Minima Cardiniana 441/5

Domenica 19 novembre 2023, Avvento Ambrosiano

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
IL VINO NELL’ARTE
di Eleonora Genovesi
E dove non è vino non è amore, né alcun altro diletto hanno i mortali” (Euripide)
Da sempre tra il vino e l’uomo c’è stato un rapporto antico e profondo, ben radicato nella nostra cultura.
Da piccola, come tutti i bambini, non ne avevo contezza… Il vino per me era quella cosa che nonno Giustiniano poteva bere in quantità limitate o anche, dai racconti di famiglia il vino era la bevanda che si consumava nelle antiche osterie di paese giocando a carte e condividendo momenti di convivialità.
Ma crescendo mi sono resa conto che il vino non era più un concetto popolare bensì universale e che la cultura del vino è una cultura di massa. Come afferma giustamente Vittorio Sgarbi, i valori legati al vino sono così nobili da farne un bene dell’umanità e coniugati con l’arte incarnano un’unica idea di civiltà e cultura. Basti pensare che il Prosecco così come Giotto con il suo ciclo degli Scrovegni sono entrambi Patrimonio dell’umanità.
E qui richiamo alle parole dello stesso Sgarbi: “Tutto quello che diciamo dell’arte, possiamo dirlo del vino, perché il vino è un’opera d’arte straordinaria che riguarda la vita e la terra, come la vita e come l’arte”.
E il vino nell’arte è stato da sempre fonte d’ispirazione per molti artisti. Da sempre collegato alla figura dell’uomo come frutto del suo lavoro e allo stesso tempo rigenero per i suoi sensi.
Il vino accompagna l’uomo in tutta la sua sfera sensoriale, dal tatto, all’olfatto e al gusto e questo ha fatto in modo che l’arte lo descrivesse in diverse situazioni.
Dunque, fin dall’antichità gli artisti si sono sempre confrontati con il mondo del vino, dipingendo momenti di vendemmia, brindisi e scene con il dio Bacco come protagonista. Il vino quale simbolo di piacere e convivialità è divenuto un tema comune nelle arti Visive, sia che si tratti di pittura, scultura o fotografia. Ed iniziamo ora un breve excursus sul vino nell’arte.
Le prime testimonianze di vino nell’arte pittorica sono reperibili nelle rappresentazioni bidimensionali (bassorilievo e pittura) dell’arte antica egizia, che ha origine intorno al IV millennio a.C.
Nell’arte antica egiziana il vino aveva un importante valore sacrale, curativo e persino di corredo funebre, come testimoniato dai vinaccioli d’uva reperiti nelle tombe egizie. Il vino in Egitto era onnipresente nelle feste dedicate a Osiride, dio del vino, dei veri e propri banchetti alcolici di cui affreschi e bassorilievi dell’arte egizia ne conservano la memoria.
Inoltre, l’arte egizia fu la prima a raffigurare, nei muri delle tombe, scene di forme di allevamento della vite ma anche la vendemmia e la vinificazione, come si può vedere nelle Scene di Vendemmia che si trovano nella parete ovest della Tomba di Nakht nella necropoli tebana di Sheikh, dinanzi a Luxor, risalenti al 1550-1291 a.C. durante il Nuovo Regno, che ci restituiscono l’immagine di contadini che raccolgono l’uva in un rapporto diretto e bellissimo con il mondo della natura. E dopo gli egizi, il tema del vino troverà un grande riscontro anche nell’arte greca e romana.
Intorno all’anno VIII-VII a. C. il vino influenzerà fortemente la cultura ellenica, acquisendo nell’ambiente culturale dell’antica Grecia una ritualità molto marcata.
Una delle massime espressioni del vino nell’arte greca è rappresentata dall’Arte Vascolare Ellenica.
