Domenica 8 ottobre 2023, Santa Pelagia
IN MEMORIA DI GIACINTO AURITI, GIURISTA CRISTIANO
STATO, CAPITALISMO E PROPRIETÀ
di Luigi Copertino
Il 10 ottobre del corrente anno cade il centenario della nascita di Giacinto Auriti, uno tra i più importanti giuristi del Novecento, nato a Guardiagrele, in Abruzzo, nel 1923 e morto a Roma l’11 agosto 2006. Allievo di Giuseppe Maria Bettiol, fu docente di diritto internazionale, diritto della navigazione e teoria generale del diritto presso le Università di Roma e di Teramo. Auriti si è dedicato, nella sua lunga carriera di studioso, al problema della natura giuridica della moneta. Infatti, è noto al grande pubblico per la “teoria della proprietà popolare della moneta”. La sua ricerca giuridica in materia monetaria, anche a causa di un certo suo modo “populista” di propagandarne i risultati, è, purtroppo, stata distorta dalla subcultura complottista che ne ha ridotto la portata al solo problema del “signoraggio”, ossia l’utile che la Banca Centrale ricava dall’emissione della moneta fiat pari alla differenza tra costo tipografico di produzione e valore nominale attribuito alla carta-moneta medesima.
Un falso problema dato che oggi, per norma di legge, detto utile è devoluto dalla Banca Centrale allo Stato. Questo riduzionismo, del quale i suoi studi sono diventati preda, ha oscurato i suoi meriti nell’evidenziare questioni filosofico-giuridiche in genere trascurate in ordine alla moneta, che per il nostro è una fattispecie innanzitutto giuridica e solo successivamente economica. Infatti gli studi auritiani in tema di moneta sono importanti per l’indagine sulla natura giuridica della moneta moderna ossia se essa è un bene oggetto di proprietà o ha invece natura creditizia e quindi bancaria. Auriti, con i suoi studi, ha inteso ricostruire un quadro giuridico teoretico per una moneta sana rispondente a criteri etici cristiani e romani. In tal modo ha dato un contributo importante alla decostruzione della “moneta debito” generata dall’impossessamento graduale da parte delle banche e della finanza transnazionale del potere di creazione monetaria in precedenza appartenente alla sfera del Sacro e del Politico[1].
Communio
Ma Auriti non è stato soltanto il giurista della moneta. Egli, sempre in una ottica romano-cristiana, è stato anche un attento studioso dei rapporti etici e politici sussistenti tra Stato, Società anonime, persona umana e proprietà. Un campo di ricerca che lui affrontò più in una ottica giuridica, del resto sua per vocazione, che sotto il profilo storico, bisognosa pertanto di opportune integrazioni ed adeguati aggiustamenti sotto tale profilo. Circa la questione dello Stato, del capitalismo e della proprietà è fondamentale, ancor oggi, un suo libro, scritto negli anni settanta, “La proprietà di popolo” (Thule 1977; Solfanelli 2013). L’autore di questo contributo lesse quel libro, un opuscolo per la verità, all’età di circa 16 anni, quando, ragazzo curioso ed affamato di sapere alternativo che la scuola non offriva, trovò in esso, sebbene con i limiti di comprensione di un adolescente, alcune risposte per liberarsi dalla soffocante cappa della cultura egemone, che all’epoca era una cultura forte nel suo colore rosso ma che oggi, ancora forte nella sua capacità di dominio mediatico, ha stemperato il proprio coloro in un fucsia arcobaleno. Scritto in anni di egemonia culturale marxista – e con l’intento di offrire una alternativa a tale egemonia – quel libro resta tuttora utilissimo per comprendere gli attuali scenari del capitalismo finanziario e delle sue strategie come delineate a Davos nel progetto ormai noto sotto nome di “Great Reset” o “Agenda 2030”.
Auriti, nel testo in questione, oppone la “communio” (comunione o comproprietà) di tradizione romanistica e medioevale al “comunismo” inteso quale “proprietà di Stato”. Ma, qui sta l’aspetto per il quale l’opera ha ancora un indubbio valore, la comunione comproprietaria è da Auriti, come vedremo, opposta anche alla Società anonima di capitali che è lo strumento giuridico compiuta del capitalismo finanziario transnazionale.
Marx ed il comunismo
Bisogna tuttavia fare alcune necessarie precisazioni circa il comunismo oggetto della critica auritiana. In Auriti comunismo equivale a proprietà di Stato, perché effettivamente il comunismo non ha mai superato, né avrebbe mai potuto superare, la statizzazione dei mezzi di produzione. Il comunismo si è storicamente risolto nello Stato proprietario, assoluto e monopolista, non nella comproprietà popolare ossia la communio romano-cristiana difesa dal giurista abruzzese. Nella percezione di Auriti, e che è generalmente quella diffusa, Marx sarebbe uno statalista la cui proposta di organizzazione sociale, alternativa a quella capitalistica, si risolverebbe nella collettivizzazione dei mezzi di produzione, sicché il comunismo realizzato dovrebbe coincidere con la statalizzazione delle proprietà. In realtà le cose non stanno esattamente così. Marx non era affatto statalista e, stando al suo pensiero, la statizzazione avrebbe dovuto costituire soltanto una fase di passaggio verso il comunismo compiuto perché nella società emancipata del futuro non sarebbe scomparsa solo la proprietà ma anche lo Stato che è, nel pensiero marxiano, la sovrastruttura giuridica posta a difesa della proprietà borghese. L’ideale sociale di Marx è piuttosto liberale, anzi libertario, e la parola chiave nel suo pensiero è “emancipazione”. Marx non ha per obiettivo la liberazione del lavoro ma la liberazione dell’uomo dal lavoro. Ne “L’ideologia tedesca”, testo scritto a quattro mani con Friedrich Engels, egli spiega che l’organizzazione sociale del futuro avrebbe prodotto una società autogestita il cui funzionamento sarebbe stato garantito dall’automatismo delle macchine sicché l’uomo, finalmente libero dal peso del lavoro-pena, avrebbe potuto dedicarsi allo spirito, per essere poeta la mattina, filosofo a mezzogiorno, artista alla sera. Qui Marx ha mutuato l’immagine biblica dell’Adamo edenico, innocente e felice perché non ancora soggetto alla pena del lavoro quale remunerazione della colpa, ma anziché porla alle origini, come nella Rivelazione, l’ha posta nel futuro. La condizione edenica per Marx non è da riconquista attraverso la Croce, il Sacrificio o la Redenzione ma è un compito dell’uomo nel suo sviluppo storico, una autocostruzione umana e non un dono di Dio, una realizzazione dell’umanità che, emancipandosi dalla consolatoria alienazione religiosa, assume nelle sue mani il proprio destino. L’umanità in Marx, non avendo più bisogno di un Dio trascendente, prende consapevolezza della sua natura auto-divina esprimendola nella potenza tecnico-scientifica dell’organizzazione sociale che lo libererà dai suoi limiti, dalla sua alienazione. “Homo Deus” come annuncia oggi Yuval Noah Harari, il braccio destro di Klaus Schwab gran maestro del World Economic Forum, del quale riparleremo[2].
