurazione si adegua alle regole del Bon ton e dell’eleganza aristocratica ma ricusandone lo sfarzo esteriore e l’ostentamento, a favore di una maggiore sobrietà ed intimità. Ed a riprova del profondo legame tra arte e moda, come dell’indiscutibilità che ogni opera sia il risultato della società che la origina, la mostra ci fa vedere come, soprattutto nell’iconografia del ritratto, le vecchie e nuove élite trovino la propria modalità di rappresentazione più congeniale. Eh sì perché il ritratto, non solo esprime lo status della persona, ma consente di visualizzare anche la dimensione intima e familiare del soggetto ritratto, la sua psicologia ed i suoi sentimenti, in ottemperanza ai principi della nuova società romantica. Ed è esattamente ciò che il visitatore può ammirare nelle opere esposte. Se nel ritratto di Maria Pavlovna Romanova, realizzato dall’inglese George Dawe nel 1829, l’abbigliamento e la posa richiamano alla mente il ritratto di Giuseppina Beauharnais di Antoin-Jean Gros, nei ritratti di Bezzuoli, Molteni, Girodet-Triosson, Hayez, interpreti incontrastati di questo periodo, percepiamo l’elegante sobrietà ed intimità che contraddistinguono la nuova élite. Il ritratto della contessa Emilia Sommariva Seillère realizzato nel 1833 da Charles Boisfremont de Boulanger ci mostra quale sia la nuova formula del ritratto, gradita sia dalla nobiltà che dalla ricca borghesia e per tal motivo adottata dagli artisti dell’epoca.
E Charles Boisfremont de Boulanger non fa eccezione.
Nel ritratto della contessa Sommariva l’artista riesce a fondere con grande equilibrio la raffinatezza e l’idealizzazione dei tratti della dama con il realismo del paesaggio circostante e dei preziosi accessori.
Da notare il cambio di tendenze nella moda: ai capelli ricci, stretti sulle tempie che lasciavano intravedere le orecchie, si sostituiscono capigliature con una piccola riga al centro ai cui lati la massa dei capelli si allarga coprendo le orecchie.
E i capelli venivano decorati ed adornati con fiori e corone.
A livello di abiti, invece, alle tuniche di ispirazione greca, si sostituiscono abiti dai bustini strizzafiato.
La dimensione intima e familiare dei soggetti rappresentati che caratterizza il ritratto della famiglia Antinori del 1834 opera di Giuseppe Bezzuoli, si amplifica nel ritratto di famiglia: Giacomina Foà di Bruno con i figli dipinto da Giuseppe Molteni nel 1842. In quest’ultimo la tenerezza del rapporto madre-figli la fa da padrone. Il percorso espositivo prosegue ammirando varie tipologie di abiti: da quello da giorno di manifattura francese del 1826-1828, a quelli femminili di manifattura italiana, di cui uno del 1836 in seta, pizzo e cotone, ed un altro realizzato a cavallo tra il 1850 ed il 1855 in seta, taffetas, merletto meccanico e tela di cotone. E tra un abito ed un altro si giunge ad Hayez, il perfetto cantore degli affetti della borghesia. Troviamo il suo bellissimo ritratto di Selene Taccioli Ruga del 1852, giovane dalla bellezza lunare esaltata dal raffinato contrasto tra la veste bianca e il nero della chioma raccolta e del mantello poggiato sullo schienale della poltrona.
Se la moda femminile in età romantica è caratterizzata da grandi scollature, maniche ampie e rigonfie, corpetti talmente stretti da togliere il respiro, gonne sempre più allargate, che suggeriscono una silhouette femminile estremamente delicata, la moda maschile è tirchia a livello di colori e di ornamenti, pur richiedendo un taglio ineccepibile e una ricercatezza priva di vanità, come si può vedere nel ritratto di François-René De Chateaubriant che medita sulle rovine di Roma dipinto da Anne-Louis Girodet-Trioson, in cui il realismo dell’abito è teso a rivelare l’anima del personaggio.
