Minima Cardiniana 443/5

Domenica 3 dicembre 2023, Prima Domenica d’Avvento

LIBRI LIBRI LIBRI
IL SENSO DELLA STORIA
Pierre Nora, Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato, traduzione italiana a cura di Palo Infantino, Padova, La Scuola, 2017.
Arrivati alla “svolta” del III millennio, e non ancora abituati ad esso né decisi ad abbandonare del tutto il precedente, ci stiamo chiedendo tutti che cosa dovremo (o dovremmo) traghettare dal passato nel futuro e che cosa invece abbandonare. Molte cose appaiono in crisi: la convivenza tra i popoli che alcuni decenni fa era quasi un dogma indiscutibile; la politica, che ha definitivamente perduto il suo “primato laico” e si lasciata asservire da economia, finanza e tecnologia; le religioni storiche, insidiate dall’incredulità materialistica da una parte e dai rigurgiti di fanatismo interni a ciascuna di esse dall’altra. Si è detto più volte che lo scorcio del secolo ci aveva regalato la scomparsa delle ideologie: eppure stiamo assistendo invece alla loro rinascita, sotto forma d’insidiosi surrogati.
E la storia, sul “senso” e addirittura la “ragione immanente” della quale si era costruita almeno in Occidente l’autocoscienza di due interi secoli, l’Otto e il Novecento? Nella seconda parte del XX secolo essa è sembrata condensarsi, e per più versi cristallizzarsi, nel grande tema della memoria e della sua gestione. Tutta la tradizione storica, da Erodoto in poi, aveva consistito nella disciplina di quell’indistinto continuum che è la memoria: nel dare un senso a quel che del passato è degno di ricordo e quindi nella sua selezione rispetto a quanto non lo è. Ma tale esercizio non esponeva forse (non espone ancora) all’errore e peggio alla manipolazione? Chi è dunque lo storico? Un imparziale notaio di quel ch’è accaduto? Un demiurgo che serve i poteri volta a volta vigenti fornendo loro le necessarie giustificazioni? Un interprete della realtà che si pone in termini di mediazione tra potere e passato? Fino a quando la società occidentale ha saputo esprimere sistemi politici e istanze culturali in cui potersi riconoscere, la storia e magari “l’uso della storia” sono stati importanti: e di tale importanza era sintomo e al tempo stesso prova il rilievo conferito alla storia come disciplina fondamentale nell’apprendimento scolastico. Ma ormai la Modernità sembra aver raggiunto il suo ultimo stadio: dopo aver negato un senso alla vita mediante il “processo di secolarizzazione” e all’universo con l’imporsi di una forma d’indagine scientifica che lo ha ridotto a una macchina, ha negato senso anche all’ultima illusione che la sosteneva, la storia, non più intesa come cammino verso la perfettibilità e la felicità immanenti dell’uomo. E allora?
Una risposta lucida eppure piena di angoscia ci giunge da un protagonista della riflessione storica dell’ultimo mezzo secolo: Pierre Nora, membro dell’Académie Française e curatore editoriale dell’impresa dei Lieux de la Mémoire (Gallimard), protagonista della “Nouvelle Histoire” e della diffusione dello strutturalismo. In questo suo recente saggio egli mette in gioco la sua esperienza e il suo prestigio, partendo dalla sua duplice radice identitaria ebraica e francese, per porre con lucidità e coraggio il problema del rapporto tra potere e passato e della gestione politica della memoria collettiva rivendicando con forza allo storico il diritto-dovere di proporsi come “interprete e intermediario”: un ruolo civico, e perciò stesso etico, al di là di ogni pretesa di “scientificità” della storia in quanto tale. “In un mondo appiattito su un eterno presente, condannato a uno zapping continuo e dominato dai media, quindi a una lacerazione tra Memoria e Potere, lo storico è più necessario che mai”. Ma, attenzione!, “saper essere all’altezza di tale compito è un altro discorso”.