Distributismo cristiano
Ma, precisato quanto sopra, torniamo alla distinzione auritiana tra “comunione” e “comunismo” intesa quale distinzione tra comproprietà e proprietà statale o capitalista. Senza dubbio la tesi auritiana dipende dalla tradizione giuridica romanistica ma anche – ed Auriti teneva a sottolinearlo con forza – dalla tradizione etica del Cristianesimo. Infatti la concezione di una proprietà reale diffusa, che è altra cosa, come vedremo, dall’accumulazione finanziaria ed espropriatrice del capitalismo, è presente sin dagli albori nella dottrina e nella prassi cristiana per giungere fino ai tempi più recenti nel pensiero politico di un cristiano conservatore quale Gilbert Keith Chesterton che d’altro canto si poggiava sul magistero di Leone XIII. Sia il pensatore cattolico inglese che Papa Pecci auspicano il “distributismo” ossia una distribuzione quanto più ampia possibile della proprietà, quale alternativa all’accumulazione capitalista o all’abolizione comunista della stessa. Il conflitto sociale, interno o internazionale, causa l’imperfezione ontologica post-adamitica dell’uomo, è sempre conflitto distributivo dei beni disponibili o delle ricchezze prodotte. In Atti degli Apostoli 4, 32-35, laddove si tende a vedere una sorta di “comunismo primitivo” che si presume fosse praticato dai primi cristiani, in realtà viene narrato di una comunità organizzata sulla base dell’etica distributista. La prassi distributista, come trapela dal passo citato, aveva trovato in quel contesto concreta realizzazione non in virtù di una decretazione umana ma perché i membri di quella comunità partecipavano, in Cristo, nella Sua Luce dall’Alto, alla dimensione mistico-spirituale – “erano un cuor solo” dice il passo in questione – ossia all’Amore del “Deus Caritas est” giovanneo. In quella dimensione mistica, l’unità nell’Amore eliminava la causa stessa del conflitto distributivo ossia l’autocentrismo negatore dell’Unico Centro Universale nel quale i singoli hanno la propria Origine e nel quale possono trovare il Superamento del sé egoico, che tuttavia non è annullamento della persona ma la sua cristificazione. Questa la causa, nel passo degli Atti sopra richiamato, del fatto che dall’essere “un cuore solo” scaturisse la conseguenza dell’essere tutto fra loro “comune”. Ma, quel “comune”, non può essere inteso al modo del comunismo ossia accentramento delle proprietà nell’Autorità, per abolire la proprietà stessa, ma va inteso, anche per via del contesto romano nel quale la vicenda storica si inseriva, nei termini auritiani della “comunione-comproprietà”. Sicché se nessuno era nel bisogno ciò era possibile in quanto i beni posti ai piedi degli Apostoli erano distribuiti “a ciascuno secondo il bisogno”.
Questo ideale etico, nonostante i gravi limiti posti dall’egoismo umano e dai condizionamento storici di ciascuna epoca, ha profondamente influenzato non solo la prassi sociale – si pensi alla miriade di opere pie comparse nel corso dei secoli successivi ma anche alle forme comunitarie di organizzazione sociale premoderna ispirate, pur all’interno di una gerarchizzazione sociale di casta, alla “comunione” dei beni (dagli usi civici ai diritti reali di godimento, dal possesso comune delle terre di villaggio ai demani agricoli e pastorali, dalle Arti e Gilde alle forme reali di società commerciale) – ma anche il pensiero, e non solo quello teologico. Ancora Karl Marx, nella “Critica al programma di Ghota” faceva sua questa eredità etica cristiana quando, nel criticare le tendenze lassalliane del partito socialdemocratico tedesco, oppose al riformismo socialdemocratico, che mirava a miglioramenti per i lavoratori all’interno del nascente Reich bismarchiano non rigettando da posizioni socialiste l’idea nazionale, una più efficace azione rivoluzionaria per la realizzazione della società comunista il cui funzionamento spontaneo, secondo la prospettiva marxiana, avrebbe consentito alla nuova umanità di organizzarsi in base al principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno”. Ma mentre Marx, nel suo sostanziale approccio a-sacrale (nonostante l’emulazione dell’etica cristiana) e a-politico (acefalia della società del futuro), descrive una società autogestita, anarchica, senza Autorità, né religiosa né politica, la prima comunità cristiana era invece retta dalla Autorità spirituale degli Apostoli sotto la cui direzione, dunque nient’affatto spontaneamente, si realizzava la distribuzione delle proprietà ai tutti i membri del corpo ecclesiale.
Senza alcun dubbio l’etica distributista cristiana è difficile ad attuarsi, a causa della persistenza degli effetti del peccato originale che si manifestano nella tendenza egoica ed autoreferenziale che in ciascuno di noi opera in opposizione alla Grazia dell’Amore Divino. Tuttavia il principio cristiano distributista ha comunque agito nella storia pur tra forti condizionamenti. Ne abbiamo già fatto cenno. Il passaggio dalla schiavitù antica – che, sia chiaro, non fu automatico e mai definitivo sussistendo forme schiavistiche anche nei secoli cristiani – al contadinato feudale fu, comunque si voglia valutare questa trasformazione nella sua concreta realtà, un anche effetto dell’etica cristiana perché, a differenza dello schiavo, il contadino medioevale, pur duramente sottoposto agli obblighi della gerarchia sociale feudale, era ad ogni modo un soggetto giuridico e godeva della titolarità di diritti, in particolare di quei diritti reali di godimento sulle terre nobiliari ed ecclesiastiche che garantivano a lui ed alla sua famiglia concreti ed inalienabili frutti del reddito terriero. I discendenti del contadino medioevale avrebbero strenuamente difeso quei diritti comunitari sia durante la grande prima trasformazione nell’Inghilterra elisabettiana del XVI secolo – quando ebbe inizio una estesa privatizzazione delle terre comuni con l’espropriazione, da parte della nascente borghesia “aristocratica”, dei fondi dell’antica nobiltà e del clero sui quali, però, gravavano gli usi civici dei contadini che ne venivano privati dai nuovi padroni – sia durante il periodo giacobino-napoleonico quando, un po’ in tutto il continente europeo, i popoli “insorgevano” contro i francesi invasori allorché la Rivoluzione esportata con le armi si rivelò strumento di concentrazione proprietaria da parte della borghesia contro i diritti comunitari dei ceti popolari, tanto antichi, quali gli usi civici, quanto moderni, quali quelli sorti per la politica antinobiliare dei sovrani settecenteschi. Auriti – contro la scuola liberale che riconosce solo il diritto formale di proprietà e contro la scuola socialista che riconosce solo l’espressione economica sostanziale dei beni – per spiegare il concetto di “valore indotto” inteso quale bene immateriale, incorporato nel simbolo monetario, oggetto di proprietà popolare, ha fatto riferimento all’esempio antico dell’uso civico che era, sotto il profilo formale, un diritto soggettivo ma, al tempo stesso, sotto un profilo sostanziale, aveva un contenuto reale e patrimoniale.
L’influsso dell’etica distributista cristiana, nonostante, ripetiamo, tutti i condizionamenti ed i limiti che essa ha trovato nella Cristianità antica, era d’altro canto evidente nel carattere diffuso, più che concentrato, delle proprietà nel medioevo. Non solo, come detto, il latifondo era gravato di diritti reali di godimento a favore dei contadini ma lo stesso sistema feudale, a ben vedere, era una forma di distribuzione del dominio terriero, secondo canoni di fedeltà vassallatica. Lo sforzo verso una pratica distributista è rintracciabile anche nella storia del monachesimo delle origini come in quella degli ordini mendicanti, il francescano ed il domenicano. Le “libertates” medioevali (l’età cristiana di mezzo ignorava la “libertà” astratta e normativista della modernità illuminista) ossia le libertà concrete di questa o quella singola comunità, gruppo, città, corporazione, villaggio, erano diritti sociali, spesso faticosamente conquistati e difesi, delle molteplici realtà comunitarie nelle quali la persona, che in esse nasceva o entrava a far parte e senza delle quali il singolo non era nulla, trovava partecipazione ai beni del gruppo di appartenenza. Una partecipazione, per la gerarchizzazione del tempo, non certamente equa ma tale da esprimere l’idea del corpo sociale quale organismo vivente – una idea antica, come vedremo, e con basi metafisiche – laddove il problema pratico rispetto all’ideale stava piuttosto nel fatto che, a differenza dell’organismo nel quale il sangue distribuisce il nutrimento in modo equo tra tutte le membra, nel corpo sociale degli uomini avidità ed egoismo, insanabili senza “apertura del Cielo”, impediscono la giusta ripartizione della ricchezza comune.
Un esempio vistoso di politica ispirata al distributismo cristiano è stata, nella Russia di inizio Novecento, la riforma agraria realizzata da Pëtr Arkad’evič Stolypin, ministro conservatore dello Zar Nicola II, mediante la quale la terra fu assegnata ai contadini, da un lato abrogando l’antica comunità di villaggio ma dall’altro distribuendo ad essi i latifondi incolti ed in precedenza concentrati in poche mani. Una Banca pubblica aiutava, con prestiti agevolati e quasi senza interessi, il contadinato nell’acquisto a basso prezzo delle terre. Ne nacque un ceto di contadini coltivatori diretti e fedeli allo zarismo, i kulaki, che, più tardi, furono sterminati da Stalin con l’accusa di opporsi alla collettivizzazione socialista delle terre, la quale però si sarebbe risolta in una enorme carestia provocando l’Holodomor ovvero il genocidio per fame di circa 11 milioni tra ucraini e russi. La politica di Stolypin non tralasciò neppure lo sviluppo dell’industria e delle grandi infrastrutture e vie di comunicazione (come la costruzione della Ferrovia Transiberiana), tentando – dettaglio molto importante – di mantenersi sempre smarcato dal credito internazionale e dai capitali finanziari anonimi[3].