Dunque la moda in epoca romantica, dove il sentimento tende a dominare la ragione, decreta, per l’abbigliamento maschile una sobria eleganza, e per quello femminile una delicatezza ed una pudicizia che ben si adattano al ruolo della nuova figura femminile, romantica e virtuosa, delegata a dirigere con raffinatezza il proprio habitat domestico.
Una donna lontana da qualsiasi forma di vita pubblica, sia politica che economica. Questa terza sezione riconferma, da un lato la funzione dell’abito quale specchio del ruolo sociale della persona, dall’altro come la moda sia il segno tangibile dei cambiamenti sociali e culturali avvenuti nel corso della storia. E sempre più galvanizzata da tanta bellezza mi accingo ad entrare nella quarta sezione intitolata: “L’Unità d’Italia: la moderna quotidianità dei Macchiaioli”. Dopo anni di lotte l’Italia ha finalmente raggiunto la propria unità nazionale con Firenze sua capitale, la cui coscienza del ruolo rivestito si riversa, come naturale, oltre che a livello urbanistico, anche a livello della moda.
La Firenze del tempo è una sorta di medaglia a due facce: da un lato abbiamo la città che rincorre i modelli e gli stili di vita delle grandi metropoli europee, dall’altro, invece, troviamo la quiete degli orti, dei campi, delle case coloniche che fanno da cornice alla media borghesia, dall’animo semplice, che, pur avendo contribuito fattivamente all’aspirazione del Risorgimento, fa fatica a riconoscersi nel nuovo stato unitario. Ed è in questo contesto che si delinea il movimento dei Macchiaioli le cui radici affondano nel Risorgimento italiano. Si tratta di un movimento squisitamente toscano, di cui, diversi componenti avevano partecipato ai moti del 1848.
I Macchiaioli ruppero con le regole antiquate insegnate nelle Accademie d’arte italiane, fermamente convinti che le macchie, ossia le aree di luce e di ombra, fossero gli elementi principali di un’opera d’arte. Inoltre amavano dipingere all’aria aperta, pratica che li metterà in relazione con gli impressionisti francesi che conquisteranno notorietà pochi anni dopo, sebbene gli scopi perseguiti dai Macchiaioli fossero completamente diversi.
Nella pittura dei macchiaioli vi è una sfumatura politica che si riflette nella volontà di contribuire con le loro opere alla rinascita e all’unificazione dell’Italia, ritraendo gli aspetti più naturali, autentici e realistici della vita italiana dell’epoca.
La strada tracciata dai Macchiaioli per la rinascita italiana è quella della visualizzazione pittorica delle tradizioni italiane con scene di vita rurale e cittadina di grande realismo.
E questo indirizzo intrapreso dai macchiaioli possiamo ammirarlo nelle opere presenti in mostra di Silvestro Lega, Odoardo Borrani, Telemaco Signorini, Vincenzo Cabianca, Michele Tedesco, Giovanni Fattori, che con il loro stil novo ci restituiscono raffinate scene di interni borghesi e limpide vedute di campagne assolate in cui si muovono giovani donne in abiti sobri e dignitosi. Di Silvestro Lega ecco il bellissimo dipinto Tra i fiori del giardino del1862 in cui vediamo una giovane ragazza intenta a leggere un libro in giardino e ancora La passeggiata in giardino del1867 circa, che per alcuni versi presenta una certa concordanza con opere di Manet e Monet dello stesso periodo. Ma delle 3 opere di Lega presenti in mostra quella che mi ha colpita di più è stata La curiosità del 1866 che ritrae con grande naturalezza una giovane donna borghese, come ci attesta la foggia dell’abito da casa, mentre sbircia quello che accade fuori da dietro la persiana chiusa di una finestra.
