Minima Cardiniana 443/4

Domenica 3 dicembre 2023, Prima Domenica d’Avvento

UN TEMA DA MEDITARE MENTRE SI ALLESTISCE IL PRESEPIO
FRANCESCO. IL SUO MESSAGGIO PER L’OGGI
Francesco d’Assisi. Ma chi era davvero?
“Perché a te? Perché a te? Perché a te?”. Francesco è di ritorno dal boschetto presso la Porziuncola, nella piana sotto Assisi: il suo luogo prediletto di meditazione, di ritiro, di preghiera. La fraternitas di poveri penitenti assisani ch’egli ha voluto raccogliere attorno a sé, o che attorno a lui si è raccolta, è già consolidata; e la Chiesa, dopo qualche non lieve perplessità, ha consentito che si costituisse e si stabilizzasse fino a divenire un Ordine. Non sarà mai chiaro se e fino a che punto egli abbia desiderato tale mutamento; fino a che punto gli abbia fatto piacere entrare nel glorioso nòvero dei fondatori di nuovi Ordini religiosi, dal momento che il Concilio Lateranense IV aveva formalmente bloccato l’istituzione di Ordini regolari di tipo tradizionale. Il fatto è che il suo sodalizio, fatto di mendicanti che hanno liberamente accettato tale condizione, è qualcosa di nuovo. Di sconvolgente.
Francesco torna al modesto alloggio dei suoi: non vuole chiamar “suo” nemmeno quello. Non vuole aver nulla di suo. Ed ecco che uno dei fratelli più cari, frate Masseo, gli si fa incontro quasi aggressivo, quasi minaccioso: “Dico perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo nel corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile; donde dunque a te, che tutto il mondo ti venga dietro?”.
Questo episodio è narrato nel X capitolo dei Fioretti: un testo difficile, tendenzioso e di solito malinteso. Una raccolta di “leggende” care e familiari a tutti noi, fin da bambini: le dolci tortorelle, le gaie rondini, il feroce lupo di Gubbio convertito alla mansuetudine. Un libro in apparenza ingenuo ed innocuo. In realtà, si tratta di pagine sempre impegnate e “schierate”: talora contraddittorie, talora dure, perfino feroci. E come tali refrattarie a venir interpretate se non al rigoroso interno del loro contesto storico. Gli specialisti di cose sanfrancescane e minoritiche usano guardarle con sospetto e utilizzarle con grande cautela.
Eppure c’è un paradosso terribile e affascinante nella pagina dello sfogo di frate Masseo, in quel grido nel quale sembrano vibrare angoscia, scandalo, invidia misti ad amore. Il frate rimprovera a colui che ha pur liberamente scelto come maestro: e noi ci sorprendiamo a chiederci in che cosa mai Francesco possa essere stato maestro a Masseo che gli rinfaccia la popolarità e il successo e che per dimostrare che essi gli sono ingiustamente tributate lo rimprovera di non essere né nobile, né sapiente, né bello. Si tratta delle tre qualità che sovrintendono ai tre status della società: la nobiltà che spetta ai bellatores, la sapienza che è l’ornamento degli oratores, la bellezza e la prestanza fisica che si addicono ai laboratores. Masseo ha amato Francesco ma non lo ha compreso: e gli rimprovera adesso di non avere nulla delle cose che il mondo ama, eppure di star conquistando il mondo. Ha vissuto con lui, lo ha seguito, ha condiviso la sua vita e le sue privazioni: eppure eccolo là, a rinfacciargli di aver ottenuto quel successo mondano al quale non aveva diritto perché vi aveva rinunziato.
Quella pagina, quel gridare disperato e angoscioso che a noi sembra un misto di disappunto e d’invidia, hanno per noi qualcosa di sia pur bizzarramente anacronistico, tanto ci sono vicine. Sono di una sconcertante contemporaneità. Nel mondo dell’avere e dell’apparire, nella società dell’effimero e dello spettacolo, nessuna domanda sarebbe più appropriata se rivolta a qualcuno che effonde attorno a sé un carisma speciale e che riscuote uno straordinario successo. Uno che diventa dunque un modello, eppure non dovrebbe esserlo: un oggetto d’emulazione ma anche d’invidia e quasi di astio, di rancore. Perché a te, perché tutto il mondo ti viene dietro mentre tu affermi addirittura di non curartene, di non averlo né cercato né voluto, e appunto, perché tu affermi tutto ciò? La realtà è ancora più profonda, ancora più paradossale. Perché, o Francesco – chiede in realtà Masseo: anche se magari non si rende conto di chiederlo – tutti sono affascinati da te eppure, schizofrenicamente, sembrano seguire valori e obiettivi opposti a quello che tu con il tuo esempio indichi? Capirei – prosegue e incalza Masseo – se tu fossi bello, nobile, ricco, se cioè tu fossi coerente con quello che il mondo ama e persegue: il punto è che tu sei l’opposto e il mondo ti adora. Quel che sfugge a Masseo, tuttavia, è che può anche darsi che il mondo adori Francesco: il fatto è che non lo segue.
