Domenica 24 settembre 2023, San Pacifico
IN MEMORIAM
Gianni Vattimo era un caro amico; di lui conservo ricordi pieni di delicatezza e di serenità. Era un uomo timido e sensibile: la più bella memoria che conservo di lui è quella di un casuale incontro in un deserto vagone di seconda classe di una linea ferroviaria secondaria – oggi un “ramo secco” non più attivo, a causa della dissennata politica dei governi italiani del dopoguerra che obbedendo al diktat della famiglia Agnelli e di quanti erano interessati a indebitarci costringendoci a viaggiare sempre e soltanto in auto – durante il quale, tra le montagne dell’Appennino centrale, mi confidò di aver passato un’intera notte insonne vegliando il suo vecchio gatto preda di un duro attacco d’asma. Vattimo ha scritto cose molto belle: ma nel mio ricordo valgono soprattutto quelle lunghe ore notturne passate a confortare un vecchio amico. Per quel che concerne il suo pensiero e la sua opera, preferisco passare il testimone a chi ne sa più di me. – FC
UN SALUTO A GIANNI VATTIMO
di Antonio Carioti
È morto martedì sera all’ospedale di Rivoli (Torino) il filosofo Gianni Vattimo. Aveva 87 anni. Lo studioso ha trascorso gli ultimi giorni ricoverato nel reparto di nefrologia, dopo che le sue condizioni di salute si erano aggravate. La notizia della morte è stata data da Simone Caminada, 38 anni, suo assistente e compagno per 14 anni.
Si considerava al tempo stesso comunista e cristiano (anzi: proprio cattolico), ma era il pensatore antidogmatico per eccellenza, l’avversario convinto della pretesa di descrivere per via filosofica, o anche scientifica, l’ordine autentico della realtà. A Gianni Vattimo, morto martedì 19 settembre all’età di 87 anni, va riconosciuta la coerenza nel criticare ogni costruzione metafisica, che si esprimeva nella posizione comunemente conosciuta come “pensiero debole”, dal titolo di una famosa raccolta di saggi da lui curata con Pier Aldo Rovatti nel 1983.
Al filosofo torinese va reso inoltre il merito di aver cercato sempre di rendere la sua raffinata elaborazione teorica accessibile al pubblico mediamente colto. Aveva una straordinaria capacità di esprimersi in modo chiaro, per quanto suggestivo. E ha lasciato un formidabile resoconto della sua vita e del suo pensiero nell’autobiografia a quattro mani Non Essere Dio, scritta con Piergiorgio Paterlini (Aliberti, 2006; Ponte Alle Grazie, 2015). Sempre disponibile a dialogare e a partecipare nelle più diverse iniziative, Vattimo non aveva esitato a farsi avanti anche nell’arena politica: era stato a lungo parlamentare europeo, sempre nell’ambito della sinistra, ma in collocazioni via via mutevoli.
Nato il 4 gennaio 1936, Vattimo era figlio di un carabiniere calabrese di stanza a Torino, che era morto di polmonite quando il piccolo Gianni aveva appena sedici mesi. Cresciuto in condizioni disagiate, aveva sempre rivendicato le sue origini proletarie: oltre alla scuola, frequentata sempre con ottimo profitto, alla sua formazione aveva contribuito l’ambiente dell’oratorio, dove si era presto messo in luce. Appena diciottenne era divenuto delegato diocesano degli studenti dell’Azione cattolica, dalla quale però era stato presto espulso per le sue posizioni critiche verso l’autorità ecclesiastica. Ricordava però sempre con caloroso affetto il suo maestro, monsignor Pietro Caramello, un pensatore cattolico dalle idee assai conservatrici, legato all’eredità di Tommaso d’Aquino.
Nel 1955 il futuro filosofo era entrato alla Rai insieme agli amici Furio Colombo e Umberto Eco, ma l’aveva lasciata dopo un paio d’anni. La sua vera strada era quella universitaria, sotto la guida di un altro importante maestro e amico, Luigi Pareyson. Vattimo si era laureato nel 1959 con una tesi su Aristotele e nel 1964, a soli ventotto anni, aveva intrapreso l’insegnamento come incaricato di Estetica. L’anno prima era uscito il suo libro Essere, storia e linguaggio in Heidegger (Marietti, 1963), che già indicava una linea di ricerca dai tratti originali.