Una scena semplice, intima, ma che grazie al purismo cromatico e lineare e ad un’atmosfera di penombra, assume un lirismo poetico che la eleva come se fosse un importante tema storico o di attualità… La curiosità, il desiderio di conoscenza. E quasi a voler materializzare gli abiti dei dipinti di Lega ecco un abito da giardino, in lino, lana e seta di manifattura italiana, datato 1865. E poi ecco Telemaco Signorini con il dipinto Non potendo aspettare o la Lettera del 1867, ambientata nello studio fiorentino dell’artista che ritrae una donna mentre scrive una lettera. La stesura del colore fluida e brillante è potenziata dai preziosi accostamenti cromatici e dai raffinati effetti luministici che conferiscono plasticismo alla figura femminile. E in questa alternanza di dipinti ed abiti troviamo un abito da giorno di manifattura inglese, datato 1860, ben lontano nel suo grigio con bordi neri dagli abiti chiari e luminosi di manifattura italiana.
E a seguire il bellissimo dipinto di Odoardo Borrani dal titolo Cucitrici di camice rosse del 1863 che raffigura all’interno di un salottino ben arredato e luminoso, 4 donne, disposte in forma circolare, intente a cucire delle camice rosse, incuranti dello spettatore che le osserva.
Sono donne molto curate nell’aspetto e nel portamento. L’artista ritrae con cura e minuzia di particolari tutti gli aspetti che caratterizzano quel preciso periodo storico, sia dal punto di vista materiale che estetico. Che sia l’arredamento del salottino borghese o il ritratto di Garibaldi appeso nel muro accanto alla finestra o siano le acconciature e gli abiti delle quattro donne Odoardo Borrani realizza un’acuta fotografia del periodo dell’Unità d’Italia, seppur limitata ad un ambiente domestico e familiare. L’opera Cucitrici di camicie rosse, acquista grande rilevanza, non solo sotto il profilo storico (Risorgimento) e artistico (l’evolversi della pittura di genere in Toscana), ma anche per quanto attiene il ruolo della donna, la quale, attraverso il suo lavoro (in questo caso il cucito), ha contribuito allo sviluppo degli eventi storici e sociali del periodo. E poi ancora un abito femminile da cerimonia di manifattura italiana, datato 1870 in cui la seta ed i merletti la fanno da padrona… Ma il bello deve ancora arrivare.
Subito dopo l’unità d’Italia, il meridione, in particolar modo la Sicilia, espresse la propria delusione sul nuovo Stato dimostratosi incapace di risolvere i problemi del Mezzogiorno, anche attraverso celeberrimi testi narrativi come il Gattopardo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che ci restituisce il clima che si respirava nella Sicilia del 1861. Un’aristocrazia in decadenza ed una borghesia sempre più in ascesa dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala…Il tutto splendidamente rappresentato dall’incantevole abito da ballo indossato dalla bellissima parvenue Angelica Sedàra mentre danzava nel salone di Palazzo Pantaleone con don Fabrizio Corbera principe di Salina.
E udite udite sullo sfondo costituito da uno schermo su cui è proiettata la celeberrima scena del ballo, ecco esposto un meraviglioso abito femminile di colore bianco in organza di seta e cotone, di manifattura siciliana, proveniente dal Museo del costume del castello di Donnafugata. Un abito bellissimo, divenuto iconico, come quello indossato da Angelica Sedàra che ammiro sia da vicino che nella proiezione. Una candida veste, dall’insostenibile leggerezza con la quale questa giovane ragazza entrerà in un mondo al contempo nuovo e antico, dove se si vuole che “tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Del resto la moda è parte integrante dell’arte cinematografica, talmente centrale in alcune trame da diventare essa stessa protagonista, come nel Gattopardo.
E sulle note del brillante valzer di Verdi che è il motivo centrale della sequenza del ballo, mi accingo ad entrare nella quinta sezione intitolata “Lo spazio pulsante della modernità”.
Siamo nell’epoca del Secondo Impero quando la Francia assunse la supremazia assoluta sulla moda europea, favorita dall’ascesa della borghesia, in particolar modo quella finanziaria che necessitava di segni esteriori come gli abiti per palesare lo status raggiunto. E fu l’inglese Charles Frédérick Worth, nominato nel 1867 “sarto imperiale”, a comprendere per primo l’importanza di ridare attualità al lusso sfrenato in quel nuovo mondo che mixava finzione e ricercatezza.