Sono infatti innumerevoli gli esempi di Crateri (kratḕres), ovvero grandi vasi e anfore utilizzati nei Simposi (incontri fra persone dello stesso ceto sociale che avvenivano solitamente dopo un banchetto, durante il quale si approfittava per discutere di temi politici e per scambiarsi opinioni), per mescolare e diluire vino e acqua, raffiguranti immagini legate al vino e al suo consumo.
Un esempio è dato da un Cratere del VI secolo a.C., di autore ignoto, conservato all’ Ashmolean Museum, Oxford, che raffigura due giovani che si servono da un cratere, del vino mescolato con l’acqua. E ancora un cratere a figure rosse, della fine del VI sec. a.C. in cui vediamo una scena di Kómos, dove per Komos si intendeva un corteo rituale, a piedi o su carri, durante il quale i partecipanti si abbandonavano a un’atmosfera di ebbrezza, a espressioni di sfrenatezza e baldoria, sottolineate da canti, accompagnate dalla musica dell’aulos (flauto), della lira e della cetra.
In questo cratere è raffigurato un uomo che offre del vino ad una donna mentre un terzo uomo sta suonando un aulos, ossia un flauto. Va detto poi che si deve ai Greci il culto di Dioniso che conferì al vino una connotazione divina, e che ha ispirato l’immagine del vino nell’arte classica.
E fu proprio grazie all’influenza della cultura greca che la divinità etrusca di nome Fufluns assunse tutti gli attributi del Dio greco Dioniso. Da fonti storiche si sa che il culto di Fufluns-Dioniso fosse già presente a Vulci nel V sec. a.C. in relazione alla coltivazione della vite, attività che rivestiva grande importanza nell’economia cittadina.
Gli Etruschi producevano un vino giallo dorato, aromatico e molto profumato.
Nella cultura etrusca, in effetti, il vino ebbe un notevole rilievo, sia nei sacrifici rituali in onore degli dèi, compiuti dal sacerdote sull’altare, sia nei banchetti dei vivi che in quelli dedicati ai defunti di nobile stirpe.
E il vino si esalta così sui sarcofagi etruschi in cui i defunti hanno spesso una coppa in mano per brindare alla vita passata ed all’eternità che si apre dinanzi a loro come anche nelle scene di banchetto dipinte a colori vivaci sulle pareti delle tombe etrusche, con i defunti che lo sorseggiano mentre ammirano le danze e gli spettacoli con i quali rallegravano le loro cene, come si può vedere nella Tomba dei Leopardi, Necropoli etrusca dei Monterozzi, Tarquinia, 473 a.C. Dagli Etruschi il vino giunge a Roma, e diviene il presupposto di tutte quelle abbondanti suppellettili da banchetto che venivano disposte sui tavoli accanto ai letti tricliniari, con coppe, crateri e brocche di svariati materiali.
L’iconografia greca di Dioniso, tramandata dai romani con il nome di Bacco, corrisponde a un giovane indolente e dai tratti androgini come si può vedere nel Dioniso che riposa su un’erma, copia romana del 150 d.C. basata su un originale greco, conservata al Museo del Prado (le erme erano piccole colonne di sezione quadrangolare, di altezza variabile tra 1 e 1,5 m, sormontate da una testa scolpita a tutto tondo che nell’antica Grecia, raffiguravano Ermes, collocate lungo le strade, ai crocevia, ai confini delle proprietà e dinanzi alle porte per invocare la protezione di Ermes, cui veniva attribuita, fra le altre cose, la protezione dei viandanti).
Andando avanti nel tempo vediamo come nel Medioevo, l’agricoltura e la viticoltura conobbero un periodo di decadenza e le dominazioni Arabe nel sud Europa (600-1000 d. C.) causarono un ulteriore ridimensionamento del vino e della sua rappresentazione nell’arte, con la messa al bando della viticoltura in tutti i territori occupati. Sebbene l’anticlassicismo dell’arte medioevale ricusò il patrimonio dell’iconografia classica legata all’esaltazione dell’ebbrezza conferita dal vino, il monachesimo si fece custode della viticoltura e della sua inedita rappresentazione artistica nei Tacuina sanitatis, dei manuali di scienza medica scritti e miniati dalla seconda metà del 1300 al 1450 circa, che descrivevano, sotto forma di brevi precetti, le proprietà mediche di ortaggi, alberi da frutta, spezie e cibi, riportandone i loro effetti sul corpo umano e il modo per correggerli.