Lo stesso Martin Heidegger e Friedrich Nietzsche, al quale avrebbe dedicato nel 1974 il fondamentale saggio Il soggetto e la maschera (Bompiani), erano già allora i punti di riferimento basilari del pensiero di Vattimo. Un’autentica illuminazione era stata per lui un’immagine coniata dall’autore di Così parlò Zarathustra per cui “l’uomo moderno si aggira nel giardino della storia come in un deposito di maschere teatrali prendendo questa e quella”. Da Heidegger, di cui forse sottovalutava gli aspetti più inquietanti, aveva mutuato la polemica contro la tradizione teoretica “che crede di poter afferrare un fondamento ultimo della realtà nella forma di una struttura oggettiva collocata fuori dal tempo e dalla storia”.
Qui si possono individuare le basi dell’impostazione che avrebbe reso Vattimo un punto di riferimento anche a livello internazionale. L’introduzione alla raccolta di saggi Il pensiero debole (Feltrinelli), firmata con Rovatti, è un’acuta critica alla ricerca dell’“Essere originario, vero”, in cui ad avviso degli autori ancora si attardava gran parte dell’accademia italiana, in alternativa alla quale proponevano invece “una via per incontrare di nuovo l’Essere come traccia, ricordo, un essere consumato e indebolito, per questo soltanto degno di attenzione”.
Era un’impostazione che non mancava di forti ricadute sul terreno della vita pubblica, sorretta dall’“idea – avrebbe scritto molti anni dopo Vattimo – di utilizzare l’alleggerimento dei rapporti sociali, prodotto dalla tecnologia, fino a realizzare una forma di liberazione”. Era l’annuncio dell’epoca postmoderna, una visione iconoclasta che all’intento di fondare i saperi, proprio della filosofia occidentale, sostituiva il proposito di esautorarli, nella convinzione che l’Essere può essere pensato solo in forma plurale e contingente. Vattimo non negava il reale, come alcuni lo accusavano di fare, ma riteneva che fosse possibile coglierlo solo all’interno di determinati paradigmi, senza alcuna ambizione di piena e assoluta razionalità.
Preside della facoltà di Filosofia di Torino negli anni Settanta, firma della “Stampa”, personaggio pubblico di rilievo, Vattimo non nascondeva la sua omosessualità. La vita privata gli aveva riservato esperienze assai dolorose, delle quali parlava e scriveva apertamente. L’Aids gli aveva portato via nel 1992 il suo compagno Gianpiero Cavaglià, assistito amorevolmente fino all’ultimo. E poi un altro, Sergio Mamino, era stato colpito da un tumore ed era morto su un volo transoceanico dall’America all’Europa nel 2003, quando aveva già optato per l’eutanasia all’estero. Da ultimo era nato un caso giudiziario circa il suo rapporto con il compagno e assistente Simone Caminada, condannato a due anni di carcere per circonvenzione d’incapace nei riguardi del filosofo.
Negli anni Novanta si era intensificato l’impegno pubblico di Vattimo, sfociato nell’elezione al Parlamento europeo per due legislature, prima nei Democratici di sinistra nel 1999 e poi con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro nel 2009. In seguito le sue posizioni erano andate radicalizzandosi e alcune sue sortite, per esempio contro Israele o a favore del populismo venezuelano di Hugo Chávez, avevano sollevato parecchio clamore.
Si proclamava comunista, ma non in senso veteromarxista, anche se riteneva che ci fossero vari aspetti dell’opera di Karl Marx da recuperare. Più che altro intendeva manifestare così il suo rifiuto dell’ordine esistente. Non coltivava tuttavia una visione catastrofista della “tarda modernità”: era convinto che contenesse una dose insopportabile di barbarie, ma anche potenzialità emancipatrici di straordinario rilievo. Il futuro, diceva, “sarà socialista o non sarà”. Si richiamava, per alimentare il suo cauto ottimismo, a un verso del poeta romantico tedesco Friedrich Hölderlin, spesso citato da Heidegger, per cui dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva.
