Domenica 24 settembre 2023, San Pacifico
MA L’INTOLLERANZA DILAGA
LA GUERRA IN UCRAINA E LA “SBALORDITIVA” CRIMINALIZZAZIONE DEL DISSENSO. INTERVISTA CON L’EX AMBASCIATRICE ELENA BASILE
di Paolo Arigotti
Elena Basile, diplomatico di carriera dal 1985, ha ricoperto diversi incarichi presso le ambasciate di Madagascar, Canada, Ungheria, Portogallo. Dal 2013 al 2017 è stata ambasciatore d’Italia a Stoccolma, per poi assumere lo stesso incarico presso la sede diplomatica di Bruxelles. Elena Basile è un’analista di politica internazionale, ha avviato una collaborazione come free lance per Il Fatto quotidiano. È inoltre scrittrice. Ha pubblicato sinora cinque libri: Donne nient’altro che donne (1995) Una vita altrove (2014), Miraggi (2018), pubblicato anche in lingua francese col titolo Mirages, Editions du Sablon, In famiglia (2022), Un insolito trio (2023), presentato lunedì 18 settembre al chiostro del Teatro Piccolo di Milano insieme a Moni Ovadia.
Ambasciatrice Basile, grazie per averci concesso questa intervista. La prima domanda si riallaccia inevitabilmente all’attualità: a che punto è la guerra in Ucraina, pure alla luce del sostanziale fallimento della controffensiva di Kiev?
Non credo, malgrado lo stallo delle operazioni militari, che sia facile pervenire a un cessate il fuoco e a un armistizio.
È vero che gli americani portano già a casa un importante bottino di guerra (profitti energetici e del complesso militare industriale, separazione dell’Europa dalla Russia, vassallaggio dell’UE e fine dei sogni di autonomia strategica e difesa europea), è vero che la war fatigue potrebbe pesare sulla campagna presidenziale di Biden già minacciata dalla salute mentale dello stesso, il cui stato è ormai di dominio pubblico, ma non si investono 101 miliardi in una guerra per portare a casa un armistizio che lascia Kiev in condizioni peggiori di quanto era all’inizio del conflitto. Del resto non credo che i russi, oggi in una posizione di forza, accetterebbero un armistizio che permetterebbe agli ucraini e alla NATO la produzione di munizioni e di meglio prepararsi al fine di ricominciare l’offensiva in condizioni migliori e se le contingenze politiche di Washington lo permetteranno.
Il pessimismo dell’intelligenza non deve tuttavia cancellare l’ottimismo della volontà. Ben vengano gli sforzi di mediazione. Io stessa parteciperò al convegno organizzato dal Coordinamento Democrazia Costituzionale e Europe for Peace al fine di riproporre un nuovo appello per la pace dopo il primo, del luglio scorso, che ha ottenuto centinaia di firme ed è stato promosso da ex Ambasciatori e politici, intellettuali, giornalisti.
A partire dall’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale” (per i russi) o della “guerra di aggressione contro l’Ucraina” (per gli occidentali) si è molto discusso sulle origini e le cause di questo conflitto, risalenti a periodi storici precedenti al febbraio 2022. Qual è la sua lettura in merito e ci potrebbe consigliare una o più pubblicazioni per approfondire il tema?
Le cause della guerra sono note da tempo. George Kennan, artefice della strategia del containment, aveva previsto il conflitto e pronunciato parole accorate nel 1997, quando la strategia di espandere la NATO a est, tradendo le promesse fatte a Gorbaciov, fu delineata con maggiore nettezza dalla amministrazione USA. Gli Interventi di Kissinger e Sergio Romano, soprattutto a partire dal 2014, in merito all’inevitabilità di una reazione di Mosca nel caso Kiev aderisse alla NATO sono estremamente chiare. John Mearsheimer, uno dei maggiori analisti statunitensi, Professore all’Università di Chicago, ha riconosciuto che l’espansione dell’organizzazione atlantica a Est fino a lasciare la porta aperta a Ucraina e Georgia sarebbe stata percepita (ed è) dalla Russia come una minaccia inaccettabile.
Questa guerra non ci sarebbe stata se l’Ucraina fosse divenuta neutrale come l’Austria o la Svizzera. La domanda evidente è: cosa sarebbe stato meglio per il popolo ucraino, essere in un Paese garantito nella sua sicurezza e libero di avere relazioni economiche con Mosca e con l’occidente oppure vivere nel Paese fallito di oggi? Purtroppo nelle élites occidentali esiste una malafede insopportabile. Il conflitto era annunciato ed era evitabile. È stato perseguito sistematicamente dall’Amministrazione USA. Le resistenze della vecchia Europa si sono fatte sentire all’inizio. Germania, Francia, Italia si sono opposte nel corso del Vertice di Bucarest del 2008 alla politica della porta aperta verso Kiev e Tbilisi. Oggi siamo tutti allineati, contro i nostri stessi interessi, contro i popoli della vecchia Europa.