Inoltre il vino entrò a far parte della liturgia dell’eucaristia permettendo il mantenimento della tradizione viticola da parte dei monaci come ci testimoniano le immagini della viticoltura nell’arte delle miniature. La prima immagine che vediamo, Mescita di vino rosso, è tratta dal Tacuinum Sanitatis conservato nella Biblioteca Casanatense di Roma. Realizzato nel sec. XIV per il re Venceslao di Lussemburgo è impreziosito da vivaci figurazioni policrome eseguite da Giovannino de’ Grassi che illustrano, vigne, tavole d’osteria, botti, boccali, bicchieri e brente, ossia i grossi bigonci di legno portati sulla schiena e assicurati con cinghie di cuoio usati per il trasporto del vino e del mosto nell’Italia settentrionale, insaziabili bevitori che s’ingollano da un mastello di vino o da un barile.
Le miniature realizzate nei monasteri ponevano l’accento non più sull’estasi legata al vino, ma sul lavoro in vigna, la vendemmia e vinificazione. L’immaginario edonistico ed epicureo del vino fu quindi sostituito dal principio dell’Ora et labora d’ispirazione benedettina, come si può vedere nella seconda immagine, una miniatura dal titolo Autunno, tratta dal manoscritto Tacuinum sanitatis del XV secolo, conservata nella Bibliothèque nationale de France, Parigi.
La viticoltura e il vino nell’arte pittorica ritrovarono la loro centralità con l’età dei comuni grazie agli sviluppi e innovazioni tecnologie verificatesi in campo agricolo.
Questo processo di sviluppo e crescita economica favorì un crescente recupero dell’iconografia del vino dell’arte classica, creando le premesse per un nuovo umanesimo.
Con il Rinascimento torna in auge il piacere dei sensi. L’“iconoclasta” iconografica classica dovette attendere il Rinascimento per ritrovare un proprio spazio su tele e affreschi, con Dionisio che torna a esser musa di artisti quali Michelangelo, Tiziano e poi Caravaggio.
Vino e arte tornano a simboleggiare raffinatezza ed edonismo, compiacendo l’aristocrazia, casato dei Medici in primis, che si fecero infatti mecenati e promotori del recupero del culto del vino d’ispirazione classica, come esemplificato dal famoso componimento poetico di Lorenzo il Magnifico Il trionfo di Bacco e Arianna, ispirato alla filosofia del ‘Carpe Diem’ di Orazio.
Tra il 1400 e il 1500 vi sono innumerevoli testimonianze di opere dedicate a Bacco, tra cui la famosa statua marmorea di Michelangelo Buonarroti, realizzata nel 1496-97, un Bacco che fa fatica a stare in equilibrio, sbilanciato a causa dell’ebrezza; un Bacco che solleva la gamba destra per fare un passo incerto e deve appoggiarsi al satiro per non cadere. L’ebbrezza è evidente anche nel suo corpo: i muscoli sono morbidi, non definiti e il ventre è gonfio. Inoltre, la testa è ruotata verso sinistra, ma lo sguardo di Bacco va in direzione opposta, è rivolto verso la coppa di vino che desidera continuare a bere.
Abbiamo poi il Bacco e Arianna di Tiziano, un olio su tela realizzato da Tiziano, tra 1520-1523, conservato nella National Gallery di Londra.