E per Vattimo una fonte di salvezza rimaneva la fede religiosa, alla quale si era da lungo tempo riavvicinato, forse senza mai distaccarsene davvero. Reinterpretando a suo modo il paradigma del capro espiatorio di René Girard, vedeva in Gesù “il primo grande desacralizzatore delle religioni naturali”, colui che aveva smentito lo schema di un rapporto autoritario tra l’uomo e il trascendente, rivelando che “Dio ci chiama amici”.
Perciò la secolarizzazione profonda del mondo occidentale gli appariva una grande “eredità del cristianesimo”. Anzi era convinto che il nichilismo postmoderno del pensiero debole fosse l’unica filosofia cristiana plausibile del nostro tempo. E nel pontificato di Papa Francesco Vattimo aveva ravvisato un segnale consolante di speranza.
(Corriere della Sera, 20 settembre 2023)
GIORGIO NAPOLITANO, UN COMUNISTA AL QUIRINALE
Giorgio Napolitano, ex presidente della Repubblica per due mandati tra il 2006 e il 2015 e primo della storia d’Italia a essere rieletto, è morto venerdì a 98 anni. Napolitano era in condizioni di salute precarie da molto tempo per via dell’età, e si era aggravato negli ultimi giorni: al momento della morte si trovava nella clinica privata Salvator Mundi a Roma. Una camera ardente verrà allestita a palazzo Madama, la sede del Senato, e martedì in piazza Montecitorio, fuori dal palazzo della Camera dei deputati, si celebreranno i funerali di Stato, laici: lo stesso giorno sarà dichiarato lutto nazionale.
Per decenni esponente di spicco del Partito comunista italiano (PCI) nella cosiddetta Prima Repubblica, poi presidente della Camera e ministro dell’Interno dopo il 1992, Napolitano raggiunse il massimo della sua influenza politica in tarda età, durante il primo mandato da presidente della Repubblica in cui si trovò a gestire momenti delicati dal punto di vista politico e turbolenti dal punto di vista economico.
Benché sia sempre rimasto all’interno dei dettami costituzionali, che prevedono un allargamento dei poteri del capo dello Stato nei periodi di maggiore instabilità del sistema politico, Napolitano è ricordato come un presidente della Repubblica particolarmente interventista. Durante il periodo della crisi dei debiti sovrani, che rischiò di far collassare l’economia italiana nel 2011, spinse per far dimettere l’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nominando poi un governo tecnico presieduto da Mario Monti.
Ma fu soprattutto durante la fase successiva, dopo le elezioni del 2013, che Napolitano diventò un presidente controverso, ritenuto a volte troppo ingombrante da alcune forze politiche. In quelle elezioni il Movimento 5 Stelle ottenne un risultato molto al di sopra delle aspettative, e il fatto che Napolitano nominò non uno ma due governi di “larghe intese” tra centrosinistra e centrodestra che escludevano il M5S venne usato a lungo come strumento di propaganda, per attacchi politici sia contro Napolitano stesso che contro i due presidenti del Consiglio di quegli anni, Enrico Letta e Matteo Renzi.
Sui giornali e tra i critici si cominciò a chiamare Napolitano “Re Giorgio”, un soprannome che poi avrebbe assunto in parte anche connotati positivi.
Giorgio Napolitano nacque a Napoli il 29 giugno del 1925 in una famiglia della borghesia, tre anni dopo l’inizio del ventennio fascista. Il padre, Giovanni, era un avvocato e poeta, originario di Gallo di Comiziano, un piccolo paese della provincia di Napoli. La madre, Carolina Bobbio, era di origini piemontesi. Nei primi anni di vita abitò a Napoli, in via Monte di Dio, nei Quartieri Spagnoli a pochi passi da piazza del Plebiscito. Fece il liceo classico e si laureò in giurisprudenza all’Università di Napoli Federico II nel 1947 con una tesi di economia politica sul “mancato sviluppo del mezzogiorno”.