La narrazione del conflitto portata avanti in questo paese, come più o meno in tutto il cosiddetto Occidente, è stata a senso unico. Chiunque esprimesse posizioni “non allineate” è stato attaccato e/o esposto alla gogna mediatica. Che opinione si è fatta di tutto questo e si sentirebbe di condividere il punto di vista più volte espresso dal prof. Alessandro Orsini, secondo il quale in Italia non esisterebbe libertà d’informazione sulla politica internazionale?
Non parlerei dell’Italia come un caso a sé. Nel nostro Paese avviene più o meno quanto accade negli altri membri dell’UE. C’è una sbalorditiva criminalizzazione del dissenso. Ne ho fatto le spese in prima persona quando ho subito i linciaggi dei media che mi hanno addirittura accusato di collusione con i servizi di un altro Paese. E meno male che una mia ex collega, Elisabetta Belloni, (siamo entrate insieme alla Farnesina nel 1985, due sole donne tra 28 giovani diplomatici), oggi Direttore Generale del DIS, ha avuto l’intelligenza di non dare corso alle richieste di indagini e di riunioni del COPASIR da parte di alcuni politici altrimenti il ridicolo sarebbe stato raggiunto, scene surrealiste che meriterebbero il pennello di Magritte.
Certamente l’Occidente resta democratico. Continuo come tanti a criticare ferocemente l’imperialismo USA oppure le politiche guerrafondaie odierne dell’Europa e nessuno si permette di minacciare la mia sicurezza personale. In Russia questo non accadrebbe.
È vero che come tanti altri ex Ambasciatori e intellettuali, sono innocua e ininfluente. Non abbiamo vere armi contro il potere attuale. Mi domando se la repressione non sarebbe diversa e spaventosa anche in Occidente se ci temessero come hanno temuto Assange. Le vicende del fondatore di Wikileaks sono uno schiaffo a tutti i cantori del liberalismo odierno e della protezione dei diritti umani in occidente.
Tra le varie definizioni adottate per questo conflitto vi è stata quella di “guerra per procura”: lei condivide questa lettura?
Chi potrebbe negarla? La guerra in Ucraina è una guerra degli Stati Uniti e della NATO alla Russia. Non lo dico io ma gli stessi dirigenti politici che dichiarano da prima dello scoppio del conflitto di desiderare la caduta del regime di Putin e l’indebolimento della Russia con una evidente violazione del principio sacro al diritto internazionale: la non ingerenza negli affari interni di un altro Paese. Purtroppo siamo strabici. Vediamo soltanto la violazione delle frontiere e dell’integrità territoriale perpetrata da Mosca ai danni di Kiev, ma non le violazioni di altri principi contenuti ad esempio nella Carta di Parigi dell’OSCE come l’indivisibilità della sicurezza in Europa: nessuna alleanza militare può espandersi a spese della sicurezza di un altro Stato. I cinesi tuttavia non hanno malattie oculistiche e ci ricordano i principi del diritto internazionale nella loro integrità.
Quello in Ucraina, come lei stessa ha più volte ricordato in vari interventi ed editoriali, non è il primo conflitto sul suolo europeo dopo il 1945, con un chiaro riferimento alle guerre iugoslave degli anni Novanta. Un parallelismo che mi verrebbe in mente è il ruolo inconsistente svolto dall’Europa in entrambi i casi. A cosa imputerebbe questa posizione defilata e/o subordinata dell’Europa? Il vecchio continente è destinato a restare una sorta di “appendice” di Washington? A questo punto, che futuro si potrebbe prevedere per un’istituzione come la UE?
Con la caduta del Muro e l’inizio del ventennio unipolare sono saltati alcuni equilibri. L’atlantismo cieco e indiscusso è divenuto per le élites europee una sorta di certificato che garantiva di aver superato l’esame, di avere la possibilità quindi di andare al Governo. I bombardamenti di Belgrado del 1999, avvenuti senza la benedizione dell’ONU, sono stati un’indecente violazione della sovranità di uno Stato e hanno costituito la prima guerra in Europa diversamente da quanto anche alte figure istituzionali hanno dichiarato. La differenza tra la guerra in Ucraina e le guerre balcaniche consiste, come nota un eccellente storico napoletano, Salvatore Minolfi, nel fatto che il conflitto ucraino può degenerare in una Major War, in una guerra mondiale (deriva inesistente al tempo della guerra NATO a Belgrado).
Parliamo del ruolo della diplomazia, opzione per lungo tempo esclusa, se non boicottata, predicando il “mantra” della vittoria ucraina a tutti i costi. Ultimamente ho percepito un cambio di rotta, perfino nel cosiddetto mainstream: secondo lei a cosa potrebbe essere dovuto?