Worth, che dopo un breve apprendistato a Londra si trasferì a Parigi, può essere considerato a tutti gli effetti il primo artigiano che trasformò la figura del sarto in quella dello stilista, divenendo così il padre riconosciuto della haute couture. Precursore del marketing e delle pubbliche relazioni, Worth capì quanto fosse importante nel campo dell’abbigliamento il concetto di stagionalità che impose alla sua clientela con collezioni scandite da eventi mondani. E nel 1867, con l’etichetta cucita sulle sue creazioni, Charles Frédérick Worth, l’uomo che sapeva plasmare i tessuti, dal tulle alla seta, dando vita ad abiti regali come le donne che vestiva, ottenne la completa legittimazione di stilista. Con Worth la figura del couturier cominciò ad essere considerata come quella di un artista. E lui stesso si sentiva un artista quando affermava che le sue mise erano realizzate “come un’opera d’arte, come un quadro”. Con Worth la moda è entrata nell’età moderna, diventando allo stesso tempo impresa creativa e spettacolo pubblicitario. E la pittura non poteva non risentire della modernità di questo nuovo periodo storico.
Così mentre si assiste ad un continuo cambio degli stili, gli artisti si pongono come intento programmatico quello di cogliere il segno dell’individuo moderno nei suoi abiti e nelle sue abitudini sociali, visualizzando così, attraverso la moda, il nuovo spazio pulsante della metropoli moderna.
E questa quinta sezione ci offre un’interessantissima panoramica di artisti dal linguaggio di grande valore espressivo, la cui adesione mediata alle novità introdotte dal neonato movimento impressionista, fa sì che riescano a dar vita ad un linguaggio del tutto personale a metà tra glamour accademico e innovazione. Iniziamo parlando di Jean Béraud che con i suoi dipinti ci accompagna in un affascinante viaggio a ritroso nella Parigi di fine Ottocento.
Al contrario di numerosi pittori impressionisti che scelgono di rifugiarsi nelle campagne, lontani dai rumori e dalle distrazioni della moderna Parigi, Beraud, geniale pittore parigino, sceglie di restare in città, quella Parigi nel cui cielo Eiffel innalzava la sua celebre torre metallica, quella Parigi divenuta a pieno titolo la nuova capitale europea.
Jean Béraud si pose come obiettivo fondamentale del suo lavoro proprio la rappresentazione della vita urbana, frammentata in tutti i suoi molteplici aspetti quotidiani, facendosi una reputazione da cronista della vita urbana parigina. Ed è ciò che vediamo nel dipinto Una via di Parigi, realizzato tra il 1897 ed il 1898, in cui, sotto un cielo invernale grigio, una giovane donna vestita secondo gli ultimi dettami di moda ferma una carrozza. Al centro di questo affollato boulevard parigino domina la scena un chiosco coperto di manifesti gialli, rosa, verdi e arancioni che si contrappongono con i toni argentei del dipinto.
E tra la folla elegante intenta a passeggiare, ecco in primo piano le figure di 2 gentiluomini, visti di spalle, così raffinati con i loro bastoni ed i loro cilindri, mentre uno dei due indica all’altro un manifesto sul chiosco.
Béraud rende la scena mixando disinvoltura e precisione, concentrandosi, più che sull’atmosfera del momento su elementi specifici. Le stesse caratteristiche le ritroviamo nel dipinto del 1878 dal titolo Una serata. In una sontuosa sala dove ha luogo un ballo mondano sono radunati uomini e donne vestiti con grande accuratezza ed eleganza.