Durante l’università Napolitano scrisse articoli per la rivista dei Gruppi universitari fascisti (GUF), un gruppo studentesco di volontari, e prese parte alle attività teatrali e cinematografiche. Recitò in alcuni spettacoli e scrisse sonetti in dialetto napoletano con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli.
Nel PCI Napolitano fece a lungo parte della corrente riformista, favorevole alla cosiddetta “via italiana al socialismo”. Per i riformisti la strada per arrivare al socialismo non era la contrapposizione netta al capitalismo o la rivoluzione. Bisognava portare avanti graduali riforme, con l’aiuto dei partiti socialisti italiani e ispirandosi ai partiti socialdemocratici europei. I riformisti furono sempre in contrapposizione con l’ala più radicale e di sinistra del PCI. Il principale esponente riformista era Giorgio Amendola, ma dopo la sua morte, negli anni Ottanta, Napolitano fondò la sua corrente di cui restò a lungo il capo: i “miglioristi”.
L’adesione di Napolitano al comunismo moderato e riformista non fu immediata: fu un percorso lungo che nella sua autobiografia descrisse come “un’evoluzione” piena di un “grave tormento autocritico”. Napolitano prese i primi contatti con gli esponenti del PCI già nel 1944, tramite le sue amicizie nei circoli intellettuali e culturali di Napoli, che era stata liberata dall’occupazione tedesca l’anno prima. Nel novembre del 1945, pochi mesi dopo la fine della guerra, si iscrisse al PCI. Prima di laurearsi, nel 1947, era divenuto segretario federale di Napoli e Caserta. Poi nel 1953 venne eletto per la prima volta al parlamento: da allora e fino al 1996, con l’unica eccezione della IV legislatura, venne sempre rieletto nella circoscrizione di Napoli.
Il momento più drammatico di quel periodo, come raccontò lui stesso, fu causato dall’invasione sovietica dell’Ungheria. In seguito agli accordi di pace stipulati alla fine della seconda guerra mondiale l’Ungheria, come il resto dell’Europa orientale, si era trovata nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica. Gli ungheresi si ribellarono alla dittatura filosovietica e all’occupazione militare nel 1956, e la repressione della rivoluzione da parte dell’esercito russo costò più di duemila morti.
Fu un momento di crisi per il comunismo internazionale. In Italia il leader della CGIL Giuseppe Di Vittorio definì i sovietici “una banda di assassini”. Diversi amici di Napolitano, tra cui Antonio Ghirelli e Giuseppe Patroni Griffi, si allontanarono definitivamente dal partito. La linea ufficiale però rimase saldamente filosovietica. L’Unità, all’epoca quotidiano del partito, definì i rivoluzionari “teppisti” e “spregevoli provocatori”. Lo stesso Napolitano rimase su questa linea e disse che “l’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”, mentre quando avvenne una cosa simile il decennio successivo in Cecoslovacchia criticò l’invasione. Nel 2006 Napolitano volle fare la sua prima visita ufficiale da presidente della Repubblica a Budapest, la capitale dell’Ungheria, dove depose una corona di fiori sulla tomba di Imre Nagy, il presidente dell’Ungheria rivoluzionaria ucciso dai sovietici.
Alla morte di Amendola nel 1980 la sua eredità venne raccolta dalla corrente dei “miglioristi”, di cui Napolitano fu leader a lungo. Il “migliorismo” derivava il suo nome dall’idea che fosse possibile “migliorare” gradualmente il capitalismo, attraverso una serie di riforme da portare avanti con una partecipazione attiva al governo.
Tra il 1989 e il 1991 si svolse il lungo processo iniziato con la cosiddetta “Svolta della Bolognina”, che avrebbe portato allo scioglimento del PCI il 3 febbraio 1991. Per Napolitano furono anni in cui si distaccò sempre più dalla vita operativa nel partito per diventare una figura più istituzionale, una sorta di padre nobile della sinistra che potesse assumere cariche importanti per cui era richiesta una certa imparzialità.