Organicismo e “corpus mysticum”
Le considerazioni giuridiche di Auriti in tema di proprietà devono essere approcciate, per una visione completa della questione, mediante una prospettiva sì anche giuridica ma in chiave innanzitutto teologica e storica.
La proprietà non è un istituto attinente alla sfera privata ma a quella politica e sociale. È stato Carl Schmitt a ricordarci il legame esistente tra “Ortung” (localizzazione) e “Ordnung” (ordinamento) ossia tra la ripartizione della terra quale atto politico di fondazione della comunità e l’ordinamento giuridico che ne deriva. Alla radice del Politico, ossia della vita associata, c’è sempre la ripartizione della terra che, nell’antichità, assumeva rango sacrale come esplicitato nel mito di Romolo e Remo relativo alla fondazione di Roma. L’uomo è essere politico e vive in comunità politiche. Salvo che egli scelga una via religiosa di ascesi ma anche in tal caso è sempre possibile una vita monastica di comunità. L’uomo astratto, isolato, irrelato non è mai esistito ed è solo una congettura filosofica inventata di sana pianta dai contrattualisti, Hobbes, Locke, Rousseau, per ipotizzare uno stato di natura quale condizione di plenitudo potestatis dell’umanità successivamente alienata, mediante il contratto sociale, allo Stato, sicché quest’ultimo sarebbe soltanto una costruzione convenzionale e, quindi, non avrebbe origine dalla natura umana quale creata da Dio, secondo la tradizione romano-cristiana, ma dalla volontà umana emancipata dalla Trascendenza.
La concezione tradizionale della vita sociale è organicista. Secondo la tradizionale immagine macro-antropica, ripresa ancora nel XVI secolo, ma in distorti termini contrattualisti, da Thomas Hobbes, la comunità politica è persona morale e, quindi, giuridica. Platone pone una corrispondenza ontologica tra la Res Publica e l’anima umana. Come l’anima è tripartita in anima spirituale, animale e vegetativa, così lo Stato ha tre dimensioni, cui corrispondono tre diversi tipi umani, ossia quella sacrale, quella politica in senso proprio e quella economico-produttiva. Alla prima corrispondono i filosofi-sacerdoti, detentori della Sapienza atta a governare la Repubblica, alla seconda i guerrieri, detentori della forza atta a difendere la Repubblica dai nemici interni ed esterni, la terza agli artigiani e contadini, detentori delle capacità produttive atte ad alimentare economicamente la Repubblica. La Repubblica romana, a sua volta, si concepiva come un organismo fondato sul patto tra quiriti e plebe (S.P.Q.R. ossia Senatus PopulusQue Romanus). Benché non ancora sviluppata in forma più compiuta come poi lo sarà nel medioevo, queste concezioni dell’antichità già presupponevano, più o meno implicitamente, l’idea della Persona Morale-Giuridica. Nell’antichità pagana la comunità politica era simbolizzata nell’immagine del Macro Anthropos alla quale, d’altro canto, a ben vedere, in ambito ebraico corrispondeva, e non senza valenze cosmiche, quella dell’Adam Kadmon. Tuttavia fu nel medioevo che questa idea trovò massima esplicitazione. La Chiesa, sin dagli inizi, si concepì come comunità dei Christi fidelis e pertanto come “Corpus Mysticum Christi”. Alla base di questa autocoscienza ecclesiale vi era, e vi è, una profonda consapevolezza del mistero eucaristico che condusse gradualmente a comprendere in pienezza la verità dell’Eucarestia quale Presenza Reale del Sacro Cuore di Cristo. Il Cuore tradizionalmente è il Centro della Persona nel quale è raccolta la sua essenza più autentica e vera. Il fedele, nella sua integrale costituzione spirituale e psico-corporea, mediante il Sacramento ossia la transustanziazione, viene a trovarsi in comunione con il Cuore di Cristo – una vera e propria mistica unione dei cuori – inteso non solo come Cuore Divino ma anche come Cuore Umano tanto psichico che fisico, fino ad essere incorporato nella Persona di Cristo e diventare, senza annullamento della propria identità personale, membro del Corpo del Signore. Nel contesto della teologia della politica medioevale, come ha magnificamente spiegato Ernst Kantorowicz nella fondamentale opera “I due corpi del re”[4], la comunità politica, mutuandone autocomprensione ed iconografia da quello ecclesiale, veniva concepita come “Corpus Mysticum Politicum”. L’inno, proclamato alla morte del re, “Il re è morto! Viva il Re”, stava a significare la continuità del corpo politico alla morte fisica, corporale, del sovrano.
Dal corpo mistico alla fictio iuris. Il fantasma giuridico di Auriti
In ordine allo Stato, che è la forma moderna della comunità politica, Auriti usava la definizione di “fantasma giuridico” intendendo dire, con tale espressione, che la Persona Giuridica sarebbe soltanto una “fictio iuris”, una astrazione senza la concretezza umana propria della persona fisica. Ma “fantasma giuridico” per Auriti – qui coglieva molto più nel segno – è anche la moderna società anonima ovvero la società di capitali. Sulla base di questo approccio giungeva, come vedremo, ad alcune conclusioni in ordine alla proprietà. Auriti, tuttavia, sotto il profilo storico e filosofico non aveva una approfondita conoscenza delle concezioni politiche tradizionali ed imputava – il che per un verso è vero – la comparsa della Persona Giuridica, intesa come “fictio iuris”, all’affermarsi della filosofia idealista la quale confonde nell’immanenza il soggetto e l’oggetto e considera la realtà, quindi anche la realtà politica e sociale, una esteriorizzazione dell’io. Invece, come abbiamo detto, il corpo mistico politico, modellato sul Corpo Mistico di Cristo, in età premoderna, non è mai stato concepito come una astrazione, una “fictio iuris”, ma come una realtà comunitaria che aveva fondamenti sacrali e – questo è un punto fondamentale – contenuto personale. Il Corpo Mistico ecclesiale ha il suo Centro nel Cuore di Cristo e si indentifica con il Corpo del Signore: questo costituisce l’elemento personale, assolutamente concreto, proprio della Chiesa. Il corpo mistico politico, in passato, aveva il suo centro nella persona concreta del re o nell’assemblea nobiliare o popolare delle repubbliche premoderne. La stessa concezione patrimoniale del regno, o della res publica, era il segno della concreta personalizzazione della comunità politica antica. Nel mondo tradizionale si trattava – qui sta la questione dirimente – di realtà oggettive, non di astrazioni giuridiche, che desumevano la loro normatività dalla tripartizione funzionale tradizionale, sicché il “corpo mistico”, come si dirà a breve, aveva legittimità soltanto nella sfera del Sacro e del Politico e non anche in quella dell’economico. Nella Chiesa, ieri come oggi, è il Papa, vicario di Cristo, a creare diocesi ed abbazie conferendo ad esse il carattere di ente morale all’interno del più vasto Corpo Mistico e del suo ordinamento giuridico. Analogamente, un tempo, era il re a creare contee e ducati o a riconoscere città conferendo a tali aggregati umani carattere di ente morale all’interno del più vasto Corpo Politico e del suo ordinamento giuridico. Anche le città e le corporazioni – queste ultime non erano società commerciali ma patti giurati di produttori per il governo politico dell’arte e la partecipazione al governo politico del comune – avevano carattere di “corpo politico” desumendolo da un atto di riconoscimento, non – si badi – di concessione, o da un atto originario di fondazione all’interno del più vasto complesso ordinamentale sovraordinato che ne assicurava la legittimità. In altri termini, l’elemento personale, quello di Cristo e quello del papa e del re (a loro volta pontefice e sovrano per ed in Cristo) o del popolo, reggeva l’architrave dell’intera organicità del corpo ecclesiale o politico.