I gentiluomini indossano un completo da sera costituito da frac e pantaloni neri, camicia bianca e farfallino in tinta, il tutto completato da guanti bianchi e dall’immancabile cappello nero. Le signore indossano abiti colorati, riccamente decorati con fiocchi, volants e applicazioni in pizzo, tutti della stessa foggia: il busto stringe la vita e sottolinea i fianchi, mentre la gonna scende dritta sul davanti e prosegue in un lungo strascico sul dietro. Gli abiti hanno uno scollo molto ampio che mette in mostra il décolleté, lasciando le braccia nude, parzialmente coperte da lunghi guanti bianchi.
Questi abiti attillati con i lunghi strascichi sono frutto dell’estro creativo della maison di Charles Frédéric Worth che dal 1867 firma i suoi abiti. Le pettinature raccolte delle signore sono agghindate con fiori colorati e la mise è impreziosita da gioielli. A completare il quadro tutte le signore sono dotate di ventaglio, visto non come oggetto per attenuare il caldo, bensì come indispensabile accessorio di completamento.
Ed è proprio sulla base di dipinti come questi realizzati da Béraud come delle autentiche illustrazioni che l’artista verrà visto come un cronista della vita della nuova Parigi.
E il desiderio dei nuovi artisti di rendere in pittura le note che caratterizzano l’uomo e la donna di questa nuova epoca moderna, in cui iniziano a cambiare anche i mezzi di trasporto e comunicazione, in cui nascono i primi grandi magazzini come Le Bon Marché (1850), lo ritroviamo Ferdinand Heilbuth di cui sono esposte le opere Confidenze, del 1880, in cui 2 amiche della ricca borghesia, come attestano gli abiti da pomeriggio, in un giardino si scambiano appunto delle confidenze e la La festa a Bagatelle. E poi è la volta di Georges Jules-Victor Clairin con la sua Frou Frou del 1882, il cui personaggio è ripreso dal protagonista dell’omonima commedia, e poi Stevens e Toussaint, e infine James Tissot con La più bella donna di Parigi realizzato fra il 1883 ed il 1885.
Questo dipinto è il primo di una serie di altri dipinti sulle donne parigine, che Tissot aveva iniziato di ritorno a Parigi, dopo diversi anni trascorsi in Inghilterra.
In queste opere descrive i molteplici luoghi della modernità: le soirées dei teatri, i concerti, i salotti, i ricevimenti della ricca borghesia dove sono le donne con i loro splendidi abiti a segnare il ritmo delle ritualità mondane.
Nell’opera esposta, La più bella donna di Parigi, ambientata nella favolosa Opéra di Parigi, vediamo al centro della scena un’elegante figura femminile, abbigliata con un raffinato abito nero dalla generosa scollatura che svela i setosi incarnati, circondata da uno stuolo di uomini in smoking che la osservano e sembrano mangiarla con gli occhi. Ma questo suo status privilegiato avrà vita breve. Secondo le cronache del tempo la sera dopo la donna fu sostituita da una cantante di operetta. Il messaggio e l’ironia del pittore sono chiarissimi: la bellezza femminile è passeggera, mentre la bramosia degli uomini non avrà mai fine. Tissot, dunque, ha realizzato delle opere che sono documenti preziosi per comprendere davvero la società del suo tempo: ed ecco a voi la Parigi della Belle Époque.
Proseguendo ecco balzare ai miei occhi un elegante abito nero di Charles Frédérick Worth in seta e pizzo di seta, preso a modello da Luchino Visconti per un abito indossato da Romy Schneider nel film Ludwig, abito posizionato accanto a quello di Worth.
Seguono poi raffinati abiti femminili da ricevimento, di manifattura italiana, realizzati nel decennio 1870-1880, dai colori chiari e dai tessuti in garza di seta indiana, raso di seta, rasatello di cotone, batista di cotone.
Artisti come Béraud, Heilbuth, Clairin, Stevens, Toussaint e Tissot hanno realizzato opere i cui dettagli miniaturistici e la resa dei tessuti che paiono quasi palpabili, restituiscono allo sguardo del visitatore, non solo la ricchezza del ceto sociale di appartenenza, ma anche la più delicata ed intima rappresentazione della figura femminile, che in particolar modo in Tissot, viene declinata a tutti i livelli: dall’alterna fortuna negli affetti, all’amarezza del tradimento, alla complicità.