Nel 1992 venne eletto presidente della Camera, in piena crisi politica dovuta agli scandali di Tangentopoli e ai processi dell’inchiesta “Mani Pulite”. Durante il primo governo Prodi divenne il primo ministro dell’Interno proveniente dal PCI.
Per le stesse qualità venne nominato nel 2005 senatore a vita e poi diventò l’undicesimo presidente della Repubblica, eletto alla quarta votazione con 543 voti. All’inizio il suo mandato filò senza troppi scossoni, poi nel 2010 cominciò la crisi dei debiti sovrani. In estrema sintesi, nella crisi generale dell’economia dovuta al fallimento della grande banca d’affari americana Lehman Brothers, gli Stati europei più deboli dal punto di vista economico entrarono a loro volta in crisi, Italia compresa: lo spread, cioè il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, salì in maniera allarmante nel 2011 arrivando al suo massimo storico (574 punti base) a novembre.
Il governo era presieduto da Berlusconi, che non sembrava avere piena contezza della gravità della situazione, nonostante gli avvertimenti della Commissione Europea e degli altri capi di governo. Napolitano, si scoprì poi, aveva già sondato le possibilità di sostituire Berlusconi in estate. Berlusconi si dimise però soltanto il 9 novembre successivo, e Napolitano, sposando in pieno le indicazioni dell’Europa, nominò presidente del Consiglio l’economista Mario Monti. Disse che la cosiddetta austerity, fatta di tagli all’economia e rigore di bilancio, era necessaria e che sarebbe stato un periodo di sacrifici per l’Italia.
Per il modo con cui gestì la situazione e per l’immobilismo che stava attraversando il sistema politico di allora, alla scadenza del settennato Napolitano venne rieletto contro la sua volontà, a patto che da lì in avanti tutta la politica si impegnasse a portare avanti le riforme che servivano al paese. Questo messaggio venne sintetizzato efficacemente nel discorso al parlamento con cui Napolitano accettò di farsi rieleggere, un discorso fatto con i toni che avrebbe usato un docente di fronte a una scolaresca.
Si aprì un’altra fase di instabilità, perché c’erano appena state le elezioni nel febbraio precedente. Ne era uscito un quadro frammentato in tre poli, da un lato il centrodestra, dall’altro il centrosinistra, e in mezzo il Movimento 5 Stelle che non aveva intenzione di allearsi con nessuno. La formula che venne trovata fu un governo “di larghe intese” tra centrosinistra e centrodestra: individuò nel vicesegretario del PD, Enrico Letta, la figura che avrebbe potuto mediare tra le due parti.
Il governo Letta però durò poco a causa dei sommovimenti interni al Partito Democratico e all’improvvisa crescita dei consensi dell’allora sindaco di Firenze, Matteo Renzi. A gennaio del 2014 diventò segretario del PD, mettendo Letta in minoranza, e il mese dopo fece cadere il suo governo. Di fronte a tutto questo Napolitano non ebbe un ruolo molto attivo, si limitò a dire che le sorti del governo dipendevano dal PD. La direzione del partito decise che Letta si doveva dimettere e Napolitano sancì la situazione nominando Renzi nuovo presidente del Consiglio.
A gennaio dell’anno successivo, viste le intenzioni riformatrici del governo che aveva nominato e vista l’età già piuttosto avanzata, Napolitano si dimise dalla sua carica: prima di lui lo avevano fatto solo Antonio Segni (per motivi di salute), Giovanni Leone e Francesco Cossiga, entrambi quando mancavano soltanto pochi mesi alla fine del settennato. Nel discorso di fine anno del 2014, Napolitano aveva detto: “A quanti auspicano – anche per fiducia e affetto nei miei confronti – che continui nel mio impegno, come largamente richiestomi nell’aprile 2013, dico semplicemente che ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento e le incognite che essi racchiudono, e dunque di non esitare a trarne le conseguenze”. Gli succedette Sergio Mattarella, ancora oggi in carica, anche lui al suo secondo mandato.
(Il Post, 22 settembre 2023)