Minima Cardiniana 437/4

Domenica 22 ottobre 2023, San Giovanni Paolo II

POLEMICHE
L’OCCIDENTE, L’ITALIA E IL DEFICIT DI CULTURA LIBERALE
UNA RISPOSTA A MARCELLO VENEZIANI
di Dino Cofrancesco
Su La Verità del 13 ottobre Marcello Veneziani ha scritto un lungo articolo, in realtà un vero e proprio saggio storico-filosofico, sull’Occidente peggiore nemico di se stesso. In esso manifesta tutto il disagio di chi, come lui, da un lato “ama la civiltà da cui proveniamo” e dall’altro “detesta la sua decadenza e il suo rinnegamento”. Il primato dell’individualismo, dell’economia, della tecnica, “l’assenza di valori salvo i codici woke, black o politicamente corretti” a suo avviso non sono valori per cui vale la pena ancora battersi. L’Occidente “che rinnega la sua civiltà, la sua identità e le sue radici greche, romane e cristiane” è un’idea da accantonare. L’occidentalista – di cui abbiamo tanti esempi sui grandi giornali, soprattutto tra gli scienziati politici divenuti quasi tutti predicatori delle crociate ‘antifasciste’ (!) – alla fine difende “solo il suo livello di benessere e la sua potenza, rinunciando a tutto il resto, mettendo a rischio pure la libertà e la democrazia”.
È un discorso che non può non far presa su un liberale ‘ottocentesco’, come lo scrivente, per il quale la ‘comunità politica’ (ieri lo stato nazionale, domani chissà cosa) non è la nemica dei diritti civili e politici, né della logica del mercato ma costituisce il sostrato terreno che sostiene gli uni e l’altra sicché il suo dissolvimento nell’embrassons nous universalista non rappresenta un progresso ma il temuto trionfo del nichilismo. Condivido anche quanto dice Veneziani in polemica con chi “risolve tutto agitando senza indugi le bandierine del momento, quella ucraina, quella israeliana, come fa il presente governo; accetta l’elementare manicheismo dei media e dei soggetti più forti d’Occidente, non si pone domande critiche, non riconosce i precedenti e i presupposti, non vede le cose da più punti d’osservazione, non calcola gli effetti a lungo raggio, i dolori e i risentimenti di rivalsa che suscita. Divide in assoluto tra vittime e carnefici, senza porsi il problema se i carnefici di oggi sono le vittime di ieri e viceversa; è più facile il messaggio e magari è più vantaggioso, anche sul piano personale”. Per chi ama la realtà e la verità e ha a cuore alcuni principi, avverte Veneziani, non ci sono soluzioni semplici e unilaterali al grande conflitto planetario esploso dopo l’invasione russa dello stato ucraino (sovrano e multinazionale) ieri e alimentato a dismisura oggi dall’attentato terroristico di Hamas. Personalmente ritengo che i tagliagole islamici si sono abbandonati a tali atti di crudeltà da far impallidire gli stessi guardiani nazisti dei Lager che incolonnavano uomini, donne, bambini verso i forni crematori ma non infierivano sui loro corpi, non decapitavano bambini, non si esaltavano nel versare il loro sangue. E un discorso analogo va fatto per il comunista Pol Pot che erigeva piramidi di teschi ma si asteneva (sembra) dall’uccidere i bambini. Se fossi un dirigente israeliano non avrei alcuna difficoltà ad applicare ai responsabili dei massacri nel kibbutz Be’eri la Legge Eichmann, perseguitandoli in ogni angolo del mondo, per poi impiccarli e disperderne le ceneri nel Mediterraneo. Detto questo, però, sono d’accordo anch’io con le conclusioni dell’articolo: “sconfiggere il terrorismo di Hamas è una priorità da condividere, ma il programma non può essere solo la salvaguardia di Israele, sacrosanta, senza considerare la necessità di garantire la vita al popolo palestinese e dar loro uno Stato e un territorio. Le frustrazioni e i diritti elementari negati armano gli estremismi e minano il futuro assai più delle trattative e dei negoziati”.
