Minima Cardiniana 439/5

Domenica 5 novembre 2023, Santi Elisabetta e Zaccaria

LIBRI LIBRI LIBRI
NON SOLO ISLAM: UN VIAGGIO DI TRE MILLENNI PER CAPIRE IL MONDO ARABO
Tim Mackintosh-Smith, Gli arabi. 3000 anni di storia di popoli, tribù e imperi, traduzione di Francesca Bellino, Torino, Einaudi, 2022, pp. 800, euri 40,00.
L’arabista Tim Mackintosh-Smith descrive il sorgere e tramontare di un sistema di “popoli, tribù e imperi” più antico del Profeta e che non coincide interamente con la fede musulmana.
La “freccia del tempo”, questo simbolo impietoso dello scorrere inesorabile e irreversibile dei giorni degli uomini e del mondo che ha trionfato nel “nostro Occidente” dall’età greco-romana a oggi, ci angoscia di continuo ma spesso si rivela davvero insufficiente. Allora si ricorre ad altre immagini.
La “ruota del tempo” che gira eternamente sul suo perno e che ci lega all’Eterno Ritorno dell’Eguale, quello che piaceva e piace alla cultura indiana, che affascinava pitagorici e neoplatonici e che Nietzsche riuscì a traghettare nella Modernità filosofica; oppure la “clessidra”, semplice aggeggio fatto da due bicchieri di vetro di forma conica comunicanti fra loro ai vertici, che sono bucati, e che lascia scorrere lentamente un filo d’acqua o di sabbia dall’uno all’altro, dall’alto verso il basso: quando il cono di sotto è riempito sappiamo ch’è passata un’ora e giriamo l’aggeggio. Quante volte i popoli, esausti di “frecce” ed esasperati a causa delle “ruote”, sono usciti dal tempo rovesciando la clessidra, mettendo letteralmente tutto sottosopra, magari – come quel personaggio del capolavoro di Tomasi di Lampedusa – “cambiando tutto affinché tutto resti come prima”?
Tim Mackintosh-Smith, celebre ed eminente arabista, ha vissuto una quarantina d’anni nello Yemen, l’antica Arabia felix: il suo primo libro era dedicato a un sogno e a una speranza, quelli di un Paese dell’apice meridionale della penisola arabica, sospeso tra Asia e Africa e tra un passato glorioso e un presente di scismi all’interno dell’islam e di pressioni colonialistiche, e che nel 1990 era riuscito a unificarsi. Quel sogno si è spezzato nel 2016, nel corso di una guerra civile iniziata l’anno prima e che perdura ancora nell’indifferenza degli altri arabi e di tutta la società civile del mondo, quella che si vanta o s’illude di venir rappresentata dall’ONU (boriosa sigla della cosiddetta “Organizzazione delle Nazioni Unite”). Una sanguinosa “guerra dimenticata”.
Non stupirà pertanto che il racconto di Mackintosh-Smith Gli arabi. 3000 anni di storia di popoli, tribù e imperi (Einaudi Pagine 800. Euro 40,00) si apra con un ricordo di guerra civile, nei primi tempi dell’islam (verso il 630), dov’entrano la veggenza e la magia, due silenziose compagne della vita del mondo arabo; e arrivi dopo poche decine di pagine al racconto apocalittico della distruzione della ciclopica diga di Ma’rib, ai primi del VII secolo, quando ancora viveva il profeta Muhammad. Quel crollo rovinoso mise fine al prospero regno dei sabei, i successori della “regina di Saba”, in quanto quella mirabile opera d’ingegneria regolava il regime delle acque di un Paese che dalla ricchezza idrica faceva dipendere la sua prosperità (Arabia felix, appunto, in un’immensa penisola arida e assetata). Tragica eroina dell’evento fu Tarifa, la kahina (“veggente”) del re, che previde il disastro e guidò il suo popolo attraverso una migrazione tra gli eserciti di due invasori contrapposti, i persiani che scendevano dal nord e gli etìopi che risalivano dal sud.