Auriti, criticando l’ente morale alla stregua di una finzione giuridica, ha presente piuttosto le degenerazioni moderne del “corpo mistico”. Egli notava che tra lo Stato comunista, proprietario monopolista, e la società anonima di capitali, fondamento del capitalismo moderno a carattere finanziario, sussiste lo stesso schema giuridico per il quale la proprietà dei mezzi di produzione non appartiene al popolo o ai soci ma alla Persona Giuridica. Tanto la proprietà di Stato quanto la proprietà della Società Anonima non si risolvono in una “communio”, o “comunione”, ovvero in una “comproprietà”. Auriti – mancando però di sottolineare che trattasi dello Stato macchina moderno uscito dalle trasformazioni teologiche e storiche che hanno decretato la fine della Cristianità medioevale e la comparsa, tra XV e XVI secolo, degli Stati e delle Chiese nazionali – osserva che la proprietà di Stato non appartiene ai cittadini ma allo Stato personificazione anonima ed astratta della comunità politica sottostante. Analogicamente, egli osserva che nella società anonima di capitali la proprietà non appartiene ai soci, i quali conferendo la propria quota di capitale la trasferiscono alla persona giuridica societaria, ma alla società personificata in persona giuridica diversa e distinta dalle persone concrete dei soci. Sia nello Stato comunista che nella società anonima capitalista il potere effettivo, nel quale si concretizza il diritto di proprietà, appartiene rispettivamente alla nomenklatura del partito unico e alla nomenklatura del management, amministrativo e tecnico, aziendale.
La società di persone medioevale e la comparsa della società anonima moderna
Se nello Stato comunista la proprietà dei mezzi di produzione è conferita per decisione politica e normativa allo Stato, nella società anonima di capitali l’espropriazione dei soci avviene attraverso il titolo azionario che non è affatto un titolo di proprietà ma un titolo di credito, il quale dà diritto soltanto alla suddivisione dell’utile finale mentre la proprietà è attribuita alla persona giuridica fondata all’atto della costituzione e legittimata dall’ordinamento. Se nel caso dello Stato proprietario l’aberrazione è di per sé evidente – va tuttavia segnalato che anche nell’età moderna lo Stato, sulla stessa base dei principi tradizionali sopra esposti e sui quali ritorneremo a breve, deve essere considerato legittimo proprietario in settori che, pur avendo una chiara dimensione economica, sono di vitale importanza per la nazione (energia, materie prime, infrastrutture, moneta, etc.) o tali da uscire dalla sfera privata per assumere carattere comunitario (scuola, sanità, previdenza, grandi imprese di interesse nazionale, etc.) – nel caso invece della società anonima capitalista è necessario ricostruire la dinamica storica che ha presieduto alla sua comparsa.
Abbiamo visto come, nel mondo tradizionale, il “Corpus Mysticum” fosse realtà legittima esclusivamente nella sfera del Sacro e in quella del Politico. Non esisteva né era concepibile l’esistenza del “Corpus Mysticum” nella sfera economica[5]. In età premoderna, nell’ambito dell’economia domestica, produttiva o di scambio sussistevano soltanto “società di persone” ovvero associazioni, prevalentemente a carattere familiare o amicale, caratterizzate, giuridicamente, dall’esercizio comunionale, in comproprietà, della proprietà societaria o familiare. Tutta l’organizzazione economica, anche nel caso delle grandi imprese del tempo – si pensi alle prime banche a carattere dinastico –, conosceva esclusivamente la realtà di società costituite tra soci che, conferendo la propria quota di mezzi alla società, ne restavano proprietari, per quote indivise, ossia comproprietari, fino allo scioglimento della società stessa. In età medioevale le società, salvo quelle a carattere familiare, venivano costituite a mezzo di contratti per un solo o pochi affari e quindi si scioglievano automaticamente, per originaria volontà contrattuale dei soci, al raggiungimento dell’obiettivo prefissato e dopo la spartizione degli utili ricavati. Sicché per nuovi affari, anche dello stesso tipo, si doveva costituire una nuova società. Naturalmente, restando comproprietari dei beni sociali, ogni socio rispondeva illimitatamente, ossia con l’intero suo patrimonio e non solo con il conferimento sociale, delle sorti della società. In caso, di non positiva conclusione dell’affare o di fallimento la responsabilità illimitata esponeva i soci a risarcire i creditori con l’intero complesso dei propri beni. Questa modalità di responsabilità sociale era prevista a garanzia dei creditori, che non avrebbero finanziato o concluso scambi con società che rispondevano in modo limitato, ma era innanzitutto connaturata all’idea stessa di una società come comunità di persone concrete e non, dunque, quale ente distinto da esse. In tale quadro giuridico, come è ovvio, le società avevano durata limitata nel tempo in modo da tutelare i soci dal rischio imprenditoriale.
Le prime società anonime compaiono nel XVII secolo, in Inghilterra ed in Olanda. Sono note come “Compagnie delle Indie”, volte ad organizzare lo sfruttamento coloniale delle terre del Nuovo Mondo appena scoperte. Nel novero di queste prime società anonime bisogna ricordare quel particolare tipo costituito dalle “Banche Nazionali” – le antesignane delle successive Banche Centrali – che nascono da operazioni speculative di affaristi intese ad assicurare una rendita finanziaria costante ai soci lucrando sul debito pubblico mediante la concessione alla Banca da parte del Sovrano del diritto di emettere moneta in forma di cambiale, sulla presunzione di una integrale riserva aurea a copertura che in realtà non sussisteva essendo quella copertura, ad insaputa del pubblico, solo parziale. Con questa moneta fiat, cartacea, creditizia, garantita, però, dallo Stato presso il pubblico, così indotto ad accettarla, la Banca Nazionale faceva credito al Sovrano ed al popolo, indebitando l’uno e l’altro. In questa fase storica, però, come dimostra proprio il caso delle Banche Nazionali, le società anonime erano tuttavia soggette ad autorizzazione o concessione governativa. Questo perché agiva ancora la consapevolezza che il “Corpus Mysticum” può sussistere soltanto nella sfera sacrale o politica, sicché, affinché potessero sussistere nella sfera economica società giuridicamente personificate, era indispensabile un atto politico di fondazione o almeno di autorizzazione, con concessione dell’esercizio delegato di poteri sovrani, alla società medesima, benché costituita con capitali privati.
Quando sopraggiunge la liberalizzazione delle società anonime? All’incirca, ed in modo graduale e sparso, a metà del XIX secolo. Le società anonime sono dunque una invenzione recente e questo attesta che l’economia potrebbe funzionare, e probabilmente in modo molto più sano ed equo, anche senza di esse. In effetti, a ben vedere, esse costituiscono una superfetazione finanziaria che vive di rendita alle spalle dell’economia reale e produttiva, ossia sulle spalle dei produttori ovvero degli imprenditori reali e dei lavoratori. Una volta liberalizzata la società anonime è diventata la forma prevalente di organizzazione economica. Di conseguenza le società anonima hanno assunto un carattere di gigantismo sempre crescente, proprio in quanto esse hanno permesso una inaudita concentrazione finanziaria di capitali, che è il vero obiettivo per cui sono nate, fino a snazionalizzarsi perdendo ogni concreto riferimento reale ed ogni radicamento territoriale – la loro stessa natura è sin dall’origine tendente allo sradicamento ed all’astrazione – per diventare globali. Sono quelle che oggi conosciamo come multinazionali.
Ma quali sono stati i fattori che hanno mosso questa dinamica storica? Nei secoli della “grande trasformazione”, studiati da Karl Polany, ovvero il periodo tra XV e XVII secolo, l’accumulazione di grandi liquidità finanziarie aveva finito per porre il problema di facilitare l’investimento di tale ingente capitale, ma senza correre eccessivi rischi, in imprese che a loro volta, per lo sviluppo delle tecniche monetarie e finanziarie e della tecnologia, necessitavano sempre più di una alta densità di capitali finanziari. Sull’onda della tragedia delle guerre di religione, che segnarono la fine della Cristianità universale medioevale, e dell’affermarsi degli Stati nazionali una nuova classe sociale, la borghesia moderna, era comparsa. Alla guida delle monarchie assolute vi erano dinastie rampanti che favorirono l’affermarsi di questa nuova classe. Una classe borghese diversa dalla borghesia medioevale che era ancora costituita per lo più da produttori, da artigiani. La nuova borghesia moderna era piuttosto l’erede della dantesca “gente nova e di subiti guadagni” ossia dei mercanti e banchieri, figure nel medioevo non ben distinte tra esse e spesso confuse nello stesso agente economico. Si trattava, dunque, di una nuova borghesia sempre più emancipata dai freni etici imposti dalla Chiesa cattolica, ad esempio, in materia di legittimità del prestito ad interesse, con i distinguo canonistici tra interesse legittimo ed usura. Questa classe sociale emergente aveva una assoluta necessità di far fruttare la sua liquidità ma al tempo stesso non voleva affatto esporsi al rischio di tracolli, fallimenti e perdite rovinose. La struttura societaria tradizionale, quella caratterizzata dalla comproprietà tra i membri della società di persone, non poteva garantire che gli investimenti non fossero esposti al rischio di una perdita totale giacché, come abbiamo visto, la società di persone era soggetta alla responsabilità illimitata ed i soci rispondevano con l’intero patrimonio personale, non solo con il conferimento sociale.