Otto secoli dopo, l’angosciosa domanda di frate Masseo continua a risonarci dentro. Perché a te, Francesco d’Assisi? Mai forse nella storia della Chiesa, del cristianesimo e delle religioni – o forse nella storia tout court – nessuno è mai stato tanto lodato, tanto ammirato, tanto rivendicato da tutti. Un santo per tutti i gusti e per tutte le stagioni: hanno voluto presentarci volta per volta un Francesco protestante, uno socialista, uno fascista, uno “figlio dei fiori”; e ora si vanno aggiungendo alla lista un Francesco musulmano, uno buddhista, uno ecologista, uno no-global, uno new age.
Ma diciamo la verità: non andar bene a nessuno, è una bella condanna; andar troppo bene a tutti è però forse peggio ancora. Anche perché nessuno come Francesco e nulla come il suo messaggio appaiono – appunto al giorno d’oggi – fraintesi, distorti, dimenticati, cancellati. Francesco, in apparenza ammirato e lodato, superstar, continua ad esser nella vera e profonda sostanza come lo ha ritratto Dante, “dispetto a meraviglia”: straordinariamente disprezzato da tutti. Un disprezzo implicito: magari perfino inconscio. Che parte comunque da una profonda, irremissibile incomprensione.
Perché è, perché resta un enigma.
Chiediamoglielo di nuovo dunque, anche noi come frate Masseo: perché a te, Giovanni di Pietro Bernardone detto Francesco? Tu non hai proprio un bel nulla che sia in; tu sei solo e sempre out per i nostri tempi, per la nostra Modernità, per il nostro Occidente. L’una e l’altro, in realtà, idolatrano esattamente quel che tu hai rifiutato: il potere, la ricchezza, il possesso, il guadagno, la gloria dell’Io al posto di quella di Dio. Forse non idolatrano poi tanto la scientia, quae inflat: ma ne godono i risultati, sotto forma di realizzazioni tecnologiche, e ne ostentano la vanagloria che deriva dal preteso possesso della sua conoscenza, la visibilità che le tiene dietro. Non c’è in realtà nulla che si possa immaginare come più radicalmente antifrancescano del tempo presente: e allora, perché esso continua a risonar del nome del povero d’Assisi?
C’è chi ne ha elogiato l’originalità e l’anticonformismo: anch’esse doti che nel mondo d’oggi vengono tanto lodate quanto poco perseguite. Si è ridotto anche lui, perfino lui, a un’icona convenzionale, appiattita sulle riduttive misure della ribellione antigerarchica o sociale.
Ma ci vuol altro. Pensate alla forza del Francesco che predica nudo nella sua città natale. O che minaccia i suoi frati che non filan dritto di farli picchiare da un nerboruto confratello. O che in punto di morte, invece di pregare, pensa a mangiar dei dolci. Un Francesco che si sente tanto attratto dalle donne da doversi buttar d’inverno nella neve e rotolarvisi per calmare i morsi della carne. Un Francesco che parla col sultano e non tenta di convertirlo, si limita a testimoniare il Cristo e accetta lietamente dalle mani del “nemico della croce” il dono mondanissimo di un corno da caccia. Ma chi è mai questo Francesco? E come possono, lui e l’Occidente moderno, intendersi?
Sul piano storico del suo tempo, il Povero d’Assisi fu uno sconfitto. La sua proposta cristiana era fondata sulla rinunzia a qualunque forma di potere. Ma i tempi che gli vennero dopo furono quelli dell’affermazione della volontà di potenza dell’Europa cristiana: una strada del tutto opposta a quella del farsi simile al Cristo povero e nudo.