L’opera, realizzata per lo Studiolo di Alfonso d’Este, si rifà agli scritti di Ovidio e Catullo e ci racconta il momento in cui il dio Bacco si innamora della giovane Arianna appena abbandonata da Teseo.
Tiziano sceglie di raffigurare Arianna girata di spalle, mentre piena di tristezza saluta la nave di Teseo che si allontana all’orizzonte. Tuttavia la giovane principessa gira il volto verso destra come stregata da un corteo piuttosto bizzarro da cui emerge il dio Bacco. L’opera di Tiziano, festosa e allegra è un richiamo alla classicità ed alla mitologia greca richiamo che non è mai né pesante né oneroso, poiché si tratta di una gioiosa reinterpretazione dell’antichità.
Ma la quintessenza dell’Iconografia tradizionale di Bacco è il famoso Bacco di Caravaggio del 1596-1598, commissionato da Francesco Maria Bourbon e dedicato a Ferdinando I de’ Medici. L’opera, che oggi si può ammirare agli Uffizi, è una rappresentazione tanto bella quanto originale di Bacco, il dio romano del vino e dell’ebbrezza. Il Bacco di Caravaggio presenta il dio sdraiato su un letto a triclinio posto accanto a un tavolo, dove trionfa un cestino di ceramica pieno di frutta.
Bacco rivolge lo sguardo all’osservatore e gli mostra un delicato calice di vetro colmo di vino rosso, appena versato da una bottiglia anch’essa di vetro posta lì a fianco.
Il dipinto si inserisce nella serie giovanile delle mezze figure dipinte “in chiaro” che annovera opere come il Fanciullo morso dal ramarro. La scultorea figura di Bacco, dall’espressione stordita dal vino è esemplata su modelli dell’arte classica. Alcuni critici hanno letto in quest’opera una particolare visione dell’antichità inneggiante alla libertà dei sensi ed un riferimento ai riti iniziatici ed ai travestimenti bacchici che si praticavano a Roma.
Secondo un’altra parte della critica Caravaggio in questa tela, prendendosi gioco della gloriosa tradizione classica e rinascimentale, facendosi beffa del pubblico, avrebbe ritratto un suo amico un po’ stordito dai fumi dell’alcol, chiedendogli di tenere in mano un bicchiere di vino e posando davanti a lui della frutta di qualche giorno. Tuttavia, che si tratti di una semplice rappresentazione di uno scherzoso travestimento o di un inno alla libertà dei sensi, questo dipinto visualizza il grande realismo della pittura di Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Con il Barocco l’ispirazione classica si evolve, acquisendo una più complessa introspezione psicologica. A tal proposito, da menzionare il Baccanale: fauno molestato da cupidi del Bernini (scultura), un’intricata scultura in marmo composta da cinque figure che raffigura uno spensierato combattimento tra un fauno e due putti. Si noti la tensione dei muscoli del fauno, i putti paffuti, la corteccia dell’albero e il grappolo di frutti succosi. Ispirata ad antichi sarcofagi, questa scena bacchica mostra la fusione di classicismo e naturalismo tipica dell’arte a Roma alle soglie del Barocco.
E ancora i Satiri di Pieter del celebre pittore fiammingo Pieter Paul Rubens, uno dei giganti della pittura.
Per Rubens i temi mitologici erano l’occasione per stimolare la propria fervida inventiva. Il tema dei satiri, abitanti leggendari di boschi e montagne, oltre che entità legate al tema della fertilità, viene ripreso in diverse tele, di cui la presente è forse la più celebre e straordinariamente incisiva. Un satiro sogghignante e dallo sguardo mefistofelico è ritratto in primo piano. Tiene in mano un grappolo d’uva, allusione al piacere del vino che un secondo satiro dietro di lui sta gustando da una coppa. Il satiro, entità dalle fattezze umane ma con tratti caprini, porta delle corna; si noti la posizione delle dita che tengono l’uva e che richiamano le stesse corna. Questa tela ci trasmette tutta la carnalità della pittura di Rubens: non solo quella dei corpi ma anche la sensorialità dell’uva e del vino.