Per risolvere il problema si pensò alla trasposizione del “Corpus Mysticum” dalla sfera sacrale e politica a quella economica. In tal modo si avviò un processo teologico e storico di immanentizzazione del “Corpus Mysticum”, di passaggio dal piano del Sacro-Politico al piano dell’economico, dalla Trascendenza all’immanenza. Con quale vantaggio? Trasponendo nell’economia il “Corpus Mysticum” si trasferiva alle forme di organizzazione societaria anche il carattere limitato della responsabilità che lo caratterizzava. Il Papa e quindi la Chiesa, il Re e quindi il Regno, la Res Publica e quindi il Popolo, in età premoderna, non erano soggetti a responsabilità per i loro atti, se non in forme giuridicamente e patrimonialmente limitate. Se le società economiche avessero potuto godere della stessa responsabilità limitata il freno del rischio illimitato, che inibiva gli investimenti dei grandi capitali finanziari, sarebbe stato superato. Ed in effetti, attraverso la graduale liberalizzazione della società anonima di capitali, si ottenne l’obiettivo perseguito dalla nuova borghesia finanziaria, quello della responsabilità limitata, nel caso di fallimento, ai soli investimenti in ciascuna società. L’azionista della società anonima, infatti, non risponde dei crediti societari con l’intero suo patrimonio, come accade al socio di una società di persone, ma limitatamente alla quota di capitale conferito alla persona giuridica della società, perché, come detto, è quest’ultima che, all’atto della costituzione e della vendita delle azioni, diventa l’unica proprietaria dei mezzi e dei beni sociali.
Un nuovo capitalismo
Ora, con la società anonima, nasceva però un nuovo capitalismo connotato, per l’appunto, da palese irresponsabilità e, per tale motivo, sempre più distante dalla produzione reale, dall’economia reale, disinteressato alle sorti a medio-lungo termine dell’impresa perché vocato soltanto all’accrescimento della liquidità finanziaria, quasi senza più alcuna connessione con il lavoro e la produzione sottostante se non nella misura minima a valorizzare i titoli azionari da giocare in borsa. Perché è questo in effetti il vero obiettivo dell’azionariato: la capitalizzazione borsistica delle azioni. Se, nella fase inziale, le azioni erano nominative, ossia legate ad una persona concreta, e prevalevano nel novero degli azionisti i cosiddetti “cassettisti” il cui scopo era ancora quello di guadagnare dal dividendo sociale degli utili, con il passare del tempo e l’emerge della vera natura parassitaria e rentier della società di capitali, le azioni sono diventate titoli al portatore, quindi più facilmente trasferibili, e gli azionisti si sono trasformati in “speculatori” interessati non più al dividendo sociale ma esclusivamente al valore borsistico delle azioni. Questo valore non è determinato in via prevalente ed esclusiva dalla produzione sottostante ma dal gioco speculativo in Borsa ossia dalla possibilità di lucrare profitti speculando sulla dinamica ribassista o rialzista dei titoli scambiati, la cui logica non ha nulla a che fare con una mitica ed inesistente “razionalità economica” ma con i rumors e l’emotività degli operatori. Una dinamica che offre ampi spazi di manovra ai più abili tra gli speculatori. L’economia finanziaria, infatti, non è mossa dalla logica dell’economia reale, per la quale si produce merce onde ricavare denaro con il quale acquistare altra merce (Merce-Denaro-Merce), ma dalla logica speculativa, per la quale si accumula denaro mediante la compravendita di merce allo scopo di ottenere più denaro (Denaro-Merce-Denaro). Una logica parassitaria di mero profitto, senza produzione e senza rischio, che indusse un grande economista quale Federico Caffè a chiedere l’abrogazione della borsa valori[6].
Giulio Tremonti ha notato che il nuovo capitalismo finanziario si connota per il fatto che, nel bilancio aziendale, il conto patrimoniale, che permette la lettura della storia e della mission dell’impresa e che è il mondo dei valori concreti connessi alla produzione reale, ha ceduto il primato al conto economico, che registra soltanto i flussi finanziari ossia la mera contabilità espressa in termini monetari[7]. Il nuovo capitalismo, dice Tremonti, richiede fixing annuali, semestrali, trimestrali, quotidiani, sempre più veloci ed immediati per soddisfare la fame di accumulazione finanziaria degli azionisti che, così, possono gonfiare il valore borsistico delle loro azioni.
Se questa è la natura del nuovo capitalismo, era inevitabile che esso sfuggisse al controllo degli Stati, e quindi della politica, ed anzi era inevitabile che fosse destinato a subordinare gli Stati alle sue esigenze speculative. Lo spazio territoriale delimitato, le frontiere, le differenze identitarie e culturali sul piano orizzontale immanente, che è quello nel quale la finanzia apolide agisce, sono ostacoli al continuum del flusso capitalistico, perché il capitalismo finanziario, prima di essere antisociale, è innanzitutto antinazionale ed anti-identitario. Esso è strutturalmente ed essenzialmente cosmopolita ed ha il suo migliore alleato nella cultura globalista, pacifista arcobaleno, no border, senza frontiere, umanitaria, universalista sul piano immanente. Per la Tradizione Spirituale l’universalismo immanente, ossia il cosmopolitismo uniformatore ed omologatore, è la illegittima, fraudolenta ed ingannevole, trasposizione mondana dell’Universalità trascendente. Come messo in rilievo da Carl Schmitt, tentare di raggiungere l’unità del mondo sul piano immanente è operazione blasfema, “anticristica”, giacché l’Unità è possibile solo nello Spirito ‘ché Esso solo è universale[8].
Il vecchio capitalismo patrimoniale e produttivo era in qualche modo “socializzabile”. Poteva essere controllato e reso compatibile con le più alte finalità sociali e nazionali della comunità politica organizzata, nella modernità, a Stato. Esso era più legato al territorio e quindi più disciplinabile dagli Stati. Il nuovo capitalismo finanziario è del tutto irresponsabile e non conosce, anzi respinge, limitazioni di sorta, sia sociali che nazionali. Il nuovo capitalismo è il mondo costruito su misura delle élite della finanza globale: circa duemila o tremila individui che detengono tutto il potere mondiale conferito dall’“imperialismo internazionale del denaro” (Pio XI, Quadragesimo Anno, 1931).
Agenda 2030
Il santuario dell’élite finanziaria mondiale è oggi il Word Economic Forum che si riunisce annualmente nella cittadina svizzera di Davos. Il “Gran Maestro” di questa consorteria di tecnocrati, finanzieri, banchieri, capitalisti multinazionali, è Klaus Schwab, allievo di Henry Kissinger, patrocinatore della cosiddetta “Agenda 2030” ossia una sorta di programma globale per la riorganizzazione dell’economia planetaria secondo le prospettive della “quarta rivoluzione industriale”. Questo è il titolo di un articolo pubblicato da Schwab nel 2015 sulla rivista “Foreign Affaire” dell’omonimo Council, l’organismo privato che detta le linee guida della politica estera statunitense, articolo poi trasformato in un libro dal medesimo titolo[9]. Lo scenario distopico, che presiede a tali pianificazioni del futuro dell’umanità, è caratterizzato in modo particolare dalla auspicata svolta “transumana” che la cyborgizzazione, la robotizzazione, la tecnologia immateriale e virtuale rendono oggi possibile. Lo scena tuttavia – sotto l’apparente illusione dei grandi benefici che le nuove tecnologie apporteranno – è quella di una società mondiale divisa tra l’élite di vertice, padrona e controllora di tutte le leve del potere politico, finanziario ed economico mondiale, ed una umanità di base informe nella sua apolidia apatride e cosmopolita, maltusianamente depopolata, sussidiata da forme di reddito universale non collegato al lavoro e ridotta, in tal modo, a consumatrice dei beni prodotti dal complesso produttivo automatizzato per i profitti del vertice finanziario globale. Auriti, molto tempo addietro, aveva intuito questo scenario laddove, con riferimento al mondo dominato dai fantasmi giuridici delle banche, usava la ruspante espressione “pollame allevato in batteria” per indicare la condizione dei popoli nel regime dell’esproprio universale attuato dallo Stato comunista e dal capitalismo delle società anonime.