Questo è il nodo di tutto. Sforziamoci pertanto, in questo cammino labirintico nel quale la mèta sembra a ogni svolta sul punto di essere raggiunta e poi di nuovo si allontana (se ripercorrete col pensiero le anse sinusoidali del labirinto chartrense capirete meglio che cosa voglio dire) di capire meglio ripartendo a questo punto da due assiomi esposti a distanza di tempo da altrettanti Maestri. Un’affermazione di Jacques Le Goff: il francescanesimo è reazionario. E una di Grado Giovanni Merlo: da una parte c’è il francescanesimo, dall’altra il minoritismo; valori non certo opposti, ma quanto meno divergenti e reciprocamente lontani per quanto non si ami di solito sottolineare questa lontananza e taluni preferiscano, se non contestarla, dissimularla e magari nasconderla.
È facile rispondere a Le Goff. Ormai il termine astratto e collettivo “francescanesimo” si tende a non usare più. Il grande medievista a suo tempo arcifamoso e stracitato, ma ormai sulla via dell’oblìo (ha ragione Francesco Petrarca: la Fama sopravvive alla Morte, ma viene soperchiata dal Tempo), era fedele alla storicità dei suoi giorni, quella delle “Annales” che potevano essere innovative finché si vuole ma erano pur sempre figlie della temperie storicista, e alle sue idee socialiste: e definiva Francesco “reazionario” anzitutto e soprattutto per la sua avversione per il denaro, addirittura per il suo disprezzo nei confronti di esso. Ma commetteva un’implicita e istintiva confusione – comprensibilissima nei tempi nei quali scriveva – tra Francesco e la realtà ch’egli aveva fondato ma che si era immediatamente e irreversibilmente metabolizzata, si oserebbe dire sotto i suoi occhi. E se osassimo dirlo faremmo bene e coglieremmo il segno: ripensiamo alla sua “grande tentazione”, dopo il ritorno dall’Oriente e la censura da parte pontificia della sua regola del 1221, la non bullata. Che cosa mai avrebbe dovuto fare a quel punto? Ribellarsi a una Chiesa, quella del suo confratello e seguace Elia e del cardinale Ugo d’Ostia, la potenza della quale egli stesso aveva energicamente contribuito a fondare uscendo dalla crisi precedente, quella dalla quale erano stati gli Ordini mendicanti a salvarla? O accettare il sia pur parziale cedimento per non dire snaturamento rappresentato dalla bullata del 1223, lasciare che in un modo o nell’altro si addossasse a lui la responsabilità di quello che appariva il prezzo da pagare per aprire al mondo quel che ancora restava della sua vocazione e, quanto a lui, arroccarsi nel doloroso silenzio della solitudine, della quotidiana crocifissione delle stimmate da portare per sempre (quanto meno il “per sempre” della vita umana…)? Da tutto ciò si esce accettando lo schema strategico suggeritoci dalla lezione di Merlo: altra cosa è il francescanesimo, altra il minoritismo; e la prima di queste due dimensioni riguarda esclusivamente Francesco e forse, quanto meno in una parte che io non saprei mai precisare, quelli che a lui hanno voluto, nel corso dei secoli, a loro volta “reazionariamente” tornare.
E il minoritismo ha vinto, per quanto sia uscito sconfitto da molte battaglie. E la storia, ohimè, la scrivono sempre i vincitori, per quanto anche nel loro caso sia vero che il Tempo batte sempre invariabilmente la Fama e che quindi essi stessi sono costretti prima o poi a cadere e vengono smascherati o spodestati. Francesco ha colto sul nascere la Modernità avanzante e incalzante: e l’ha respinta rifiutandone gli strumenti di base e di fondo, il danaro e la nuova cultura delle università e di un potere che, posta da parte la “civiltà del commento alla Scrittura” e quindi del teocentrismo e del culto della Parola divina, propria della patristica, si apprestava con il modernissimo strumento della dialettica a rendere tutto l’universo “a misura d’uomo” conquistandolo e sottomettendolo con la tecnica del superamento e dell’innovazione continui, quella che avrebbe aperto i tempi futuri alla Modernità, alla cancellazione grazie agli strumenti del nuovo capitalismo, alle vele e ai cannoni, del mondo “a compartimenti stagni” sostituito da quello della globalizzazione?
Il minoritismo ha vinto: e lo si vede fino dalla grande basilica eretta a ovest della vecchia città di Assisi, in valle Inferni, quella che mostra orgogliosamente la sua facciata aperta verso oriente e che pertanto non è “orientata”, bensì “occidentizzata”, perché guardanti ad oriente si costruivano tradizionalmente piuttosto le absidi, disposte a guardare il sole che sorge, diceva l’Alighieri, “di Gange”. Ma la facciata a oriente ripete il modello primigenio della basilica gerosolimitana della Resurrezione, costruita sul sepolcro vuoto del Cristo. E ad essa risponde proponendo il sepolcro abitato dai resti mortali dell’alter Christus. C’è del metodo, nella pazzia di questo paradosso metastorico.