La necessità di recuperare di continuo la memoria, tutta la memoria umana, e di farne la base per una riflessione che sfidi le incertezze del presente e contribuisca a fornirci una nuova visione del mondo è il tema anche di una robusta monografia di Serge Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato ((edizione italiana a cura di Maria Matilde Benzoni, Cortina, 2016). Gruzinski, specialista dei problemi del continente ibero-americano, si è posto da tempo e per tempo il problema della globalizzazione in quanto progressiva adozione di lingue, dottrine e metodi propri dell’Europa occidentale moderna da parte di tutto il resto del mondo. Eppure la straordinaria ricchezza delle varie culture espresse dal genere umano nella sua lunghissima storia non ha potuto venir obliterata dalla pàtina egemonizzatrice impostagli dall’Occidente: e proprio adesso che la cultura occidentale sembra esser divenuta ormai la koinè diàlektos dei ceti dirigenti di tutto il mondo si propone come necessaria (anche per riuscir a dominare i contraccolpi che tale processo ha innescato, uno dei quali è senza dubbio il jihadismo musulmano) una riflessione autenticamente globale sul passato e sul presente. È ancora possibile interpretare alla luce della “camera fissa” puntata su Roma, su Parigi, su Londra, su New York, un mondo nel quale il “testimone egemonico” appare indirizzato a trasferirsi nelle mani di russi, indiani, cinesi, iraniani, africani, ibero-americani? È ancora possibile raccontare la storia della colonizzazione del mondo ponendosi in un modo o nell’altro sempre dalla parte dei colonizzatori, anche quando se ne denunziano le malefatte? Merito di Gruzinski è, fra l’altro, l’aver utilizzato sino in fondo le risorse del cinema non-occidentale – quello cinese, ad esempio – per mostrare il caleidoscopio di coincidenze ma anche di equivoci tra culture diverse, che non si “scontrano”, ma che interagiscono dialogando a differenti livelli e su piani molteplici. Gruzinski ci mostra l’avvento di una nuova storia dagli “orizzonti aperti”, rispetto alla quale è ozioso chiedersi se l’Occidente stia decadendo o se finirà col prevalere nonostante tutto. È alle nuove sintesi che bisogna prepararsi: anche perché sono già in atto, e sta a noi comprenderne i segni. Il presente è un istante: il passato è sempre gravido del futuro, ma non è proiettando un solo passato nel futuro che si vince la scommessa.

SARÀ STATA PURE UNA EX PROSTITUTA, MA TUTTAVIA…
Giorgio Ravegnani, Teodora. La cortigiana che regnò sul trono di Bisanzio, Roma, Salerno Editrice, 2022, pp. 237, euri 16,90.
Ora che la storia è piena di proposte di reintepretazioni “al femminile” e di saggi sul gender e sul cross dressing, è sempre più frequente l’interrogarsi sulle compagne dei grandi protagonisti di essa o su certe figure solitarie che hanno dominato il loro tempo e alle quali in passato quello che potremmo definire il politically correct della “declinazione del mondo al maschile” ha riservato invece solo un ruolo marginale o quello dell’eccezione che, in fondo, confermava la regola. In fondo, studi severi e robuste monografie hanno da tempo scelto come loro soggetti personaggi quali Matilde di Toscana, o Giovanna d’Arco, o Elisabetta I d’Inghilterra, o Caterina II di Russia: ma di solito, e non a caso, si cercava quel che di “virile” era in loro; e si spiegava magari la loro importanza, il loro successo, il loro fàscino, “nonostante” la loro femminilità.
È difficile dire quanto sia cambiato al riguardo nel mondo della storia e degli storici (fra i quali sono sempre più frequenti e autorevoli le storiche: e non è certo un problema di “quote rosa”). Certo è che ormai gli studiosi sembrano aver compreso fino a che punto le differenze di sesso (e quelle di gender) possono aver inciso in senso sostanziale anziché accidentale sullo sviluppo del passato tanto remoto quanto prossimo. Ne è prova la non lunghissima ma serrata e robusta monografia che Giorgio Ravegnani, medievista e bizantinista dell’Università di Venezia, dedica a Teodora. Essa viene a collocarsi al sessantottesimo titolo nella collana Profili, fortunata e autorevole serie fondata da Luigi Firpo e diretta adesso con energia e rigore dall’instancabile, benemerito Giuseppe Galasso.