In “Agenda 2030” e ne “La quarta rivoluzione industriale”, dietro le belle parole d’ordine – la pace verde, la prosperità universale, la crescita sostenibile, l’inclusività, la lotta al cambiamento climatico (fatto dipendere dall’uomo laddove invece esso è un evento normale e ciclicamente riscontrabile nella storia naturale del nostro pianeta), l’emancipazione e la liberazione dell’uomo dai suoi limiti e la sua autodeterminazione –, viene perorato un processo globale di accentramento capitalistico-finanziario. Le principali multinazionali e banche d’affari globali come scatole cinesi sono tutte riconducibili a due grandi fondi di investimento, “Black Rock” e “Vanguard”. Questa dinamica di accentramento è già in atto da tempo, ossia da quando la globalizzazione ha travolto gli argini all’irrompere violento e rivoluzionario delle forze del capitalismo finanziario. Argini che erano stati posti dagli Stati nazionali, i quali, controllando quelle forze non ancora libere da legami territoriali e sociali, erano riusciti a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei propri popoli e dei lavoratori costringendo il capitalismo a venire a patti con le esigenze di socialità imprescindibili per lo Stato nazionale, pena il suo deflagrare. L’illusione del marxismo è stata quella della rivoluzione mondiale del proletariato. Marx non comprese che la globalizzazione è l’obiettivo del capitalismo finanziario per sua natura apolide e senza patria laddove invece le classi lavoratrici una patria l’hanno e coinvolte, come naturale, umano e giusto che sia, nella propria particolare cultura ed identità popolare non conoscono né aspirano ad alcuna unità mondiale di classe.
Uno stretto collaboratore di Klaus Schwab, l’israeliano Yuval Noah Harari si presenta oggi al grande pubblico come il “profeta” dell’auto-divinizzazione dell’uomo. Nei suoi libri[10] egli esalta – in uno scenario naturale descritto come privo di bellezza e pregno solo di violenza, sopraffazione e lotta per la sopravvivenza – l’interazione uomo macchina come l’esito evoluzionistico della volontà di potenza del sapiens che finalmente lo sta facendo approdare all’auto-deificazione nel superamento, reso possibile dalla biotecnologia, della sua “animalità” (il pensiero darwiniano e distopico non conosce la “creaturalità” e il dono provvidenziale dell’essere, tantomeno dell’essere intelligente), fino alla conquista dell’immortalità artificiale quando la coscienza, che manco a dire per Harari si identifica con la chimica neuronale del cervello, sarà tutt’uno con la rete informatica globale e sarà in tal modo dotata di onniveggenza, onnisapienza, onnicomprensione. L’antico Tentatore edenico non avrebbe potuto offrire di meglio per convincere i Progenitori che, rifiutando i limiti morali prescritti dal Creatore, sarebbero diventati come Dio (“eritis sicut Dei”, Genesi 3,5).
Ha fatto scalpore, tanto da essere presto ritirato ma è ancora rintracciabile nell’archivio informatico, un lungo articolo pubblicato sul sito del Word Economic Forum un paio di anni fa intitolato “Non avrai nulla e sarai felice”. L’autrice rispondeva al nome di Ida Auken, già ministro dell’ambiente della Danimarca, ecologista di sinistra e “pastora” protestante nonché riferimento ideologico di Beppe Grillo e dei 5stelle[11]. In quell’articolo la Auken, per motivazioni di risparmio energetico e di sostenibilità ecologica, prospetta una organizzazione sociale nella quale nessuno godrà di proprietà privata, non solo dei mezzi di produzione ma neanche dei beni di consumo o di uso vitale. La proprietà privata, nello scenario della Auken, sarà sostituita da un sistema di possesso precario dei beni organizzato come una rete globale di contratti di noleggio, affitto, leasing, comodato d’uso, locazione. Ciascuno di noi godrà dei beni temporaneamente per il periodo di necessità e poi quei beni passeranno in godimento a qualcun altro. Perché mai possedere una casa, un’auto, una lavatrice, una televisione se si può goderne in locazione per un certo periodo e poi passare a godere, sempre in noleggio, altri beni simili o diversi? Questo agevolerebbe la mobilità sociale e territoriale, la liquidità relazionale ossia lo sradicamento dai legami comunitari necessaria alla società globale postmoderna, l’emancipazione dell’individuo, l’abolizione delle identità ed appartenenze e, con il riuso collettivo dei beni, la decrescita necessaria all’inclusività ambientale. Condizione indispensabile per il funzionamento di questa società “comunista” è che i cittadini siano provvisti di reddito di cittadinanza universale perché, a dispetto della prospettata “gratuità” dei beni della produzione sociale, la realtà alla fine impone la cruda verità e la gratuita promessa finisce per svelarsi nient’affatto tale. Dato che non può esistere nessun bene senza un proprietario, sul lato opposto dei contratti di locazione o noleggio o leasing, che dovrebbero garantire l’universale godimento collettivo dei prodotti, un proprietario c’è ed è la multinazionale che quei beni produce e che resterebbe titolare della loro proprietà concessa, non certo gratuitamente, in uso precario e temporaneo. Ed ecco che il sogno di un paradiso mondano di emancipazione e liberazione dell’uomo si rovescia nell’inferno della dipendenza universale dal potere del capitalismo multinazionale: torniamo al pollame allevato in batteria di cui parlava Auriti.
Il comunismo delle multinazionali e la grande madre
Mediante la distopia della Auken, il Word Economic Forum si è fatto annunciatore del “comunismo delle multinazionali”: l’umanità vivrà per concessione ricevuta, godendo in modo precario dei beni prodotti e di proprietà del capitale finanziario mondiale. Una sorta di nuovo feudalesimo, una nuova società castale, ma senza alcuna implicazione sacrale. Già in atto, a ben vedere. Tutti abbiamo notato, a seguito dei lockdown pandemici, l’espandersi di mezzi di trasporto urbano, in particolare monopattini ma nelle grandi città anche auto elettriche, che vengono usati temporaneamente, dietro pagamento, per muoversi da un punto all’altro del circuito cittadino e poi sono abbandonati dove capita a disposizione di altri eventuali utenti. Detti mezzi sono controllati da un’unica centrale digitale che risponde alla azienda costruttrice e distributrice, che in tal modo si è assicurata una rendita perpetua. Ecco un esempio di comunismo capitalistico. Giorgio Agamben ha parlato in proposito di “capitalismo in variante comunista” e di “unione del peggio del capitalismo con il peggio del comunismo” sotto un controllo sociale senza precedenti.
Molto significativo è il fatto che le giustificazioni addotte dalla Auken siano di tipo ecologico. La decrescita felice non è la rinuncia ai beni, o la moderazione nel loro buon uso, prescritta per chi voglia praticare una via di ascesi spirituale o per una convivenza rispettosa del limite nel rispetto della creaturalità del mondo e nella volontà di conquistare il Cielo, la salvezza, contenendo allo stretto necessario l’uso dei beni mondani. Nulla di tutto questo. La prospettiva della Auken è eco-panteista e se c’è una “divinità” alla quale offrire la rinuncia ai beni essa è “Gaia”, attuale riedizione della “Grande Madre” delle antiche religioni matriarcali. Il cui revival si sposa perfettamente con il femminismo transumanista, sotteso alla proposta della Auken. Le religioni matriarcali sono ritenute primordiali da talune correnti dell’antropologia contemporanea. La Tradizione Perenne e Sapienziale, invece, non contempla alcuna spiritualità matriarcale originaria se non come forma degenerata della Sapienza Primordiale. La nuova dea Gaia – i suoi adepti lo nascondono – chiede tuttavia “sacrifici umani”. Essi oggi si chiamano denatalità e depopolamento. Da quando Malthus ha posto il problema del rapporto tra la popolazione e le scarse risorse disponibili – presupponendo una Natura Matrigna, l’altro volto poco piacevole della “Grande Madre”, anziché l’abbondanza provvidenziale della creazione e della laboriosità umana (altro discorso è la cattiva distribuzione di tale abbondanza) – i maltusiani invocano il controllo delle nascite e la riduzione della popolazione, facendo eco all’antico odio gnostico verso il creato, la materia, l’uomo. Un epigono di Malthus è Roberto Cingolani, tecnocrate di alto bordo con esperienza ministeriale nel governo Conte, per il quale “il pianeta è progettato per massimo tre miliardi di uomini”[12]. Se ne deduce che gli altri quattro miliardi sono di troppo, sono parassiti dell’ecosistema mondiale, e costituiscono un pericolo per i primi tre. Tuttavia, Cingolani non specifica a quale parte dell’umanità corrispondono i primi tre miliardi ed a quale altra parte i restanti quattro. Tutto però ci fa pensare, stando al sotteso evidente del suo argomentare, che questi ultimi siano composti dai popoli poveri, dal terzo mondo, che siccome non è possibile sfamare, neanche con i progressi della tecnica, è bene siano gradualmente eliminati, attraverso campagne per il controllo demografico, la contraccezione, l’aborto. Al contempo tali politiche devono essere praticate anche tra i primi tre miliardi, ossia il mondo occidentale, in modo da rispettare l’equilibrio richiesto dal pianeta o – a pensar male si fa peccato ma ci si coglie – dalle esigenze di controllo imposte dal dominio dell’élite finanziaria.