Questo straordinario accostamento tra pittura ed abiti rende la visita molto più di più di un semplice percorso espositivo.
Personalmente ho avuto la sensazione che i personaggi dei dipinti si materializzassero negli abiti esposti. Era come se fossero lì con me o io dentro il quadro che diventava improvvisamente reale. In questo stato di grazia entro nella sesta ed ultima sezione del piano terra, dal titolo “Tra realtà e rappresentazione, un sogno borghese”.
L’arco temporale esaminato da questa sezione è quello che va dal 1885 agli inizi del nuovo secolo. Sono anni di profondo mutamento socio-economico che ha portato alla nascita della moderna società dei consumi. Sono anni di grandi cambiamenti in cui l’haute couture continua ad avere un grande peso nell’alta società. Ma, rispetto al periodo precedente, l’alta moda viene affiancata da sartorie distribuite in modo capillare in tutta Europa al fine di diffondere la moda parigina verso clientele di diversi livelli sociali.
A ciò si aggiunga la nascita dei grandi magazzini. All’Au Bon Marché fondato a Parigi nel 1852 seguirà nel 1912 l’apertura della Galeries La Fayette in Boulevard Haussman. In Italia i fratelli Bocconi, nel 1877, fondarono a Milano Alle Città d’Italia (ora: La Rinascente), un grande magazzino che ricalcava le orme del parigino Au Bon Marché. Nasce una nuova forma di avvicinarsi alla moda. Il grande magazzino è un vero e proprio spazio emozionale in cui il momento dell’acquisto o della semplice visita diventa una vera e propria esperienza: luci, suoni, colori, profumi accolgono il cliente in un’atmosfera unica e accogliente. Il grande magazzino offre merce diversificata per qualità e costo, consentendo anche a donne della piccola borghesia e dei ceti popolari di poter accedere e fruire di un’eleganza intesa come mezzo di distinzione e di miglioramento sociale.
I tempi cambiano e con loro le tendenze di moda: si prende la distanza da forme costrittive e costruite per accostarsi a forme più semplici e fluide come si può vedere nel dipinto di Gerolamo Induno dal titolo Gioie materne del 1871.
L’artista raffigura una scena di intimità borghese in cui una tata tiene in braccio un bimbo mentre la madre suona la pianola con un abito da casa a righe azzurre e bianche. È un abito il cui motivo a righe attesta una certa importanza sociale perché siamo nell’epoca in cui la tipologia di abito varia a seconda delle ore e delle occasioni. Ci sono abiti da casa, da passeggio, da viaggio, da visita, da sera, da ballo, da vacanza. Certo: l’opera di Induno ha un che di nostalgico, nulla a che vedere con scene di vita parigina.
Ma c’è anche Vincenzo Capobianchi che, con il suo Vestito giallo che ritrae una donna mentre prova un abito, sottolinea l’essenza della creatività sartoriale alla moda. E poi Italo Nunes Vais, con il suo Passa il reggimento (1895), in cui ritrae, in un interno borghese, delle ragazze, che lavorano come modiste di cappelli, come si evince da un cappello di moda esposto in bella vista sul tavolo, che chiacchierano amabilmente, mentre 2 di loro dalla finestra assistono al passaggio del reggimento.
Gli abiti delle giovani sono abiti da giorno di buon taglio, con maniche a sbuffo e privi dei rigonfiamenti posteriori che tante difficoltà avevano creato alle donne di epoche precedenti.
L’abbigliamento inizia a coniugare la bellezza con la praticità un po’ come avvenuto con l’architettura degli ingegneri in cui bello ed utile si coniugano. Un esempio per tutti: la Tour Eiffel. Nunes Vais in questo dipinto, ricco di variazioni luministiche e di effetti chiaroscurali, realizza una composizione di singole scene che, messe insieme ci raccontano le emozioni delle ragazze. A dispetto della staticità del quadro, questo dipinto trasmette l’idea di movimento, movimento che percepisco nelle risate e nel chiacchiericcio, nella corsa per raggiungere la finestra e nel rumore della sedia che, nella fretta, cade a terra.