Il minoritismo ha vinto: ed è stato uno dei minuscoli semi di senape dai quali in pochissime generazioni si è sviluppato l’immenso, rigogliosissimo albero della Modernità. Giacomo Todeschini, nelle sue lucide ricerche sulla legittimazione dell’usura nel pensiero dell’Osservanza minoritica, ha visto giusto. Una legittimazione che ha coinciso altresì con la fissazione di regole e di limiti: in ciò, Werner Sombart e anche il sombartiano e corporativista Amintore Fanfani avevano ragione. Il capitalismo legittimato dai minoriti non era affatto quello weberiano; ed è stata la vittoria di Weber su Sombart ad aprire definitivamente la strada alla Modernità. Bernardino da Siena non postula affatto la vittoria del moderno turbocapitalismo ai giorni nostri denunziato perfino dal pur iperliberista Luttwak. Eppure senza il primo – che ha costruito il Sacro Convento di Assisi come la cappella degli Scrovegni a Padova e la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze – non si sarebbe scoperto il Nuovo Mondo, né fondata l’Accademia del Cimento, né inaugurato il sapere occidentale moderno che si basa non più sulla teorica deduzione dialettica bensì sull’esperienza pratica (facciamola, quand’occorre, un po’ d’ucronia). Francesco, no: per lui, il denaro era “sterco del diavolo” e il manibus meis laborabam, et volo laborare; et omnes alii fratres firmiter volo, quod laborem de e laboritio, è una posizione che oggi non può non apparire se non come reazionaria e antimoderna, opposta com’è alla cultura dell’Avere, del Conquistare e del Guadagnare sulla quale si fonda la Modernità: la cultura della Volontà di Potenza e della riduzione di tutte le cose del mondo a merce.
Il socialismo, utopisticamente, sognava la sparizione del danaro dal mondo. L’ipercapitalismo ci sta paradossalmente riuscendo, nel nome di una complessa meccanica della concentrazione della ricchezza e della generalizzazione della miseria, dunque dell’Iniquità Assoluta, quale mai finora abbiamo conosciuto. Ha ragione Marco Revelli, nel suo straordinariamente lucido pamphlet laterziano: La guerra di classe esiste. E l’hanno vinta i ricchi.
Ma il Povero d’Assisi, in tempi ben diversi da questi, andava in un’altra direzione, diametralmente opposta. Aveva visto giusto. Francesco, profeta di una Giustizia fondata sulla Diversità e sulla Libertà, proponeva a tutti la via della povertà assoluta e perfetta ma non intendeva imporla a nessuno se non a quanti liberamente accettavano la sua strada. Ma egli non era Lenin, né i suoi tempi erano i nostri. Egli ammetteva che, in una società dura e ingiusta finché si vuole ma ancora cristiana si potessero legittimamente prendere anche strade molto diverse da quelle che avrebbero condotto, con la Modernità, al tragico accoppiarsi della massima ingiustizia con il massimo livellamento. Oggi, in una società postcristiana anzi sostanzialmente anticristiana, la sua via è divenuta l’unica praticabile se si vuol salvare il mondo e restare nel contempo fedeli all’insegnamento del Cristo.
D’altra parte, quella strada era dura e difficile anche allora. I suoi seguaci, a parte alcuni, se ne resero conto e formularono un compromesso. Francesco proponeva una strada “a misura del Cristo”, nella quale ciascuno avrebbe dovuto farsi minore rispetto a tutti gli altri e soggetto a tutti loro nel nome dell’amore. Il minoritismo si è limitato (“saggiamente”?) a indicare un “francescanesimo realisticamente praticabile a misura d’uomo”.
Ma a questo punto il vecchio Max Weber, teorico di un capitalismo che ha pur vinto ma che la nostra (o quanto meno la mia) pervicacia antimoderna vorrebbe cacciare dalla porta, ha insegnato ch’esso rientrerebbe trionfalmente dalla finestra – magari mandando in frantumi qualche vetrata gotica – obbligandoci a considerare con desolata freddezza la realtà qual essa è, non quale vorremmo che fosse. Parafrasiamo pure il vecchio Kleiner Mann, was nun? di Hans Fallada: “E adesso, poveri cristiani?”.