Capitalismo della sorveglianza
Il petrolio della società digitale sono senza dubbio i dati personali di ciascuno di noi. Nonostante tutte le normative intese a preservare la nostra privacy – una intenzione che nasconde la stessa filosofia individualista che muove il mondo nuovo liquido che avanza – l’espropriazione, a fini di uso commerciale e finanziario, dei dati personali è la base di quel che Shoshana Zuboff ha chiamato, nella sua omonima opera, il “capitalismo della sorveglianza”[13]. Il passaggio dal reale al virtuale, dal concreto al metaverso, ha reso possibile implementare un sistema globale di sorveglianza che consente alle multinazionali di controllare e gestire i dati personali di tutti onde orientare le nostre scelte commerciali. Volendo si potrebbe anche orientare le nostre scelte di vita, quelle politiche, le convinzioni di massa fino a creare una nuova intolleranza verso chi le mette in discussione (ne abbiamo ampiamente avuto un saggio nella vicenda dei presunti vaccini a rna imposti in Occidente pena la proscrizione civile e la perdita del lavoro). Chiunque può fare l’esperienza, entrando in un qualunque sito internet, della richiesta di accettazione, spesso obbligatoria, di cookies. Attraverso essi la rete viene a conoscere ed a disporre delle nostre preferenze sì da indirizzarci verso i prodotti atti a soddisfarle. Una totale mercificazioni dell’uomo. La Zuboff, con il suo libro, ha voluto lanciare un doloroso grido di allarme sulla potenza di un tale sistema di controllo capace di piegare anche le democrazie liberali alla volontà globale dei padroni del denaro.
Questo dovrebbe far riflettere gli ultimi, ed illusi, cantori delle magnifiche virtù del liberalismo occidentale. In realtà, la potenza del capitale finanziario vanifica lo Stato di diritto ed ogni garanzia di libertà pur contemplata dalle carte costituzionali e dalle solenni quanto retoriche e vuote, dichiarazioni universali di diritti. Non è vero che tale pericolo si registra soltanto negli Stati totalitari come la Cina “comunista” (in realtà a capitalismo eterodiretto) – ammesso che essa sia uno Stato totalitario e non invece l’espressione attuale di una organizzazione sociale secondo antichi principi confuciani – dove vige il noto “sistema di credito sociale”, una sorta di patente a punti il cui valore, in punteggio complessivo, decresce se il cittadino non si mostra ligio e solerte alla politica del vertice governativo, fino alla possibilità di azzerarsi che equivale alla chiusura di tutti gli account personali e quindi all’impossibilità di accedere al proprio denaro virtuale ed in sostanza all’impossibilità di sopravvivere. Questo sistema infatti non vige solo nella Cina “totalitaria” ma anche nell’Occidente “liberale”. Le banche occidentali, anche senza che ciò sia prescritto da una qualche norma, usano ormai “debancarizzare” ovvero chiudere il conto corrente, espropriandone il denaro depositato, di coloro che sono sospetti di violare i principi del politicamente corretto e sono quindi sospetti o rei di anti-vaccinismo, anti-ecologismo, fascismo e razzismo, antiglobalismo, antieuropeismo, russofilia et similia. Ne ha fatto, di recente, esperienza il politico inglese Nicholas Farage, organizzatore del movimento popolare per la Brexit, che si è visto chiudere il conto presso una nota banca con la motivazione che le sue idee non rispettano la mission e l’etica aziendale. Farage è ricco di suo ma è facile immaginare cosa accadrebbe ad un semplice cittadino che vive del suo lavoro e non può accedere ad altre risorse. Ecco un esempio dell’illusorietà della liberazione dell’uomo propugnata dai cantori, anche progressisti, del Nuovo Mondo o del Nuovo Ordine Mondiale. La totale sostituzione del denaro contante con il denaro elettronico, accessibile solo per via digitale, porterà ad un livello assoluto il potere di vita o di morte esercitato dal capitalismo finanziario, realizzando qualcosa di molto simile, se non proprio quello, allo scenario, profetizzato già da duemila anni, dell’affermarsi del potere anticristico, di cui ai versetti 13.16-17 del Libro della Rivelazione: “Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio”.
Il potere indicibile del capitalismo finanziario ha dato un’altra prova di sé qualche anno fa quando ad essere “depiattaformizzato”, ossia cancellato dalle piattaforme social, impedendogli ogni comunicazione in un momento cruciale come quello dell’assalto a Capitol Hill da parte dei suoi fans, fu Donald Trump all’epoca presidente degli stati Uniti d’America e pertanto, nell’immaginario collettivo, l’uomo più potente del mondo. Il capitalismo finanziario, che controlla le piattaforme social e che con un algoritmo può bannare, senza alcuna possibilità di ricorso o appello, quindi in barba al diritto di libertà di parola e pensiero, chiunque pubblichi messaggi non conformi al politicamente corretto, si dimostrò nell’occasione più potente del Presidente degli Stati Uniti. Trump fu cancellato dalle piattaforme perché “fascista”, “razzista”, non inclusivo, “suprematista bianco” e via accusando.
Torchio fiscale sui piccoli e climate change
Un alto e noto esponente del capitalismo finanziario, Mario Draghi, è stato il coautore per il “Gruppo dei Trenta” – una assise dei principali banchieri mondiali della quale egli fa parte e che risponde alla dinastia dei Rockefeller – di un rapporto, ispirato alla schumpteriana “distruzione creatrice”, nel quale si raccomandano, che vista la fonte è come dire si comandano, agli Stati politiche favorevoli alle grandi concentrazioni finanziarie capitalistiche, perché capaci di economie di scala, in modo da cambiare il volto dell’economia mondiale ponendo fine al proliferare, anti-economico, delle piccole e medie imprese[14]. Queste ultime del resto sono già torchiate fiscalmente dagli Stati impotenti ad imporre il sacrosanto e giusto prelievo fiscale sulle grandi multinazionali, perché esse sfuggono al controllo territoriale statale ed allocano le loro sedi legali nei paradisi fiscali ottenendo trattamenti tributari a costo zero o suppergiù. Agli Stati non resta che tassare soltanto le piccole e medie imprese le quali non hanno la stessa estensione globale delle multinazionali e quindi non hanno la loro capacità di sottrarsi al fisco. Sul territorio nazionale restano solo i piccoli che pagano per tutti.
Anche l’allarmismo climatico, ne facevamo cenno, serve le strategie del capitalismo finanziario. Il mantenimento in ansia dei popoli attraverso ripetute emergenze – il terrorismo internazionale, le guerre globali agli Stati canaglia, la pandemia da covid, ed ora il “climate change” – è un sistema di dominio ormai ampiamente collaudato, vista anche la quasi generale passività delle masse impaurite dal pericolo di turno. L’élite finanziaria da ultimo ha individuato nella trasformazione dell’industria automobilistica da termica ad elettrica e nel passaggio dal combustile fossile alle energie cosiddette alternative anche per le abitazioni il grande business del momento, nascondendo però il retroterra di sfruttamento coloniale e di danno ambientale che tale passaggio provoca per via del litio – un minerale che si trova solo in Africa dove viene estratto con manodopera, anche infantile, pressoché schiavizzata – necessario al funzionamento dei motori elettrici. L’allarme per il climate change e la creazione mediatica di ridicoli personaggi come la ragazzina svedese Greta Thunberg, trasformata ad arte nella profetessa della politica green, con il supporto della mitologia della decrescita felice e dell’inclusività arcobaleno, multietnica ed ecopacifista, servono allo scopo di spaventare le masse ed indurle ad accettare i cambiamenti, profittevoli all’élite finanziaria, delle abitudini di vita. Anche lo sdoganamento, in Occidente, di cibo a base di insetti, sulla presunzione “scientifica” che la tradizionale dieta carnivora sarebbe anti-ecologica (i peti delle mucche da allevamento inquinano troppo!) è funzionale alla strategia di domino del capitalismo finanziario. Il climate change è diventato la nuova emergenza mondiale nonostante il fior fiore degli scienziati, dal fisico Antonino Zichichi al climatologi Franco Prodi, Franco Battaglia, Uberto Crescenti, e molti altri anche stranieri di livello internazionale, spiegano che il cambiamento climatico poco o nulla ha a vedere con l’attività umana (questa è casomai responsabile dell’inquinamento che è altra cosa, magari dannosa e tuttavia risolvibile senza eccessivi drammi) ma con i ciclici mutamenti del clima registrati nella storia del pianeta anche quando l’essere umano era di là dal fare la sua comparsa ed anche quando l’attività umana era preindustriale. Inutile dire che questi scienziati sono bannati ed oscurati dai media per l’ovvia ragione che l’intero media-system dipende dai finanziamenti assicurati dalla finanza mondiale la quale controlla le grandi reti televisive e le grandi testati giornalistiche.