C’è però un punto – cruciale – in cui mi sento di prendere le distanze da Veneziani. Le società occidentali, a suo avviso, ormai condizionate dall’individualismo, dal benessere, dal mercato non hanno altri valori. Posso essere anche d’accordo a patto di aggiungere che, però, hanno una risorsa che manca nel resto del mondo: la libertà di parola, il diritto al dissenso e a far mancare la propria cooperazione al potere. Abbiamo milioni di difetti noi euro-occidentali ma la libertà di dire no non ce la toglie nessuno, nonostante i duri colpi che a tale libertà danno il politicamente corretto e una political culture che, in Italia ad esempio, in nome dell’antifascismo, dell’antisovranismo, dell’antipopulismo cerca vanamente di mettere a tacere ogni voce fuori dal coro. Se dovessi fare un’ipotesi sulle ragioni di tale risorsa, non le troverei nella dimensione culturale – sovrastrutturale, avrebbe detto il vecchio Marx – ma in quella sociopolitica. Siamo privilegiati del destino giacché, nella nostra parte di mondo, i vari poteri che cementano la coesione sociale – quello spirituale, quello politico, quello economico: oratores, bellatores, laboratores – non sono stati mai monopolizzati da nessuna autorità superiore. E i regimi totalitari (ma anche autoritari) che hanno tentato di farlo sono finiti sempre male. È questa base storica oggettivamente ‘ingovernabile’ la garante delle nostre libertà, non le retoriche partorite nelle menti degli intellettuali, oggi sedicenti tutti liberali. Questo è vero, soprattutto, del nostro Paese in cui l’identità politica è sempre stata un’identità polemica e l’“altro” è una figura che non si può certo eliminare – la Costituzione sta lì a salvaguardia di tutte le parti in conflitto – ma si può sempre delegittimare moralmente e culturalmente.
L’ideale di tanti politici e intellettuali, da noi, è quello di monopolizzare la legittimità politica, lasciando fuori dalla sua area gli attori, per varie ragioni, poco rispettabili. Sennonché, fino a quando si può votare liberamente le divisioni sociali ‘strutturali’ non consentiranno mai tale appropriazione indebita. Negli anni in cui, in seguito a Mani pulite, la sinistra sembrava ormai venire incontro alle aspettative del Paese e pronta a insediarsi nei palazzi del potere chissà per quanti anni, la gioiosa macchina di guerra di Achille Occhetto venne fatta a pezzi da una maggioranza silenziosa che aveva interessi e valori da tutelare molto diversi da quelli che parevano ormai prevalenti e vincenti. L’esempio più emblematico dell’impossibilità di una parte della classe politica di identificarsi con le istituzioni, mettendo alla porta tutti i concorrenti, è la costituzione del PD nel 2007. Conosco non pochi esponenti del PD degni di stima e per i quali sarei tentato di votare, se li avessi nel mio collegio elettorale, ma tale considerazione non m’impedisce di metterne in luce il fondo inconsapevolmente ‘totalitario’ se non ‘integralistico’ in una delle due accezioni del termine, riferita a “ogni concezione che, in campo politico (ma anche sociale, economico, culturale), tenda a promuovere un sistema unitario, ad abolire cioè una pluralità di ideologie e di programmi, sia appianando contrasti e divergenze tra gruppi contrapposti e conciliando tendenze ideologiche diverse”. Esponendo nelle sezioni di partito i ritratti di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi i fondatori del PD, in sostanza, si ponevano come asse portante del sistema politico dal momento che nel comune contenitore ideologico (assolutamente inedito nella storia della democrazia in Europa) confluivano le due ‘scuole di pensiero’, la cattolica e la comunista, divenute, nel secondo dopoguerra, le aziende più importanti – a livello sindacale, sociale, culturale – del mercato politico nazionale. Saltavano così le linee divisorie garanti di quella dialettica politica che, nelle democrazie a norma, prevede una maggioranza di governo e una minoranza di opposizione, nonché l’alternanza di ruolo in seguito al responso delle urne. Le forze che si coagulavano attorno al PCI e alla DC erano espressione dei diversi interessi e valori che, nelle società aperte, non più in competizione, univano le proprie risorse ma senza poter rispondere alla domanda: chi sarebbe rimasto fuori da questa union sacréé e come considerarlo? Se il meglio delle tradizioni politiche nazionali si era fuso nel PD, quale legittimità poteva ancora rivendicare una forza di opposizione? Riappariva un vecchio costume di casa, quello di declassare gli avversari nella lotta per il potere a nemici del bonun commune e delle istituzioni, naturalmente, per il PD, quelle nate dalla Resistenza e dalla lotta antifascista.
Sennonché le masse non hanno premiato quanti proclamavano che la salus rei publicae suprema lex esto e di quella salus se ne facevano custodi e medici, sicché nell’impossibilità di disarmarli di nuovo con un ‘governo di tecnici’ si è tentati di seppellirli sotto la solita valanga di accuse – fascismo, sovranismo, populismo, nazionalismo, antieuropeismo ecc. Col risultato di far dimenticare le reali pecche dell’esecutivo e le proposte di leggi sbagliate o abortite.
