Minima Cardiniana 442/1

Domenica 26 novembre 2023, Cristo Re
(ultima domenica dell’anno liturgico romano)

EDITORIALE
STATO D’ASSEDIO
L’assurda, allucinante, demenziale vicenda del martirio subìto dalla città palestinese di Gaza sotto la duplice fèrula d’una rappresaglia-vendetta imposta da un democratico tiranno essenzialmente per ragioni d’una per fortuna molto improbabile sopravvivenza elettorale (ma la Corte Suprema d’Israele lo aspetta al varco) e di un teorema militare a proposito della “città sotterranea” che ad essa sarebbe sottostante e senza la distruzione della quale sarebbe impossibile eliminare Hamas (eppure, in tema di “microchirurgia antiterroristica di precisione”, i servizi israeliani avevano dimostrato più volte un’ammirevole perizia: si pensi al caso del generale iraniano Soleimani) ha tra l’altro avuto il tragico” merito di risollevare l’annosa polemica sulla storia degli assedi, il loro valore nodale sotto i profili militare e politico, le tattiche e le strategie che in un’impressionante dinamica si sono presentate al riguardo nella storia.
Riassumiamo e ripercorriamo il tema.
Lo “stato d’assedio” è una costante d’antichissima data nella storia del genere umano. Certo, vi sono vari tipi di assedio. Quello “classico-western” dei pellerossa che volteggiano abilissimi a cavallo attorno al cerchio di carri dei coloni in marcia verso il Far West è uno di essi, a noi cinematograficamente caro; quelli economici tipo le sanzioni decretate dalla Società delle Nazioni del 1935 all’Italia o, in tempi più moderni, quelle degli USA e dei suoi alleati contro Russia, Iran o Cuba – e tutti alquanto maldestri, a non voler dire di peggio – sono di un altro tipo. Ma, quando pensiamo agli assedi veri e propri nella storia, ci muoviamo su un arco diacronico immenso che dalla guerra di Troia del XIII sec. a.C. ca. arriva agli assedi tedeschi di Leningrado e di Stalingrado del 1941-44. Una tipologia molto varia, una fenomenologia impensabilmente complessa: dalla storia delle quali emergono tuttavia alcune costanti che riguardano quanto meno l’antichità (non solo occidentale), il medioevo e la storia afroasiatica fino all’invenzione e all’uso sistematico dell’artiglieria a polvere e quindi ai giorni nostri.
Dello snodo tra medioevo ed età moderna si è occupato, per esempio, Duccio Balestracci: medievista dell’Università di Siena, studioso soprattutto di istituzioni e di strutture territoriali senesi e toscane ma anche di viaggi e di storia socioculturale. E specialmente di città e di guerre, magari di battaglie quali la fatidica Montaperti. E storico appassionato della “sua” Siena, del “suo” Palio.
Del libro di Balestracci Stato d’assedio. Assedianti e assediati dal medioevo all’età moderna (Bologna, il Mulino, 2021, pp. 376, euri 25) quel che colpisce è l’ampiezza della prospettiva accompagnata dalla profondità e varietà di analisi, sempre difficile in un lavoro che, per definizione, si presenta come “di sintesi”. Il libro è centrato con sicurezza sui secoli che vanno dal basso medioevo alla fine del XVIII secolo, ma si avventura con piglio sicuro in una serie di confronti – talora puntuali, talaltra squarci arditi e rivelatori – con episodi dell’antichità e dei tempi a noi più vicini. In fondo, tutti noi ricordiamo il recente martirio di Sarajevo e avremmo reagito con qualche disagio, se non addirittura con delusione, dinanzi a un libro che – pur occupandosi di altre fasi della storia e di altri scenari – non gli avesse dedicato almeno qualche parola. E che dire di Stalingrado, di quell’immenso “albero del sacrificio” richiamato da una delle più appassionate e commosse poesie di Pablo Neruda?
Il taglio adottato da Balestracci è comunque ardito e generoso. Senza dubbio, il terminus ad quem è, tecnicamente, costituito dal cannone e dalla polvere da sparo, ai quali si risponde col passaggio dalla cortina muraria alla bastionatura (una rivoluzione anche estetica e culturale, oltreché tecnica ed architettonica). C’è poi la differenza tra assedio da terra e assedio dal mare, tra assedio lungo (o lunghissimo) e assedio relativamente breve; e tra i contesti e le condizioni del suo successo, quando (abbastanza raramente) esso riesce. Ché, di solito, città e fortezze cadono per fame o per tradimento: come già diceva Filippo di Macedonia, padre del grande Alessandro, non c’è muraglia tanto ben costruita da non presentare nemmeno il piccolo passaggio di un asinello carico d’oro. Più raro che vengano conquistate. E una dura contesa, magari implicita, si stabilisce al riguardo negli eserciti assedianti tra i comandanti, i quali hanno tutto da guadagnare da una città che si arrenda loro restando sostanzialmente intatta e dalla quale si può guadagnare in sede di accordi e una che venga presa d’impeto e sottoposta da parte delle truppe assedianti all’ambìto saccheggio con relativi stupri.