E poi il Trionfo di Bacco di Velázquez che mostra Bacco circondato da ubriachi. Il dio del vino è qui rappresentato come una persona al centro di una piccola festa, dalla pelle particolarmente pallida che lo distingue dal resto dei personaggi. Il Bacco di Velázquez è il dio che premia o dona vino agli uomini, alleviandoli dai loro problemi. Nella letteratura barocca era infatti considerato un’allegoria della liberazione dell’uomo dalla schiavitù della vita quotidiana.
Ancor più libero dal classicismo, il Bicchiere di vino, del 1659-1660, dell’olandese Jan Vermeer.
L’opera raffigura una donna che sorseggia del vino da un bicchiere di vetro e un uomo, al suo fianco, pronto a riempirle nuovamente il calice. Sulla sedia in primo piano si può osservare uno strumento musicale. Da fine Seicento e per tutto il 1700 musica e vino erano due elementi attorno ai quali ruotavano le “conversazioni amorose”. Vermeer, nei suoi dipinti, amava far risaltare gli stati d’animo e le emozioni dei protagonisti, il loro rapporto psicologico.
La donna, col volto parzialmente coperto da velo e dal bicchiere, pare schivare le attenzioni dell’uomo: un invito dell’autore Vermeer al pudore amoroso e alla moderazione nel consumo del vino. Messaggio che si ritrova nella figura femminile raffigurata sulla vetrata piombata: la Temperanza.
E il vino continua a giocare un ruolo speciale nel campo dell’arte anche nel 1700.
Un esempio è quello del dipinto di Giacomo Ceruti, detto Pitocchetto (1698-1767), Gli spillatori di vino del 1730 circa. La sua arte si inserisce nel filone di un realismo di matrice caravaggesca, realismo vivo e maturo che troviamo negli Spillatori di vino.
La composizione si presenta come un’istantanea: il giovane spillatore, piegato sulle ginocchia davanti alla botte, sembra essersi voltato di scatto avvertendo la presenza di qualcuno.
Il cromatismo ed i toni tenui di luce ingentiliscono il mondo degli umili. Le mani, ad esempio, o i capelli del ragazzo rivelano una delicatezza che sembra ringiovanire i protagonisti. Del resto nelle opere del Ceruti la povertà appare una sorta di stato spirituale. La povertà perde i connotati della privazione e appare un valore positivo.
Un tratto caratteristico di questo pittore bresciano che conferisce una certa modernità alla rassegnata tristezza di tante raffigurazioni dell’epoca.
Sia nel Barocco che nel Settecento vino e uva ricorrono spesso nelle nature morte di pittori italici quali ad esempio Caravaggio nel Seicento e Bartolomeo Bimbi nel Settecento.
Vino, vita bucolica, nature morte, imperverseranno anche nel Neoclassicismo, tra Settecento e Ottocento, con un ritorno anche dell’iconografia dionisiaca.
Interessante a tal proposito il dipinto del rumeno Adolf Humborg del 1876 dal titolo Due monaci in cantina in cui ritrae due monaci in cantina, di cui uno intento ad assaggiare il vino e l’altro a riempire una caraffa. Perché non solo il popolo o la nobiltà ma anche il clero produceva e godeva delle bontà del vino. Se Humborg nel suo dipinto evidenzia il piacere dei 2 religiosi nel degustare il vino, così non è per Henri de Toulouse-Lautrec nel suo Postumi di sbornia del 1887-1889 dove pone l’accento sugli effetti devastanti del vino sulle persone. E di persone in fase post sbornia Toulouse-Lautrec ne ha viste molte, lui che si rifugiava in un mondo equivoco fatto di barboni, ubriachi e reietti, un luogo in cui potersi confondere e sentirsi normale nonostante le deformazioni fisiche. In questo olio su tela l’artista riesce a farci immergere, grazie al cromatismo ed alla forza dei tratti, nello sguardo struggente e meditabondo di una giovane che sta vivendo i postumi di una serata a bere vino.