Dovrebbe essere chiaro il senso di questa digressione, sine ira ac studio, sul PD. È il ‘costume’ politico che m’interessa, non le battaglie che non finiscono mai tra una sinistra (che si crede votata dalle persone perbene) e una destra (per definizione poco raccomandabile). Ciò che intendo ribadire è molto semplice: almeno in Italia, per la salvaguardia del bene più prezioso per un liberale, la libertà – di parola, di associazione, di critica ecc. – non c’è da fare alcun affidamento sulla political culture, insegnata nelle Università, propagata dai mass media. Il liberalismo alla Isaiah Berlin, alla Raymond Aron ma anche alla Benedetto Croce è un’esile pianticella esposta alle tempeste di una lotta politica, de facto, senza regole. A garantire le nostre libertà sono le nostre divisioni storiche, il fatto che la società civile è da sempre dilacerata, sicché a nessuna parte è consentito di unificarne, sotto il suo controllo, tutte le risorse, ideali e materiali. Non è quanto passa nelle menti dei filosofi politici, degli scienziati politici, degli storici ‘impegnati’ a rassicurarmi sulla tenuta delle nostre libertà. Ormai si dicono tutti ‘liberali’, anche quanti scrivono su Domani o sul Manifesto – “quotidiano comunista” – ma de facto sono i guerrieri nascosti nel cavallo di Troia (forse inconsapevolmente) per mettere a sacco e a fuoco la ‘società aperta’.
È l’anarchia – nel senso della mancanza di un’autorità spirituale e temporale suprema – che ci protegge: le nostre libertà nascono negli interstizi di corposi interessi materiali in insanabile contrasto e di ideali – legati al passato o proiettati nel futuro – che non intendono lasciarsi assorbire.
Tutto questo, agli occhi di un tradizionalista come Veneziani, può essere desolante: significa, infatti, che non ci sono ‘valori comuni’ a tenerci uniti – il tentativo di crearne fatto dal fascismo finì nelle leggi razziali, nell’alleanza con Hitler, nella catastrofe bellica – ma ci sono crepe antiche che ci consentono di raggiungere una barricata se in un’altra ci sentiamo poco protetti.
Quanto può durare tutto questo? È difficile dirlo. In ogni caso, non resta che rassegnarci, pensando al privilegio che nessuno ci ha ancora tolto e su cui non poteva contare Trilussa, sotto il regime fascista, quando scriveva nel sonetto All’ombra (riportato poi nel monumento a Trastevere a lui eretto del 1954): “Mentre me leggo er solito giornale / spaparacchiato all’ombra d’un pajaro / vedo un porco e jè dico: Addio maiale. / vedo un ciuccio è je dico: Addio somaro. / Forse ste bestie nun me capiranno / ma provo armeno la soddisfazione de poté di’ le cose come stanno / senza paura de finì in prigione”. Oggi non finiamo in prigione neppure se critichiamo (lo fanno pochissimi) il Presidente della Repubblica per le sue omelie antifasciste fuori stagione. Indubbiamente, il conflitto tra potentati non protegge il dissenziente da sanzioni indirette, talora pesanti, comminate dall’establishment. A un Roberto Vivarelli che avesse scritto l’esemplare, civilissimo saggio La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 (il Mulino, 2000), nessuno avrebbe garantito il più che meritato cursus honorum accademico.
Tanti anni fa l’allora direttore de La Stampa, il compianto Arrigo Levi, a Domenico Settembrini, autore di un articolo in cui si criticava Palmiro Togliatti, faceva notare: “Caro Professore, si rende conto delle migliaia di operai comunisti che lavorano per la Fiat e del fatto che un giornale della Fiat non può pubblicare una critica così dura del leader del PCI?”. C’erano, però, altri quotidiani che avrebbero ospitato (e ospitarono) gli articoli di Settembrini, giacché la libertà di stampa nel nostro Paese non è mai venuta meno. È vero, erano quotidiani meno letti de La Stampa, sennonché bisogna prendere atto che, in Italia, il pubblico di lettori moderati o conservatori è molto meno numeroso di quello della sinistra: basta entrare in una Libreria Feltrinelli per rendersene conto. Delle ‘due culture’ nazionali, quella progressista recluta più proseliti di quella liberal-conservatrice, ma la colpa non è sicuramente della mancanza di libertà. Liberi son tutti e se le risorse a disposizione sono ineguali dipende anche dall’ incapacità a reperirle – o forse meglio dalla sottovalutazione del momento culturale come fabbrica del consenso. In fondo la woke culture da noi non infierisce come negli Stati Uniti. E nessuno può neppure immaginare di mettere il bavaglio a Marcello Veneziani.
(Corriere della Sera, 19 ottobre 2023)