In questa lunga ma assolutamente non monotona analisi di assalti e di sortite, di mine e di contromine, di fame e di sete, di precarie o proibitive condizioni igieniche, di epidemie e di “guerra psicologica” (dalle teste degli ostaggi decapitati dagli assalitori catapultate entro le mura sugli assediati fino alle fake news) non mancano i grandi protagonisti: uno soprattutto. La paura. Quella di chi assedia e di chi è assediato: prima, durante e dopo, dal momento che una città posta sotto assedio, quando esso viene levato, comincia immediatamente a pensare al prossimo che verrà.
La tavolozza dell’affresco fornito da Balestracci è ricchissima: le tattiche messe in opera da assedianti e assediati, i mezzi e gli strumenti d’attacco e di difesa (macchine d’assedio, proiettili, gallerie-“mine”; ma anche la guerra psicologica, le beffe e le minacce, gli epiteti e gli stratagemmi, le crudeltà a scopo intimidatorio e quelle fini a se stesse).
Il libro ha suscitato a suo tempo un denso dibattito, fra i protagonisti del quale si sono annoverati storici illustri. Come Alessandro Barbero, uno che di battaglie – da Adrianopoli a Lepanto a Waterloo a Caporetto – se ne intende, il quale ha osservato che negli assedi come nelle battaglie si vince non tanto combattendo, quanto convincendo i nemici che hanno perduto: dentro la città assediata la paura domina gli animi dal momento in cui si comincia a pensare a che cosa succederà se e quando i nemici irromperanno travolgendo le difese; fuori incombe l’incubo della morte orrenda alla quale si può andare incontro sotto le mura. E Antonio Musarra ha aggiunto che si può parlare di una “prospettiva balestracciana”, nel modo in cui lo storico senese riesce a cogliere l’esistenza di costanti tra periodi storici diversi tra loro per aiutare a capire il modo in cui emozioni individuali o collettive come la paura si ridefiniscono ogni volta.
Il discorso è adesso maturo per chiederci: quale tipo di lezione storica, tattico-strategica, logistica, tecnologica, diciamo pure – last, but not least – etica e politica possiamo trarre dalla tremenda lezione di Gaza? Quali ne saranno gli effetti prossimi e anche lontani? È forse ancora presto per tirare le somme: ma proviamo ad allineare qualche dato provvisorio.
La tattica d’assedio si divide in due grandi scelte di fondo, ciascuna delle quali ha un certo numero di variabili: o si assale l’obiettivo o ci si dispone attorno ad esso per circondarlo e obbligarlo ad arrendersi appena avrà finito le scorte di rifornimento. Non prendiamo qui in considerazione gli obiettivi conquistati per immissione di agenti, per tradimento eccetera. Consentitemi di richiamare due esempi che mi sono molto familiari, trattandosi di episodi molto noti tratti dalla storia delle crociate: l’assedio dei crociati alla Gerusalemme occupata dai musulmani il 15 luglio 1009 e quello dei saraceni alla guida dei quali era l’emiro Yusuf ibn Ayyub Salah ed-Din tra il luglio e il settembre del 1187.
Questo secondo evento è stato purtroppo rinarrato da Ridley Scott in uno scellerato film da lui dedicato alla crociata dove la lunga, spaventosa sequenza dell’assedio s’ispira principalmente a quella del celebre analogo episodio dell’assalto delle forze del Male a Minas Tirith nella pellicola ispirata al Signore degli Anelli di Tolkien. In realtà, attorno a Gerusalemme nell’estate del 1187 non successe niente. Il Saladino fece circondare la città e attese pazientemente che gli assediati, esaurite le scorte d’acqua accumulate nelle cisterne, si arrendessero: dopo di che ne permise l’evacuazione senza torcere un capello a nessuno.
