Domenica 1 ottobre 2023, Santa Teresa del Bambin Gesù
LIBRI LIBRI LIBRI
Beatrice DEL BO, L’età del lume. Una storia della luce nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 2023, pp. 290, euri 20,00 (Intersezioni, 590)
“Far della luce è cosa più preziosa che fare dell’oro”: così si esprime un personaggio dell’Annonce faite à Marie di Paul Claudel. La luce è una delle protagoniste del “buio” medioevo: i costruttori di cattedrali gotiche sapevano perfettamente come accendere i loro immensi edifizi decorandoli di vetrate policrome che letteralmente si accendevano con i raggi del sole che, a seconda delle ore del giorno, penetrava al mattino dalle alte finestre dell’abside orientato ad est, quindi a mezzogiorno attraverso l’infocato rosone del transetto meridionale, quindi nel pomeriggio illuminava da sud le navate, infine incendiava dei colori del tramonto la navata centrale con la luce del tramonto: e la festa dei gialli zafferano, dei rosso fuoco, dei verde mare e degli azzurri zaffiro riempiva la casa del Signore di colori vivi e sgargianti.
Mi aspettavo infatti un libro sulla luce: quella fisica del sole nelle cattedrali, quella intellettuale e metafisica degli ottici, dei filosofi e dei mistici.
Però mi sbagliavo: e per fortuna, in quanto di libri di quel genere ce ne sono abbastanza. D’altronde Beatrice Del Bo, medievista dell’Università Statale di Milano, si occupa con successo di storia economica e sociale: perché mai avrebbe dovuto occuparsi di metafisica, di fisica, di ottica e di matematica? Invece essa ha scelto, squadernandoci davanti una quantità impensabile di fonti note e meno note tanto cronistiche quanto documentarie quanto iconiche, di fornirci una molto meno abituale storia delle luci e dei lumi del medioevo occidentale, delle occasioni di far luce in pubblico e in privato, dei mezzi e degli strumenti. E giocoforza, facendo la storia dei lumi, ha fatto anche quella del buio, dell’oscurità di ogni genere e origine, della notte.
Va detto quindi subito che questo libro suggestivo – e, è il caso di dirlo, “illuminante” – ha sì un’indiscussa protagonista, la luce artificiale, ma altresì un’iperprotagonista che la produce. Ed è la cera d’api insieme col suo umile compagno e succedaneo, il grasso animale (o “sego”). Certo, se si parlasse dell’antichità mediterranea, protagonisti sarebbero la lucerna e l’olio: e non è che nel medioevo non ve ne fossero. Ma nell’Europa occidentale la regina dei lumi era piuttosto la cera d’api, che con il miele e con il grano e con il legname giungeva in quantità massicce dalle pianure russe attraverso il Mar Nero: il che non toglie ovviamente che ve ne fosse anche una produzione autoctona, magari meno abbondante.
Fiammella d’olio e fiammella di cera o di sego non producono lo stesso tipo né di luce, né di odore. Scuotetevi dalla viziosa comodità della luce elettrica e provatevi di notte a vegliare o a studiare qualche ora alla luce cruda d’una candela: dopo qualche ora avrete gli occhi rossi infiammati, la bocca arida e piena del sapore untuoso della cera o del grasso (ma anche l’olio è micidiale), a meno che, compiendo un tanto ardito quanto maldestro anacronismo, non preferiate uno di quei monumentali lumi a petrolio ancor più fumosi e maleolenti delle candele per quanto più potenti di esse. Roba da Bohème o da Fanciulla del West. Certo, a parte tutto ciò vi era la fiamma del caminetto, che poteva essere allegra, luminosa e confortevole: ma inadatta sempre e comunque alla lettura.