Nella prima parte del XX secolo alcune tra le più avvedute intelligenze, di diverso orientamento, – da Aldous Leonard Huxley a George Orwell, da Robert Hugh Benson a Vladimir Soloviev – avevano pronosticato l’avvento di un mondo futuro distopico come quello nel quale stiamo entrando. Essi hanno immaginato che l’affermarsi del Mondo Nuovo, dai contorni inquietanti per Orwell, Benson, Soloviev, esaltanti per Huxley, sarebbe stato agevolato dalla diffusione di una “nuova religione” a tinte umanitarie e cosmopolite promettente pace e benessere universali, dietro la quale però si sarebbe nascosto il vero volto, totalitario, del potere globale, feroce contro ogni dissidenza. Tuttavia, benché sia da essa accennato, la letteratura distopica non ha messo in debito rilievo il ruolo che il denaro mostra di avere nell’implementazione del Mondo Nuovo. La potenza del denaro può essere, a seconda della direzione verso la quale è rivolto il cuore dell’uomo, quella di uno strumento benefico, mezzo sociale di aiuto reciproco nella condivisione e mezzo di carità spirituale, o al contrario quella di uno strumento malefico, mezzo di dominio, usura, sfruttamento, omicidio. Giacinto Auriti lo aveva ben compreso nella sua critica alla moneta-debito ed alle sue conseguenze anti-umane ed anticristiche. Ma prima di lui l’ammonimento era già stato proferito da Pio XI quando nella “Quadragesimo Anno” (1931) denunciava “l’imperialismo bancario” ovvero “l’imperialismo internazionale del denaro”. Entrambi inascoltati.
[1] Cfr. Nuccio D’Anna “Le origini sacre della monetazione”, Solfanelli, Chieti, 2017.
[2] Abbiamo avuto modo, recentemente, di ascoltare Massimo Cacciari, in una conferenza estiva in quel di Francavilla al mare (Chieti), osservare che l’Intelligenza artificiale e l’automazione della produzione consentirà l’inveramento della profezia di Marx e la liberazione dell’uomo dal lavoro-pena. Purtroppo, il noto accademico non si rende conto che, quando tutta la produzione sarà automatizzata, l’uomo non conquisterà alcuna libertà. Dal momento che nessuna produzione, pur robotizzata, produce profitti se non trova mercato ossia se non c’è domanda, l’organizzazione sociale dovrà, in uno scenario come quello prefigurato dal trans-umanismo cibernetico, provvedere a sostenere il reddito degli uomini liberati dal lavoro, probabilmente attraverso forme di reddito di cittadinanza possibili mediante la creazione ex nihilo di moneta, per di più elettronica, da distribuire ai cittadini. Ma, in tal modo, è evidente che si realizzerà soltanto una stretta dipendenza vitale degli uomini dall’organizzazione sociale che alimenterà il loro reddito e che si arrogherà un potere praticamente di vita e di morte depiattaformizzando, ossia chiudendo ad essi l’accesso alla rete digitale del denaro virtuale, coloro che non dovessero obbedire alle regole imposte dal Potere. Qualcosa del genere è già in atto tanto nell’Occidente liberale che nella Cina dirigista. Quello che si profila è uno scenario di schiavitù globale laddove senza il “marchio”, che sarà imposto a tutti, ricchi e poveri, piccoli e grandi, “nessuno potrà vendere o comprare” (Ap. 13, 16-18).
[3] L’odio nei confronti di Stolypin, che portò al suo omicidio, nacque negli ambienti rivoluzionari e finanziari. I primi vedevano nella sua politica un riformismo che, lenendo le sofferenze popolari, avrebbe smorzato lo spirito rivoluzionario. I secondi vi vedevano un pericolo per gli affari dei centri di potere economico. Alla fine del proprio mandato Stolypin si ritrovò politicamente isolato. La sinistra gli rimproverava le dure misure repressive antiterroristiche che, dopo un attentato a lui rivolto nel quale invece morì sua figlia, aveva assunto contro l’opposizione rivoluzionaria, mentre la destra gli imputava i tentativi di riforma che intaccavano il potere dell’aristocrazia agraria. In questo clima di ostilità Stolypin subì un attentato a colpi di pistola il 14 settembre 1911 per mano del socialrivoluzionario ebreo Dmitri Bogrov, mentre assisteva ad un’opera teatrale a Kiev. Morì quattro giorni dopo.
[4] Cfr. E.H. Kantorowicz, “I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medioevale”, edizione del Corriere della Sera, a cura di Franco Cardini, Milano, 2021.
[5] Cfr. G. Travers “Nel cuore del capitalismo: la società anonima” in “Trasgressioni. Rivista quadrimestrale di cultura politica”, n. 67, anno XXXVI, settembre-dicembre 2021, Firenze.
[6] Cfr. Thomas Fazi “Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè”, Meltemi, Milano, 2022.
[7] Cfr. Giulio Tremonti “Uscita di sicurezza”, Rizzoli, Milano, 2012, pp. 217-218.
[8] Cfr. C. Schmitt “L’unità del mondo” (1952) in “Stato, Grande Spazio, Nomos”, a cura di G. Maschke, Adelphi, Milano, 2015.
[9] Cfr. K. Schwab “La quarta rivoluzione industriale”, Franco Angeli, Milano, 2016.
[10] Cfr. Y.N. Harari “Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità” (Bompiani, 2017); “Homo Deus – breve storia del futuro” (Bompiani, 2018); “21 lezioni per il XXI secolo” (Bompiani, 2019); “Noi inarrestabili. Come ci siamo presi il mondo” (Bompiani, 2022).
[11] Ci informa Wikipedia: “Poco prima della riunione annuale del WEF del 2016 dei Global Future Councils, Ida Auken, una parlamentare danese, che era anche una giovane leader globale e membro del Council on Cities and Urbanization, ha caricato un post sul blog che è stato successivamente pubblicato da Forbes immaginando come la tecnologia potrebbe migliorare le nostre vite entro il 2030 se gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite fossero realizzati attraverso [la] … fusione di tecnologie. La Auken ha immaginato come la comunicazione digitalizzata, quindi il trasporto, l’alloggio e il cibo, si tradurrebbero in un maggiore accesso e in una diminuzione dei costi. Poiché tutto sarebbe gratuito, inclusa l’energia pulita, non ci sarebbe bisogno di possedere prodotti o immobili. Nel suo scenario immaginato, molte delle crisi dell’inizio del XXI secolo – malattie dello stile di vita, cambiamento climatico, crisi dei rifugiati, degrado ambientale, città completamente congestionate, inquinamento idrico, inquinamento atmosferico, disordini sociali e disoccupazione – sarebbero risolte attraverso le nuove tecnologie”.
[12] Cfr. R. Cingolani https://www.youtube.com/watch?v=aKYLaD1moTI.
[13] Cfr. S. Zuboff “Capitalismo della sorveglianza”, Luiss University Press, 2019.
[14] Cfr. G30 “Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid. Designing public policy interventions”, Washington D.C., December 2020. Cfr. anche R. Sorrentino, “G30 alto rischio d’insolvenze, nuovi mezzi per gestire gli NPL”, “Il Sole 24 ore”, 15 dicembre 2020, nonché Marco Bersani “Arriva la distruzione creativa” in “Il Manifesto” del 06.02.2021.