Era necessaria la distruzione di Gaza per snidare Hamas? Militarmente, no: tantopiù che gli israeliani conoscevano perfettamente l’ubicazione delle uscite del complesso sistema di tunnel che ne percorre il sottosuolo e che erano tutte sotto il loro controllo a parte quelle situate a sud, in corrispondenza con la frontiera egiziana, dove le truppe di al-Sisi avrebbero dal canto loro impedito l’esodo sia dei miliziani di Hamas sia degli sventurati abitanti. D’altronde, Netanyahu e i comandanti militari israeliani sapevano benissimo che eliminare anche fisicamente tutti i dirigenti e i membri di Hamas presenti in Gaza e nel suo sottosuolo non avrebbe determinato l’estinguersi di quel sodalizio che solo riduttivamente si può definire “terroristico” (è difatti anche ben altro), mentre – a dirla usando la celebre locuzione con la quale Tertulliano alla fine del II secolo d.C. indicava gli effetti delle persecuzioni dei cristiani da parte dell’autorità imperiale romana – “il sangue dei martiri sarà seme di nuovi fedeli”: quel che i nostri media evitano in effetti accuratamente di dirci (ma ce lo racconteranno tra non molto abbondando in tragici particolari, per descriverci l’ondata di attentati che probabilmente colpirà l’Occidente e che sarà superficialmente attribuita a un “rigurgito di terrorismo”, mentre rappresenterà la vendetta per l’azione sanguinosa ordinata da Netanyahu nell’intento di risalire la china della sua rovina politica) è l’esplosione della rabbia dei popoli arabi e musulmani a causa delle migliaia d’innocenti (tra cui moltissimi bambini) che costituiscono il costo di una distruzione che ci ha fatto rischiare fra l’altro un’estensione del conflitto dagli esiti imprevedibilmente gravi.
Israele, i servizi del quale sono abili ed efficacissimi quando si tratta di “eliminazioni mirate”, avrebbe potuto eseguire chirurgicamente la sua rappresaglia per il 7 ottobre in un modo che forse non avrebbe soddisfatto le rumorose, iraconde voglie di vendetta delle destre, ma che si sarebbe rivelata (e nemmeno in tempi troppo lunghi) molto più vantaggiosa pe la sua causa e per il ristabilimento di quel precario equilibrio vicino-orientale che adesso è forse irresistibilmente compromesso. La memoria delle vittime israeliane di un atto terroristico a proposito del quale ci si chiede ancora (senza ricevere adeguate risposte) come si sia potuto verificare senza che la sua evidentemente lunga e meticolosa preparazione trapelasse in qualche modo e senza che il raduno musicale dei giovani israeliani in un’area tanto vicina alla città palestinese – il che poteva far pensare a una vera e propria provocazione – non fosse stato adeguatamente protetto sotto il profilo militare (e il fatto stesso che fosse stato autorizzato in quella località e nel contesto di quelle circostanze desta sospetti) si sarebbe aggiunta alla costante memoria della shoah per provocare nel mondo intero un’ondata di simpatia e di solidarietà nei confronti d’Israele della quale lo stesso Netanyahu si sarebbe giovato: gli estremisti che lo sostengono lo avrebbero senza dubbio accusato di debolezza, ma il resto del suo popolo e del modo intero si sarebbe stretto attorno a lui, avrebbe lodato la sua prudenza politica e la sua moderazione umanitaria, gli avrebbe consentito di portar avanti la sua repressione del terrorismo con mezzi che sarebbero stati unanimemente giudicati corretti e legittimi. Tantopiù che l’atroce 7 ottobre poteva sembrare molto tempestivo per favorire la sua immagine politica, sfiorata tuttavia dall’ombra di un sospetto generato dalla logica del Cui prodest?
Ma “Bibi” si sente costantemente minacciato dallo spettro della Corte di Giustizia del suo paese; aveva fretta, ed ha scelto un’azione “forte” che avrebbe avuto un effetto demagogico tra i suoi sostenitori e i cui possibili esiti in termini di situazione precipitata e di conflitto allargato avrebbero lasciato la parola alle armi in un contesto di scontro aperto dagli esiti largamente e fatalmente favorevoli a Israele il cui esercito non è adatto ai conflitti prolungati, ma la cui rete di alleanze internazionali avrebbe indotto a scendere in campo quelle forze ad esso alleate e disposte a tutelarlo a qualunque costo. Gli USA e la NATO. Il collegarsi della crisi che ne sarebbe scaturita con il conflitto che possiamo riduttivamente continuar a definire “russo-ucraino”, che è uscito dalla scena mediatica del momento ma continua a sussistere, nella migliore delle ipotesi non avrebbe turbato il signor Netanyahu, convinto che la tragedia si sarebbe conclusa comunque a suo favore. La pace subito è l’unica risposta possibile e, al tempo stesso, suscettibile di vanificare i suoi ipotetici piani criminosi e di affrettarne il giorno del redde rationem di fronte all’Alta Corte di Giustizia del suo paese e alla parte dell’opinione pubblica mondiale magari mediaticamente costretta quasi con la forza all’afasìa dall’arrogante ondata di conformismo che sembra oggi sommergere l’Occidente, ma senza dubbio più saggia. È ovvio che a tale proposta egli e i suoi complici si opporranno con tutte le forze.