Come ho detto prima è difficile credere in un armistizio, in un cambiamento di rotta. La diplomazia come potere autonomo e in grado di incidere sulla politica è attualmente inesistente. La guerra terminerà quando gli statunitensi lo decideranno. Sarebbe tuttavia opportuno lavorare a un appello congiunto di diplomatici europei affinché si ponga fine al massacro del popolo ucraino e lo proporrò al coordinamento democrazia costituzionale. Tutto può influire.
La demenziale strategia USA, avallata da tanti nostri analisti consisteva in una guerra che avrebbe isolato Putin, affossato l’economia russa con l’implementazione di sanzioni economiche senza precedenti, una vera e propria guerra economica iniziata già nel 2014, e provocato la caduta del regime. Questi obiettivi non sono stati raggiunti ed è un fatto. Nessuno vieta a Washington di posporli in un futuro indeterminato. Ecco l’Afghanistan in Europa. Se avessimo una dialettica in ambito Nato la vecchia Europa, come già la Turchia, potrebbe avere una voce e temperare la follia dei neoconservatori statunitensi.
Nel suo ultimo romanzo, Un insolito trio, fresco di stampa, uno dei protagonisti è un diplomatico di lungo corso, che decide di “lasciare” quando, in crisi con la sua coscienza, si rende conto dei fenomeni corruttivi che affliggono il settore della cooperazione. Premesso che il libro è stato scritto prima di una serie di fatti, la trama mi ha fatto venire in mente una domanda per l’autrice: quante volte interessi personali ed egoistici vengono anteposti a quelli generali?
Sono contenta che mi faccia una domanda sul mio ultimo libro di narrativa. Come tanti outsiders del microcosmo culturale italiano trovo difficile poter contare sulla promozione da parte delle case editrici oppure su uno spazio equo sui giornali principali.
Del resto nelle “illusioni perdute” di Balzac già si denuncia la commistione torbida tra interessi economici, caste politiche, cultura.
Il libro illustra l’antico dramma di Antigone: quando la fedeltà alla nostra coscienza, all’etica della convinzione di Max Weber, prevale sui nostri doveri di fedeltà alla struttura?
Non credo che politici, giornalisti, diplomatici e imprenditori, tanti professionisti possano permettersi il lusso di essere eroi, di perdere il sonno dietro questo genere di dilemmi esistenziali. Come afferma Barbero, forse a fine carriera, già protetti finanziariamente, si può alzare la testa ma la maggioranza subisce. E così lentamente muore la democrazia interna a imprese, ministeri, istituzioni. Il rischio di un conflitto nucleare dovrebbe spingere molti, quelli che possono permetterselo (io stessa se non avessi potuto andare in pensione con leggere penalizzazioni avrei mai abbandonato l’unica mia fonte di reddito?) a partecipare al dibattito pubblico, a sostenere un’apertura senza pregiudizi ideologici.
Il romanzo nella figura dell’Ambasciatore Serafini incarna un personaggio donchisciottesco, un uomo solo che inevitabilmente perde nel suo scontro contro la maggioranza politica e la cupola ministeriale. Gli unici a fargli compagnia sono i suoi collaboratori: un poeta, omosessuale tormentato, e una giovane diplomatica che ha la sensibilità di un’artista e nessuna voglia di integrarsi nel mondo banale della burocrazia ministeriale. Il libro racconta con ironia gli incontri giocosi e i dilemmi di due uomini e una donna tra Canada, Africa e Italia. È la cronaca di un’amicizia sentimentale che Filippo La Porta paragona a Jules and Jim, il leggendario triangolo amoroso di Truffaut, anche se l’eros rimane nell’ombra, colorando di tinte tenere e ambigue il cameratismo di tre diplomatici.
Tornando al conflitto in corso, le due versioni ufficiali che circolano, ovviamente antitetiche, giustificano il conflitto come un’azione per tutelare i diritti delle minoranze russofone in Ucraina, sottoposte a discriminazioni di ogni genere o – dal punto di vista occidentale – come una lotta per la difesa della democrazia. Cosa c’è di vero nelle due narrazioni, visto che è risaputo come la verità sia la prima vittima della guerra?
Difficile oggi credere nella difesa della democrazia in Ucraina, un Paese fallito, sottoposto alla legge marziale, nel quale i partiti dell’opposizione sono stati aboliti e oligarchi e corruzione albergano mentre la destra radicale, neo-nazista ha poteri ricattatori sull’élite al governo.