Ed ecco del fiorentino Riccardo Nobili il dipinto del 1885 Birreria (Caffè Cornelio) situato in via de’ Naccaioli l’odierna via Brunelleschi, al cui interno ritrae delle persone sedute ai tavolini, di cui in primo piano una famigliola borghese.
Nell’Ottocento i caffè fiorentini divennero luogo di ritrovo anche per il ceto medio. Vi si poteva chiacchierare e discutere di politica, leggere giornali e riviste, e gustare “caffè e diacciatine”, sorbetti, punch e liquori, rosoli, frutta sotto spirito, vino.
E Nobili ci restituisce l’immagine di questa Firenze “parigina” di metà anni ottanta, in cui la donna è compartecipe dei nuovi spazi sociali alla moda in cui si ritrovavano artisti, scrittori e importanti personalità a livello politico e culturale.
E l’abito è un elemento fondamentale. Sono anni in cui nella moda femminile, la silhouette si trasformò di nuovo in una figura più snella. Le maniche dei corpetti erano più sottili e più strette, mentre le scollature tornavano più alte. Il sogno borghese di questo periodo si traduce nel settore della moda con la presenza di una serie di abiti in base ai diversi momenti della giornata in cui venivano indossati. C’erano abiti da mattina o da giorno, abiti da pomeriggio, abiti da tè, abiti da sera o da ballo. E di questo mondo contraddistinto da un continuo cambio di toilette, per ogni occasione e a tutte le ore del giorno, Giuseppe De Nittis nel suo Fiori d’Autunno, del 1883 circa, coglie la raffinatezza e l’eleganza dell’alta borghesia nella silhouette della figura femminile esibita dalla donna protagonista del dipinto, cosciente della propria eleganza.
Segue il Ritratto di Anna Belimbau, moglie del pittore Adolfo Belimbau, realizzato nel 1900 dal livornese Vittorio Corcos. La donna, in un interno raffinato e all’avanguardia come ci dice il bellissimo divano dai braccioli cilindrici, è ritratta nell’atto di scostare una grande tenda in seta bianca, mostrandosi compiaciuta della sua eleganza sofisticata ma al contempo celata dalla stola di pelliccia.
E, infine, ecco il dipinto Al Caffè (Femme au bar) realizzato nel 1884 dal veneziano Federico Zandomeneghi, giunto a Parigi nel 1874, amico di Degas e Renoir. Il soggetto, come ci dice il titolo, è l’interno di uno dei tanti Caffè parigini, così frequenti nella capitale francese di quell’epoca.
La scena, dal taglio leggermente obliquo come nelle riprese fotografiche, raffigura un momento tipico della vita borghese a Parigi: l’incontro al “cafè”, locale mondano, ma anche luogo di socializzazione delle persone e punto di riferimento per la vita intellettuale.
In primo piano, seduta ad un tavolino, troviamo una donna, la cui figura occupa gran parte del quadro.
Alle sue spalle, poco spostato verso destra, vi è un uomo, colto nel momento in cui sorseggia un drink, mentre della persona seduta accanto alla donna, a sinistra è visibile solo un braccio, appoggiato sullo schienale di una sedia. Protagonista della rappresentazione è, dunque, una donna, soggetto caro a Zandomeneghi. Il clima è quello quotidiano e tranquillo, sensazione che già si percepisce guardando il volto disteso della ragazza. Zandomeneghi si concentra sulla caratterizzazione della ragazza: ritrae una donna borghese qualunque, una signora per bene che cela con garbo dietro la veletta il proprio volto onesto e sorridente.
La Parigi di Zandomeneghi non è la Parigi elegante, mondana e internazionale celebrata da De Nittis e Boldini, ma ci restituisce la vita del quartiere bohèmien per eccellenza, Montmartre, dove l’artista viveva a fianco di Toulouse-Lautrec.