Candele, candelotti, lumini e ceri, quindi, e magari torchi e fiaccole: e loro numerosi supporti; e ancora perfino mozziconi di candela (quelli che in Toscana si dicono volgarmente “mòccoli”, parola impegnativa e possibilmente da evitarsi). E ancora, i supporti: candelabri (quelli che poi diventeranno lampadari), candelieri di varia foggia, bugìe, e ancora lanterne, lucerne, làmpane. La città medievale, con il coprifuoco, diventa il regno del buio: squarciato tuttavia da luci e da lumi di vario tipo, consentiti o clandestini. Quando poi vi sono feste o processioni, le luminarie divengono grandi, talvolta perfino immense, e davvero impressionanti: e a partire almeno dal Tre-Quattrocento entrano in gioco gli specchi, a riflettere e moltiplicare le luci. Un lampadario al centro di una stanza sulle quattro pareti della quale siano appesi altrettanti specchi s’illumina magicamente d’una miriade di luci riflesse all’infinito. Luci vive, spesso libere, pericolosissime: e gl’incendi, in quel mondo, sono correnti e crudeli. Ma anche una magia il ricordo della quale riempie ancora gli occhi di noialtri vecchi, che abbiamo magari superati gli otto decenni di vita e ricordiamo scene di notti del tempo di guerra o di luoghi montani e isolati, dove si camminava al buio delle miglia e a confortarci c’era solo una lucina lontana lontana, come nelle fiabe.
Luci del cuore. Le candeline dei vecchi alberi di Natale, un walzer o un a cena al lume di candela… Chi ci restituirà mai quelle sensazioni, quella magia?
“La storia ci unisce e la realtà politica ci divide, un poco”. Lettere di Gioacchino Volpe a Benedetto Croce, 1900-1927, a cura e con un saggio introduttivo di Eugenio Di Rienzo, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 2021, pp. 185, euri 9
Non c’è dubbio che Eugenio Di Rienzo, storico dell’Università di Roma studioso di rapporti internazionali e di storia della cultura contemporanea, sia oggi uno dei nostri migliori specialisti dell’Italia durante il periodo compreso fra le due guerre: rispetto al quale dimostra di aver messo a frutto in modo originale e libero da pregiudizi “postideologici” di sorta la grande lezione di Renzo De Felice.
Di Rienzo ha fornito negli ultimi anni contributi essenziali e decisivi alla storia del pensiero dei massimi protagonisti della vita politica e culturale del nostro paese tra fine Ottocento e fine Novecento nonché ai loro complessi, intricati rapporti: con studi dedicati soprattutto a Gaetano Salvemini, a Gioacchino Volpe, a Benedetto Croce, ma anche a Giovanni Gentile, a Benito Mussolini, ad Antonio Gramsci e negli ultimi tempi allo stesso Gabriele D’Annunzio.
Ora, in un libro dall’apparenza stringata – le dimensioni di un perfetto pocket – e in evidente margine ad altre ricerche, Di Rienzo si assume un compito in realtà gravoso e pericoloso in quanto nelle fonti ch’egli esamina sembrano riassumersi tutte le aporie e le contraddizioni della controversa – non facile e, aggiungiamolo pure, non felice: anzi, per più versi amara – storia dell’Italia unita, dell’imperfetto “farsi degli italiani” (tanto per parafrasare una celebre pericope), della travagliata storia del regno, del suo fallimento, del suo passaggio alla repubblica e del suo difficile collocarsi nella dinamica dei contesti “occidentale”, europeo e mediterraneo.
Oggetto di questo studio è un grosso carteggio: o meglio, la parte di esso che riguarda le missive di uno dei due corrispondenti. Per oltre un quarto di secolo, tra 1900 e 1927, Gioacchino Volpe e Benedetto Croce mantennero un fittissimo scambio epistolare (un’ottantina le sole missive dello storico di Paganica al filosofo di Pescasseroli), che Di Rienzo ha vagliato con scrupolosa attenzione e che peraltro s’incrociò con altre corrispondenze del medesimo tipo: con Giovanni Gentile, ad esempio. Anzi, il “triangolo” Croce-Gentile-Volpe si rivelò fondamentale, specie sul piano del superamento dei limiti “materialistici” di Labriola, di Loria, di Arias e di altri.