Il punto, se “poveri cristiani” vogliamo rimanere – ed è così sconsigliabile, così démodé… –, è quindi chiedersi se il Cristo-modello è, in quanto tale, valido ancora all’alba del III millennio; e come lo si può eventualmente seguire e imitare, ammesso e non concesso che ciò sia utile e consigliabile. Si sarebbe tentati di privilegiare l’amore totale e disinteressato per il prossimo da parte di ciascuno come nuovo territorio per una sequela Christi dei nostri giorni, una sequela Christi per Franciscum come pare suggerire papa Bergoglio: ma è sufficiente, anzi, è praticabile?
Francesco viveva in un mondo barbarico forse, ma ripieno di Dio: un mondo nel quale tutto si consacrava. Che cosa può dirci il suo esempio nel nostro mondo, quello di adesso, segnato dalla desacralizzazione? Francesco rinunziava a se stesso: che cosa può indicarci il suo esempio in un mondo fatto di “individui assoluti” sempre più coscientemente o no angosciati per il fatto che ci siamo ridotti ad esser tali ma sempre meno disposti a cessar di esserlo? Francesco lodava il Signore “per sòra nostra morte corporale”: ma il nostro mondo è perpetuamente assediato e angosciato dall’idea della fine fisica come Fine di Tutto; ed è questa la base della sua cupa e feroce disperazione travestita da felice godimento della vita, da insaziabile attività utilitaria e cristogenetica, da universale desiderio individuale di restar per sempre giovani, sani, belli, ricchi. Il sogno occidentale, la favola bella – oh, divino Gabriele D’Annunzio! – che ieri c’illuse e che oggi magari illude tutto il mondo non ancor giunto alle magnifiche sorti e progressive dell’Occidente, il mondo che sta ancora in coda ad aspettare l’avvento della società felice ed opulenta, dall’Ucraina al Burundi, e che vuole assaporare al sua fettina di benessere dopo avere per secoli assistito al banchetto dell’Occidente?
Francesco d’Assisi resta uno scandalo, un paradosso, una sfida. Ridurlo a un santino devozionale è grave. Farne un ridicolo rivoluzionario di quelli ch’erano avveniristici solo durante la Belle Époque, più grave ancora. Nella società dell’Avere, del Potere, del Produrre, dello Sfruttare e del Consumare, la sua testimonianza tutta dalla parte dell’Essere risulta radicalmente inattuale: ed equivoca dunque l’ammirazione di cui il Povero d’Assisi è a tutt’oggi circondato.
Il primo passo per riconquistarlo al nostro tempo, è disincantarne la durezza e la difficoltà del messaggio rinunziando a leggerlo in una dolciastra chiave convenzionale e in una riduttiva chiave ribellistica. Francesco fu perfettamente padrone di sé e in piena libertà si mise al servizio del Cristo. Aveva scelto di essere un servo di Dio, un miles Christi: tale consapevolezza lo rendeva perfettamente libero. Non voleva cambiare il mondo, e nemmeno i cristiani: nella sua lettera ad quemdam ministrum, insegnava al suo interlocutore ad accettare i superiori com’erano e a non pretendere che fossero migliori. Francesco non ha mai predicato la povertà coatta e universale. La sua era solo una proposta indirizzata a se stesso e a chiunque volesse liberamente accettarla. Egli sapeva bene che la sequela Christi è una durissima e irremissibile consegna, valida e praticabile soltanto per chi l’accetti volontariamente e gioiosamente; che la metanoia si può proporre solo con l’esempio, ma ch’è solo quella la via che potrà salvare il mondo. Ai suoi tempi, d’altronde, si viveva in una società dura, crudele, empia, assassina. Che tuttavia era pur sempre una società cristiana: si potevano scegliere più strade per vivere rimanendo cristiani. Oggi, in una società “postcristiana”, cioè in realtà anticristiana, la strada obbligata per chi cristiano voglia restare è solo quella.
Quanto al resto, resta valido l’ammonimento di Gesù: “I poveri, li avrete sempre con voi”. Siamo storicamente schiavi di questa grande verità storica, alla quale solo attraverso l’utopia potremmo ribellarci. Ma paradossalmente, disperatamente valida resta allora altresì – menschlich, zuviel menschlich – la prima parte dell’ammonimento übermenschlich dello Zarathustra nietzscheano: “Ribellarsi. Questa è la nobiltà dello schiavo”.
Franco Cardini