Zandomeneghi si fa interprete di un universo femminile fatto di gioie interiori, private e di delicata bellezza, di sogni, di desideri e di quotidianità.
Ed il percorso di questa straordinaria mostra che affianca visivamente le opere agli abiti delle stesse epoche, prosegue con la vista di abiti femminili di manifattura italiana, tra cui: un abito femminile in seta di manifattura fiorentina, realizzato tra il 1878 ed il 1880, una mantella femminile in seta nera con ricami. E ancora un elegantissimo abito femminile da sera, di fine Ottocento, di Charles Frederick Worth, il primo stilista della storia, ed un raffinato completo femminile in seta e tulle ricamato, realizzato nel 1896-1898 nell’atelier H. Haardt et Fils, una delle case di moda più prestigiose di Milano con filiali a San Remo, Lucerna e St. Moritz.
Accanto al bellissimo ritratto di Eleonora Duse del 1896 opera di Edoardo Gordigiani troviamo un meraviglioso soprabito femminile in velluto e raso con le maniche a kimono, datato 1910, realizzato per la grande attrice dalla sartoria Magugliany di Firenze. Come sta cambiando la moda!!! Siamo già nella Belle Époque.
Fra le firme celebri della moda a cui la Duse si affidò, ci sono Paul Poiret e soprattutto Mariano Fortuny, di cui prediligeva le suggestive creazioni.
Fortuny, il cosiddetto “Leonardo da Vinci della moda”, artista poliedrico e rivoluzionario, riprese, modernizzandolo, il classicismo greco-romano e lo fuse con i segni della cultura celtica, insiti nell’Europa dell’Art Nouveau e dell’Italia Liberty.
Fortuny riuscì a captare, con uno sguardo post-moderno, le radici culturali del continente europeo, dando loro una consapevole identità visiva. Ma la creatività a 360° di Mariano Fortuny, costantemente in cerca di nuovi stimoli, lo porterà a dedicarsi anche alla creazione di stoffe e tessuti.
E sarà proprio lui ad ispirare i maggiori stilisti della haute couture del Novecento – da Valentino a Issey Miyake – con il suo plissé arricciato, brevettato nel 1909, che è alla base dell’abito Delphos, ispirato all’antica Grecia. Il Delphos, detto anche Peplos, realizzato con tessuti leggeri lavorati a sottilissime plissettature, fonde il recupero creativo delle tuniche greche con l’utilizzo delle stampe di William Morris.
Esso diviene in breve tempo l’abito preferito da attrici di fama quali Eleonora Duse e Sara Bernardt, da celebri ballerine come Isadora Duncan e Anna Pavlova, e finanche da personaggi femminili nati dalla fantasia di scrittori come Gabriele D’Annunzio e Marcel Proust. Nella mostra troviamo esposta una Sopraveste in taffetas di un avorio chiaro, rigata color ocra (1915-1920), proveniente dall’Archivio Duse di Venezia.
E con la sopraveste del rivoluzionario Mariano Fortuny che ha liberato le donne dalle pastoie di inizio Novecento con i suoi modelli atemporali ed unici, offrendo confort ed eleganza in abiti indimenticabili, si chiude la prima parte di questa straordinaria mostra. Una mostra che non è solo una semplice esposizione di abiti e dipinti, ma che è molto molto di più: è un viaggio attraverso la storia. L’Arte della Moda è una grandiosa esposizione che ci racconta 3 secoli essenziali per capire la modernità attraverso il rapporto Arte-Moda… Ed io sono arrivata a fine Ottocento-inizi Novecento. Sono davvero estasiata da quel che ho visto.
Ma è solo l’inizio. Ci attende al secondo piano la settima sezione intitolata “Fragili muse della Bella Époque”.
Ma di questo ne parleremo la prossima volta.

Ogni lavoro è un figlio che riconosce sempre suo padre
(Mariano Fortuny)