Un’amicizia e una stima reciproca collegava i tre coprotagonisti del rinnovamento degli studi storici, filosofici e letterari dell’inizio del secolo: e la rivista di Croce, la “Critica”, ne è testimone. Tuttavia la lunga drammatica contingenza del decennio teso tra la metà del secondo e la metà del terzo decennio deteriorò e alla fine compromise senza possibilità di soluzione alternativa i rapporti che avevano già subìto una nella sostanza irreversibile scossa con riferimento alla prima guerra mondiale: “La politica ci divide, un poco”, aveva scritto Volpe a Croce commentando l’opposizione tra le rispettive posizioni, interventista del primo, neutralista del secondo, riguardo all’ingresso dell’Italia in guerra al termine di un periodo di ambigua neutralità. Più tardi, in modo speciale dopo il delitto Matteotti, la rottura divenne insanabile; e mentre Gentile e Volpe palesavano le loro scelte e Salvemini intraprendeva la via dell’esilio, Croce – che in un primo tempo si era pur mostrato favorevole al fascismo e in quanto senatore aveva mantenuto una posizione lealistica nei confronti del governo – aumentava la sua distanza dagli ex amici e intanto si avvaleva della sua personale “dittatura”, quella sulla “repubblica delle lettere”, per modificare (inacerbendoli anche oltre quel che sarebbe stato obiettivamente opportuno) i suoi giudizi anche sui piani culturale e scientifico.
Al di là della dottrina e dell’accuratezza della ricostruzione di una dinamica oltre che intellettuale anche umana, questo è un libro amaro. Come sovente accade nei casi della storia e anche della vita, gli eventi assumono talora il ritmo di un Totentanz che fatalisticamente incontrollabile trascina chi si trova nella loro corrente.
James HILLMAN, Silvia RONCHEY, L’ultima immagine, Milano, Rizzoli, 2021, pp. 254, euri 19
È un dotto saggio storico-iconologico redatto da due grandi studiosi all’ombra dell’ispirazione simbologica di Carl Gustav Jung. Ma è anche una sorta di dialogo socratico su tema storico-artistico, del genere del quale la Ronchey ci ha già fornito anni fa un modello fondato su Piero della Francesca e Carlo Ginzburg. D’altro canto, lo si potrebbe leggere come l’histoire d’un’âme, o forse di due. O come la cronaca della morte in diretta di un filosofo americano testimoniata da una grecista italiana. O magari come il soggetto d’un film à la Marcel Carné riscritto da Ingmar Bergman. Badate che non scherzo.
Un libro da leggere con estrema attenzione, con metodo. Nella nota Ai lettori firmata nell’agosto scorso Margot Mc Lean, la moglie di Hillman – che lo ha assistito sino all’estremo, alla sua socratica fine sopraggiunta dieci anni or sono in un giorno luminoso della Indian Summer newenglander, allorché i boschi si vestono di rosso e d’oro – ricorda la loro amicizia con Silvia accesa nel ’99 e coronata poi, quasi un decennio più tardi, da una lunga visita comune a Ravenna, qui finemente raccontata: si era nel 2008, l’anno della grande crisi, del crack, del “crollo”. Tre anni dopo, nell’ottobre 2011, la filologa italiana ha viaggiato fino a Thompson nel Connecticut per un lungo, estremo dialogo. Hillman, lucidissimo, era ormai immobilizzato in un letto del quale Margot andava amorosamente sistemando con delicatezza i cuscini.