Eternità sempre uguale a se stessa e repentini irrimediabili (o provvidenziali) mutamenti; arcaici regni millenari resi favolosi grazie alle loro miniere di metallo pregiato e alle ricche carovaniere che li attraversavano – la “regina di Saba” di tremila anni or sono non è una leggenda – e scontri tra popolazioni indigene e conquistatori stranieri, tra stanziali e nomadi; sorgere e tramontare di antichi imperi, sovrastato dall’incredibile avventura dell’islam e dal conseguente prodigioso estendersi di un linguaggio parlato e scritto che sarebbe diventato uno dei principali idiomi di cultura di tutta la nostra storia.
Cammellieri, mercanti di spezie, allevatori di cavalli, gli arabi erano stati fra i “protagonisti nascosti” del mondo romano, ch’ebbe anche un imperatore arabo a guidarli ma che non li comprese mai del tutto (erano famosi tra i romani come molles, pigri e viziosi: mai equivoco fu più ridicolo). Grazie all’islam dilagarono prodigiosamente nel mondo afroasiatico e anche europeo, ma soprattutto “arabizzarono”, islamizzandoli, altri popoli estranei al loro originario ceppo semitico (indoeuropei erano persiani e indiani, uraloaltaici i turchi). Mackintosh-Smith fatica perfino lui, talora a distinguere tra “arabi” (quasi tutti, ma non tutti, musulmani) e “musulmani” (arabofoni o arabografi in tutto o in gran parte, ma etnicamente quasi tutti non-arabi).
Il paradosso centrale del mondo arabo sta nel fatto che, etnicamente parlando, esso perse quasi tutto il suo primato che le conquiste immediatamente succedute alla primissima espansione dell’islam avevano fondato. Gli arabi dell’ovest, avviati alla conquista del Mediterraneo e della penisola iberica, si fusero con i berberi; gli altri s’incontrarono con i persiani nell’impero califfale abbaside e quindi in vario modo furono vinti ma anche vincitori nel confronto con gli uraloaltaici, i mongoli, che prevalsero tra XII e XVIII secolo con le dinastie genghizkhanide, ottomana e timuride.
Dalle campagne napoleoniche in poi gli arabi, sottratti magari alla signoria turca, avviarono il loro processo di “modernizzazione”, che li condusse alla scoperta del nazionalismo, quindi alla decolonizzazione, quindi alla drammatica condizione post-coloniale che li portò a subire il fascino dell’Occidente europeo prima e americano poi, non senza “fughe” verso il fascismo e il comunismo ed esperienze oscillanti tra fondamentalismo, tirannide e anarchismo.
La recente polemica accesa da alcuni incauti politici a proposito di certi biglietti al museo egizio di Torino offerti in condizioni di favori ad arabi e/o arabofoni ha mostrato una volta di più che i nostri politici e i nostri operatori massmediali confondono tra la categoria dell’arabo (come lingua e come popolo) e quella del musulmano (cioè adepto di una religione). Una prova di più dell’opportunità di un libro come questo di Mackintosh-Smith; e della problematicità della sua diffusione, specie nelle scuole.
Franco Cardini

UN MALINTESO DAL QUALE LIBERARSI
Jack Goody, Il furto della storia, traduzione di Adriana Bottini, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 411, euri 38,00.