Molto bello anche il dipinto di Paul Cézanne, Il bevitore del 1891, in cui il Bevitore sembra spogliato dalla sua umanità, privato della luce dello sguardo, a cui si contrappone la tangibilità della bottiglia di vino e del frutto. La vista dell’osservatore, pur concentrandosi sul bevitore, è come catturata dagli elementi presenti sul tavolo dove la luce colpisce la massa di colore chiaro del piano. Non più il vino come ebrezza e piacere, ma come compagno con cui condividere la solitudine. Passiamo ora alla Baccante, un olio su tela realizzato nel 1894 dal pittore francese William-Adolphe Bouguereau. In un giardino, all’ombra di un albero è ritratta una ragazza vestita con un peplo e coperta da un morbido mantello, con in testa una corona di edera, che, con uno sguardo dolce ma al contempo ammiccante rivolto verso lo spettatore, pare voglia offrire al suo interlocutore una coppa di vino. Il tema mitologico delle Baccanti scelto da Bouguereau viene interpretato in chiave moderna con un’enfasi sul corpo umano femminile, la cui morbidezza delle forme, di matrice raffaelliana (Bouguereau amava moltissimo l’arte di Raffaello), si coniuga con una eleganza ed una raffinatezza senza tempo.
Dopo l’excursus dedicato alla produzione classica, torniamo a parlare del binomio vino e pittura guardando all’arte moderna e contemporanea. A partire dal 1900 la presenza del vino nell’arte figurativa ha intrapreso percorsi molto eterogenei e non (accomunabili), affrancandosi dalla prassi d‘iconografie classiche e stereotipate.
Molti artisti si sono cimentati a raffigurare con proprio stile bottiglie di vino: si possono citare per esempio quelle di Claude Monet nell’impressionismo, di Joan Miró nel Surrealismo, di Picasso nel Cubismo e di de Chirico e Giorgio Morandi nella Metafisica.
Il vino nell’arte acquisisce quindi una propria dignità legata in primis alla sensibilità artistica dell’autore, alla sua personale interpretazione e legame intimo con esso.
Vediamo ora la bellissima opera del 1924 del surrealista Joan Miró dal titolo La bottiglia di vino.
Questo dipinto è un perfetto esempio di astrazione surrealista. La bottiglia immersa in un contesto rurale dai tratti fantastici, nel quale si possono riconoscere figure zoomorfe e segni, appare come unico elemento concreto. La bottiglia trasparente sembra fluttuare nello spazio insieme ad un serpente e a un insetto volante. Sull’etichetta è riconoscibile in grande la scritta “VI” dal possibile doppio significato di vino (vin) e vita (vie), dualismo che si sposa perfettamente con l’idea dell’autore di fusione metaforica tra arte e vita, un aspetto chiave del movimento surrealista.
Nel sognatore Mirò la bottiglia di vino incarna il desiderio di libertà, di librare per l’aria liberi dai vincoli del quotidiano.
Ma anche il rivoluzionario Pablo Picasso ha dedicato diverse sue opere al vino, particolarmente nel suo periodo cubista. La bottiglia di vino è una di queste, forse la più famosa, diventata una delle icone pittoriche dedicate al frutto di Bacco. Nel periodo in cui la dipinse, l’autore era uno dei tanti artisti che si incontravano nei bar con altri famosi intellettuali, delle più svariate avanguardie, per confrontarsi; bevendo vino, Champagne e Assenzio. Questo dipinto, come numerosi altri del celebre pittore spagnolo, riflette i temi e le preoccupazioni più intime dell’autore, che al tempo stesso però amava la vita e i godimenti che essa era in grado di offrirgli. Il suo linguaggio artistico, volutamente innovativo e anticonformista, rompe coi canoni estetici e col gusto espressivo di tanti suoi contemporanei.