Da buona filologa che non si smentisce mai, la Ronchey – forte di ben due esperienze di scrittura comune con Hillman, L’anima del mondo del ’99 e Il piacere di pensare del 2001 – segue fedelmente la sbobinatura delle registrazioni raccolte tanto a Ravenna quanto a Thompson conferendo tuttavia al materiale che in esse era contenuto un taglio e una sostanza che, nel rispetto delle indicazioni ricevute dall’illustre partner, integra, commenta e rende coerente un discorso scaturito dalla spontaneità di intuizioni, osservazioni e dedizioni scaturite prima in itinere durante la visita ravennate e quindi nel riascolto e nelle ridiscussioni durante il setting in Connecticut: occasione quest’ultima così intima, serena e colloquiale in superficie, ma solennizzata nella sostanza dalla volontà di entrambi i coautori di trasformare le pagine che così sarebbero scaturite dal confronto in una testimonianza estrema, resa alta e profonda da una Presenza silenziosa e incombente. Hillman sarebbe difatti uscito da questo mondo pochi giorni dopo che Silvia aveva lasciato la sua casa di Thompson.
Predisposta e preparata con tanta cura, la profonda complessità dell’assunto si presenta come esito di un colloquio condotto su un filo privo di soluzione di continuità, mentre in realtà sull’ordito delle 23 conversazioni ravennati – per strada, in qualche caffè o ristorante, nei due battisteri “degli Ariani” e “degli Ortodossi”, nel mausoleo di Galla Placidia, a san Vitale, a Sant’Apollinare in Classe, a Sant’Apollinare Nuovo – si distendono e s’intersecano i nodi della trama dei 14 colloqui di Thompson, tra mattinate, pomeriggi, serate: il tutto a comporre il disegno di 11 unità concettuali costruite a molti mesi di distanza reciproca sia ad est sia ad ovest dell’asse mediterraneo-atlantico. Nove di esse sono dominate dalle due ineffabili “erme” onirico-profetiche della visione ravennate, nel battistero degli Ortodossi, narrata nei Ricordi di Jung e da quella dell’”enorme bolla azzurra che si schiudeva nel verde” rivelatasi a Hillman una notte a Isfahan, dopo la visione delle sue cupole e prima di un pranzo con Henri Corbin: e vi si parla di Arianna e di Dioniso, di psicologia e d’alchimia, di paganità e di cristianesimo, di parole e di diavoli, di anima e di felicità, di vista e di menzogne, di pianto e di bellezza. La decima unità concettuale si distende in tre conversazioni a Thompson, alla vigilia della morte del Maestro: una mattina, un pomeriggio, di nuovo una mattina in cui si delinea, con termini che ricordano insieme Corbin e Florenskji, il secondo delle immagini “come segnavia (parole di Silvia) per la conoscenza delle verità e il dispiegamento della bellezza”: immagini vere, quelle “che (parole di James) non sollecitano l’azione”. È vera l’immagine della morte: perché (parole di Silvia, ma ispirate da James) “una vita o una società che non tenga vicina la morte è moribonda, morente”. L’enigma dell’icona. Dove tracciare la linea che separa la vita dalla morte? Ecco la nuova domanda.
Ma con ciò tutto potrebbe sembrare sia pure imperfettamente concluso: consummatum est. Invece no. Perché il discorso non si chiude a Thompson, Connecticut, con lei che riparte tornando a oriente e lui che muore. Il ciclo cronologico invece s’inverte, retrocedendo dal 211 della morte del filosofo al 2008 del crollo dell’Occidente: in fondo, del resto, eterno ritorno dell’uguale. L’undicesima e ultima unità concettuale (ma la dodicesima, che forse sarebbe la perfettamente intelligibile, la soluzione definitiva, tace) ci riconduce invece pietosa e implacabile alla “città del silenzio”, dove l’anima varca silenziosa verso il mare dell’eternità, e di lì a Isfahan: al 2008 e poi addirittura al 1971. Ed eccola, l’Ultima Immagine racchiusa nel cielo di stelle d’oro di Ravenna, nelle cupole verdazzurre d’Isfahan: il Cosmo e la Terra, come nei viaggi dei sufi amati da Corbin e in quelli degli astronauti riletti da Sohravardi. La patria terrena, figura sempre di quella celeste. James: “…è così che riscopriamo la nostra casa. La nostra terra”; Silvia: “O la nostra psiche”; James: “L’anima”.
Franco Cardini