L’importanza dell’antropologo Jack Goody è troppo nota perché la si debba tornar a sottolineare: se non per lamentare il fatto che questo libro, edito nel 2006 e tradotto in Italiano già nel 2008, sia rimasto finora evidentemente privo di risonanze e di conseguenze. Anche recentemente, si continua a recitare il vecchio squallido mantra dell’“originalità irripetibile” della nostra cultura occidentale e della sua “obiettiva superiorità”. Niente razzismo, si aggiunge con apotropaica coda di paglia: ci mancherebbe! Ma – e me lo sono sentito ripetere io stesso più volte, nelle e-mail che mi vengono indirizzate – dov’è il Leonardo da Vinci dei cinesi? E il Raffaello degli indiani? E il Dante degli arabi? Per non parlar dei “boveri negri”, come si sarebbe detto una volta, o dei rozzi pellerossa, o dei miserabili polinesiani e così via…
Forse – come mi sono permesso di sostenere nel recente La deriva dell’Occidente (Laterza 2023) – il perno dell’equivoco non sta soltanto nel fatto che le culture non-occidentali sono state fatte oggetto di pochi studi, dal momento che ciò non è vero, o di studi scarsamente conosciuti e valorizzati, il che è già più vicino alla realtà: se le cose stessero in questo senso, tutto si ridurrebbe a un problema di banale disinformazione. Ma non c’è solo questo. C’è che si è del tutto ignorata la vera natura dell’“eccezione occidentale”: che non è consistita nell’essere stati, noialtri, più “bravi” degli altri, bensì nel fatto che l’Occidente moderno si è dotato fra XIII e XVI secolo, degli strumenti atti a rompere il plurimillenario equilibrio di civiltà a “imperfetti compartimenti stagni”, che restavano se non ermeticamente quanto meno largamente estranee le une alle altre anche nei casi nei quali merci, manufatti e perfino idee proprie di una cultura passassero in un’altra. È l’Occidente che grazie alla sua volontà di potenza e alle emergenze che si era trovato ad affrontare concepì i due strumenti fondamentali – le navi a velatura mobile adatte alla navigazione oceanica e i cannoni – che gli permisero di esportare (nel suo interesse) la propria cultura e non solo di proporla agli altri, bensì addirittura di assoggettarli. Con tali premesse, eventuali oggetti tesi a favorire questa o quella forma di novità che non provenissero dagli altri continenti restarono ignorati o atrofizzati: l’economia-mondo si mosse sui parametri dettati dall’Occidente. E solo adesso che la civiltà “mondiale” ispirata al modello occidentale viene contestata gli altri popoli riscoprono o riprendono a valorizzare l’alterità di modelli e di oggetti ai quali finora, spontaneamente o no, si erano anteposti quelli propri della cultura del conquistatore coloniale. Da lì a definire “senza storia” popoli le cui vicende restavano inascoltate solo in quanto espresse in modi e con strumenti differenti dai nostri e a negare originalità a conquiste scientifiche e tecnologiche le quali non usavano fregiarsi del sigillo della scoperta o dell’invenzione “originale” e “individualistica” il passo è stato breve: e l’eccezione occidentale, risultato dell’unione tra individualismo e volontà di potenza, è stata presentata come esito di una forza originale e irripetibile sul piano dell’ingegno e dell’intelligenza, dell’originalità e dell’intraprendenza.
Insomma, è tempo di riscrivere le vecchie Weltgeschichten all’insegna della collaborazione interculturale. Goody ne ha proposto ne Il furto della storia una sorta d’indice preliminare programmatico: non si tratta tanto d’imparare cose nuove quanto di rimeditare e di reinterpretare cose che già sapevamo sul “modo di produzione asiatico”, sul “dispotismo orientale” e così via. E si tratta di abbandonare una volta per tutte i logori modelli individualistici volti alla “ricerca del genio individuale che assurge all’universalità”, prodotto dell’interpretazione umanistico-rinascimentale che ha trasformato in esito di genialità irripetibile frutto di un unico ingegno ciò che di solito era il risultato di una convergenza di metodi, di sistemi, di capitali, di concezioni filosofiche. La globalizzazione doveva condurre prima o poi a una generale ridefinizione delle singole avventure storiche di ciascuna civiltà come parti di un puzzle che finora non si aveva interesse a correttamente ricostruire, intenti com’eravamo ad appropriarci della “gloria” di questa o di quella realizzazione. Quel che abbiamo fatto sul piano della storia sociale all’interno di ogni singola cultura, dobbiamo farlo di nuovo adesso a livello della loro reciproca integrazione. Cesare ha conquistato il mondo: ma non aveva nemmeno un cuoco?, si chiedeva il vecchio Bertolt Brecht. Napoleone ha conquistato l’Europa: ma abbiamo correttamente valutato finora che la scienza balistica dei suoi cannoni era frutto del computo algebrico e trigonometrico degli arabi, che la perizia delle manovre della sua cavalleria proveniva da lontane metodologie addestrative scitiche, sarmatiche e persiane, che le sete e le porcellane delle Tuileries erano frutto di atéliers cinesi, che il caffè delle sue prime colazioni era d’origine etiopica passata attraverso il sistematico trapianto di essenze africane sugli altipiani latino-americani, che l’acciaio delle lame dei suoi eserciti era stato temprato sulla base di un’antichissima esperienza indiana?
Franco Cardini