La bottiglia di vino, al centro della composizione, non è facilmente riconoscibile, se non per l’etichetta bianca con la scritta “ViN”, “affogata” in un insieme di sagome geometriche, dagli eccentrici cromatismi. Gli elementi di spicco sembrano essere una essenziale natura morta, uno spartito musicale e una chitarra destrutturata; quasi a voler riprendere, in chiave ultramoderna, temi già affrontati dai suoi predecessori, ma con un piglio assai più convenzionale e di maniera. Difatti il nocciolo duro del cubismo è stato il suo rifiuto dei convenzionalismi, dirigendo e focalizzando il suo sguardo verso l’illusionismo, giocando con la scomposizione delle strutture figurative, in un alternarsi di bi e tridimensionalità, creando così, volutamente, una sorta di straniamento da parte dell’osservatore.
Chiudiamo questo viaggio nel mondo del vino nell’arte con l’opera del futurista Fortunato Depero Riti e splendori d’osteria del 1944. L’artista in questo grande dipinto a olio su tavola restituisce il gusto di una vita dai piaceri semplici, dove stilizzate figure maschili brindano tra fiaschi e calici alzati in una scena tuttavia non priva di una certa aulicità celebrativa. Non va dimenticato, infatti, che l’opera di Depero si colloca in un periodo storico nel quale il vino, prodotto tipicamente italiano, rappresenta un sicuro punto di forza dell’economia nazionale. Il nettare di Bacco viene così sottolineato nei suoi soli aspetti positivi, simbolo di calore, di passione, di fratellanza, di piacere e di sensualità, mediatore verso ogni libertà espressiva, arte inclusa.
Giocato su freddi toni cromatici (verdi, violacei e marroni spenti), paradossalmente il vino in sé non è però al centro dell’attenzione dell’opera. È l’atto del bere il vero protagonista, enfatizzato dalle braccia piegate nel gesto dei bevitori e dalle mani che afferrano saldamente i bicchieri, mentre una certa rigidità delle solide forme, percorse da geometriche linee verticali e oblique, smorza in parte il senso di conviviale euforia del dipinto. Depero dipinge così il suo Inno al vino, alimento che deve, come tutto il cibo “futurista”, “eccitare la fantasia prima ancora di tentare le labbra” (Fisiologia del gusto, Anthelme Brillat-Savarin). Pur se i futuristi presero le distanze dal cubismo, tuttavia quest’ultimo, soprattutto quello essenziale di Picasso, non appare del tutto rinnegato, a conferma di quella personale e originale sintesi tra futurismo, cubismo, orfismo e astrattismo. Da notare un singolare dettaglio: fra i bevitori ve ne è uno, che osserva il calice in controluce, quasi a voler precorrere il moderno approccio alla degustazione.
Nel corso della storia, e la storia del vino è una storia molto lunga, molti grandi artisti, tra cui pittori, scultori e fotografi, hanno trovato ispirazione nel vino e lo hanno rappresentato in modo unico e affascinante nelle loro opere. Essi hanno utilizzato il vino come soggetto principale o come elemento secondario nelle loro opere, rendendo omaggio alla sua bellezza, eleganza e spiritualità. Dalle opere di Caravaggio alle creazioni di Picasso, il vino ha ispirato molti grandi artisti, rendendo questo tema uno dei più ricchi e affascinanti dell’arte visiva. Questo excursus di opere del vino nell’arte testimonia l’importanza che il vino ha avuto in moltissime culture e in moltissime epoche. Un punto fermo e indissolubile della storia dell’uomo.
Oltre tremila anni di storia dell’arte con il vino a farla da protagonista.
Come lo è del resto sulle nostre tavole, perché il vino è arte pura.
Altro il vino non è se non la luce del sole mescolata con l’umido della vite” (Galileo Galilei)