Quanto ai russi, sicuramente hanno strumentalizzato a loro vantaggio i problemi delle popolazioni russofone e delle regioni del Donbass. I problemi tuttavia erano e sono reali. Kiev ha scelto la repressione. Se gli accordi di Minsk fossero stati applicati e fosse stata data applicazione al principio europeo di protezione delle minoranze linguistiche e regionali questo conflitto non vi sarebbe stato. L’Europa, Francia e Germania che di questi accordi avrebbero dovuto essere i garanti, hanno una responsabilità storica oggettiva. Merkel e Hollande hanno confessato quale era la strategia: temporeggiare. I ragazzi ucraini sono morti anche per questo.
Tutti i tentativi di arrivare a una soluzione negoziale del conflitto sono falliti. A suo avviso esistono delle responsabilità e a chi sarebbero imputabili?
Nel dicembre del 2021 c’è stata una proposta di mediazione inviata da Putin agli Usa e alla NATO. Rispedita al mittente senza dialogo e trattative. Da tutti giornali si levò un coro di pappagalli: proposta inaccettabile! Leggetela e ditemi se non poteva essere oggetto di discussioni. Stoltenberg col suo solito candore ha dichiarato al PE le proprie responsabilità. Mosca lo perseguitava nel Natale del 2021 per evitare il conflitto.
Nel marzo del 2022, se non erro, la delegazione ucraina e quella russa avevano individuato un possibile accordo. Biden e Johnson imposero a Zelensky la marcia indietro. È tutto documentato. Basta informarsi.
Lascio al lettore il giudizio sulle responsabilità.
L’Europa, Ucraina a parte, è il continente che ha sofferto maggiormente per le conseguenze del conflitto, pensiamo solo alla perdita dell’energia a basso costo proveniente dalla Russia. Lei riterrebbe plausibile un riavvicinamento tra Mosca e Bruxelles una volta cessata la situazione bellica, o pensa che le relazioni tra le due parti siano oramai irrimediabilmente compromesse?
Francia e Germania si sono riavvicinate dopo guerre cruente. Bisognerebbe tuttavia cambiare rotta, uscire dalla mentalità di guerra fredda, ritornare ai principi di Helsinki. Li invocava il Presidente Mattarella se non sbaglio? Tutto potrebbe essere possibile con una nuova classe dirigente in Europa che persegua il bene comune del popolo ucraino, europeo e russo.
L’Occidente ha vantato, per bocca di diversi suoi rappresentanti, una serie di successi, come l’allargamento della Nato (Finlandia e, forse, Svezia) e/o il presunto isolamento della Russia. In realtà, si stanno creando i presupposti per la nascita di un nuovo blocco economico e politico, alternativo al “giardino” occidentale: a suo avviso il conflitto in Ucraina potrebbe aver accelerato questi processi?
Sì, lo penso. Nel 2008 scrissi su Comunità Internazionale un articolo che già menzionava il multipolarismo. È un processo che è maturato lentamente ma che la guerra in Ucraina ha accelerato come l’ultimo Vertice dei Brics a Johannesburg ha mostrato. L’ adesione di paesi come Arabia Saudita e Iran è uno schiaffo morale alle politiche di destabilizzazione condotte dall’Occidente in MO. Leggiamo la dichiarazione di Johannesburg: le autocrazie del mondo si appellano ai principi democratici delle Nazioni Unite e ne chiedono una applicazione sostanziale senza doppi standards. Sostengono inoltre una redistribuzione del potere nella governance globale, monetaria e politica, affinché il Sud sia equamente rappresentato.
Cina, India, Brasile e gli altri Brics si appellano all’ONU e sostengono riforme politiche e dialogo. Cosa fanno le democrazie? Inventano il decoupling e preparano il conflitto per Taiwan. Costruiscono il migliore dei mondi possibili dove blocchi armati fino ai denti si fronteggino.
L’ultima domanda, nel ringraziarla, è la richiesta di sua opinione, non certo una previsione, sull’esito del conflitto in corso: quanto influiranno le elezioni presidenziali USA (ed europee) del 2024? Ricordo anche una sua recente analisi, pubblicata su The Post Internazionale (www.tpi.it/esteri/guerra-ucraina-europee-referendum-pace-basile-202309131040549/), significativamente intitolata “L’Ucraina è il nuovo Afghanistan: le prossime europee siano un referendum per la pace”.
Non sono ovviamente una sostenitrice di Trump. Eppure è un fatto. La vittoria di un repubblicano, per quanto spregiudicato e cinico, permetterà di uscire dal falso radicalismo etico col quale l’Amministrazione democratica traveste gli “sporchi” interessi geopolitici, energetici, e del complesso militare industriale. Ideologie, dogmi, e tabù quasi fossimo al tempo dei crociati, allontanano la mediazione che è per antonomasia la composizione di interessi contrapposti entrambi legittimi. Il pragmatismo dei repubblicani potrà giovare alla causa della pace.
(L’Antidiplomatico, 17 settembre 2023)