Giorgio Ravegnani sapeva bene, già avviando la sua ricerca, di aver d fronte un’inevitabile fonte d’informazioni e un temibile avversario concettuale: lo storico Procopio di Cesarea, lo schizofrenico celebratore delle glorie di quel sovrano anzitutto noto come il grande sistematore del diritto romano che, nella sua Storia segreta, riversa sull’imperiale coppia Giustiniano-Teodora tutto il suo disprezzo e il suo livore. Il profilo avvelenato di Teodora, donna corrotta e malvagia, avida e crudele, “grava come un macigno” – sono parole di Ravegnani stesso – sulla sua immagine consegnata al futuro, al punto che oggi è impresa complessa (e molti l’hanno considerata vana) lo scriverne una biografia non apologetica, ma serena ad equilibrata. È ovvio che nella storiografia attuale i suoi difensori (per quanto non si tratti certo d’“innocentisti” tout court) sono forse la maggioranza: ma ciò è ancora un effetto di quanto ci ha lasciato scritto Procopio e rappresenta una prova in più di quanto le sue pagine restino inevitabili. Chissà che tutto ciò non dipenda, almeno in parte, dal fatto che la Storia segreta venne pubblicata per la prima volta solo nel XVII secolo, nel Grand Siècle dei libertini e dell’Histoire-Baudoir, che tutto sommato odiava e disprezzava il passato – lo dimostra la querelle des anciens et des modernes – e nel quale si godeva un sacco a far a pezzi la ieratica immagine dell’imperatrice quale ci appare nel celebre mosaico di San Vitale a Ravenna. Eppure, attenzione!, quel mosaico dice a proposito della “verità” di Teodora cose non meno importanti del càlamo avvelenato di Procopio.
Ravegnani ha anzitutto un merito: non solo ricostruisce il suo personaggio restando sempre in ben ponderato equilibrio fra il mòdulo narrativo caro ai cultori “non specialisti” di storia e quello critico richiesto invece dagli specialisti (pretesa, questa, soddisfatta nelle trenta pagine di robusto apparato erudito, metodologico e bibliografico), ma soprattutto scrive una biografia effettiva di Teodora, senza magari camuffare le lacune e le incertezze, non una biografia di Giustiniano “per interposta consorte”. E lei appare così dome davvero doveva essere, nella misura in cui una ricostruzione storica può somigliare alla realtà effettiva (e sempre, nonostante tutto, inconoscibile): anzitutto bellissima e – come potremmo eufemisticamente dire – disinibita, eppure misteriosamente interrotta nella sua carriera di attrice e di cortigiana ancor giovane per quegli stessi tempi (più o meno una ventina d’anni) da un enigmatico intermezzo siriaco, forse una folgorante esperienza mistica seguita da una conversione al cristianesimo monofisita ormai da tempo condannato e inviso in Bisanzio e, quindi, dall’inaspettato incontro con un Giustiniano ancor semplicemente erede al trono. Due personalità molto diverse, per certi versi opposte, schivo e ombroso lui, prepotente ed esuberante lei. Nel 527 Giustiniano divenne imperatore e Teodora, incoronata al suo fianco, lo affiancò per un ventennio fino a una morte precoce rivendicando costantemente un suo ruolo politico che in qualche caso la pose anche in contrasto con l’imperatore (specie a proposito del tema della ricostituzione dell’unità imperiale, un’avventura che rischiò di far naufragare l’impero) ma che la condusse anche a salvare in extremis il potere del consorte, come accadde a proposito della “congiura di Nika!”. Qualcuno ha avanzato il tema delle analogie fra Teodora ed Eva Perón, anche sulla base di analogie caratteriali ed esistenziali, dal turbolento passato al carattere impetuoso, dalla vanità ostentata al fascino anche politico e alla precoce morte. Servono i paragoni? O sono solo svianti?
Ravegnani concede al Nachleben e ai revivals di Teodora un solo capitolo, l’ultimo, peraltro divertente e illuminante: così come divertenti e illuminanti sono i molti particolari sulla vita di corte, sul cerimoniale, sulle lotte cittadine tra le fazioni del circo dette “Azzurra” e “Verde” e così via. Ma la sostanza del suo libro resta quella di una solida analisi condotta sul filo della storia politico-culturale e sorretta da una sicura conoscenza delle dinamiche sociali presenti nella Bisanzio e nel mondo mediterraneo del VI secolo. Un secolo, non dimentichiamolo, di grandi crisi – culminate in una terribile pandemia – ma anche di definitivo consolidarsi di un impero, il romano-orientale, destinato a sopravvivere ancora per quasi un millennio e oltre. È a partire dall’età di Teodora che andò configurandosi nel bene e nel male, nell’Europa moderna, il complesso di leggende e di luoghi comuni confluiti nel fatidico nome di “Bisanzio”. Un nome che i bizantini, ça va de soi, si guardavano bene dall’usare.

IL MAGICO NEL XV SECOLO
Vedrai mirabilia. Un libro di magia del Quattrocento, a cura di Florence Gal, Jean-Patrice Boudet, Laurence Moulinier-Brogi, Roma, Viella, 2017, 470 pp., euri 46,00.
Nei primi secoli del medioevo la tradizione della magia “colta”, cerimoniale, tipica del mondo ellenistico e strettamente collegata con la gnosi, era nota soltanto attraverso gli scritti di Tertulliano e di Agostino, ripresi nel VII secolo dall’“enciclopedia” di Isidoro di Siviglia: ma a lungo essa era sembrata una realtà lontana, relegata al passato. La cosiddetta “rinascita” del secolo XII mutò radicalmente questo panorama, comportando anche la crescente diffusione di testi magici, specialmente di stampo astrologico, ricondotti dall’antichità e ravvivati dai testi ebraici e musulmani.
La società basso- e tardomedievale non elaborò pareri e comportamenti univoci nei confronti di tali fenomeni. Da una parte, la preoccupazione per la vanitas magicarum era rinverdita da una larga parte del mondo ecclesiastico, con in testa i domenicani e poi anche i francescani, per i quali il magus va accostato ai “negromanti” (termine che deriva da “necromanti”, ossia coloro che divinavano interrogando i morti, ma che aveva ormai assunto una valenza più ampia) e agli astrologi, cioè a coloro che oggi tendiamo a definire nell’ambito della “magia cerimoniale colta” e in particolare di forme elaborate di divinazione D’altro canto, quei secoli conobbero anche una ripresa “in positivo” della magia come scienza sperimentale e naturale.
Ma di quali strumenti si servivano i “negromanti”, di cosa era fatta la loro arte? Se è vero che le testimonianze in negativo sono prevalenti, è comunque possibile identificarne certi caratteri di fondo a partire da alcuni libri che venivano usati dagli stessi “maghi”. Fra questi, i più celebri sono quelli che si riteneva tramandassero notizie sui presunti poteri magici del biblico re Salomone. Al leggendario sovrano si attribuiva infatti la stesura di numerosi testi magici, come il cosiddetto Testamentum Salomonis, che descrive i demoni principali e il modo per sottometterli al proprio volere; abbiamo notizia anche di un Liber Salomonis, bruciato nel 1350 su ordine di papa Innocenzo VI. Nel suo Speculum astronomiae Alberto Magno ne ricordava numerosi, la gran parte dei quali non è giunta sino a noi.
La Clavicula Salomonis era forse il più noto di tutti; la copia manoscritta più antica, in greco, risalente al XII-XIII secolo, è oggi conservata presso il British Museum di Londra. Ne esistono tuttavia numerose varianti, molte delle quali pubblicate a stampa nei secoli successivi. L’origine sembra esser stata prevalentemente ebraica, con interpolazioni greco-egiziane, e più in generale orientali, e solo remotamente cristiane. Le preghiere devote a Dio si accompagnano a una accentuazione della necessità per l’officiante il rito di requisiti di castità, digiuno e nitore; tuttavia la finalità appariva tutt’altro che devota, essendo sovente rivolta a procurarsi mezzi magici per seminare morte, discordia e distruzione. L’appello ai demoni perché conferiscano volontà e potere si accompagnano in modo blasfemi ai richiami – attraverso preghiere e formule – ai profeti dell’Antico Testamento e allo stesso Dio, chiamati a maledire i demoni al fine di costringerli a obbedire alla volontà dell’evocatore.
Per il periodo fra XIV e XV secolo gli studi più recenti mostrano l’effettiva diffusione nella società di rituali di magia “nera”. Il Picatrix, il più celebre fra questi testi, ha ricevuto studi ed edizioni. Nel 1998 lo studioso statunitense Richard Kieckhefer ha trovato e pubblicato un vero e proprio manuale quattrocentesco di tecniche “negromantiche”, Forbidden Rites. A Necromancer’s Manual of the Fifteenth Century, purtroppo mai tradotto in Italia. Ben venga pertanto la recente pubblicazione di un anonimo manuale in idioma volgare dell’Italia quattrocentesca, Vedrai mirabilia. Presentazione ed edizione sono estremamente accurate, opera di specialisti del settore; ma nulla tolgono alla godibilità del testo, che mescola magia astrale, “negromanzia” e rituali apotropaici: “Vedrai mirabilia” è il motto ricorrente che l’anonimo estensore impiega per attirare l’attenzione dei suoi lettori.
Ma il libro apre allo stesso tempo uno spaccato raro sulla storia sociale e culturale del tempo, perché, come scrivono nell’introduzione, l’Italia del Quattrocento era terreno fertile per questo tipo di scritti, data la grande diffusione dell’astrologia presso le corti aristocratiche, in collegamento con la cultura del Rinascimento, che guardava con favore al mondo antico, del quale tecniche e riti che noi definiamo “magici” erano stati componenti fondamentali.