Domenica 10 dicembre 2023, II Domenica di Avvento
EDITORIALE
E SE FOSSE L’ORA DI DICHIARARCI “ANTIANTI”?
Ricordate lo splendido incipit di Senso di Luchino Visconti, con un’indimenticabile Alida Valli e una splendida ricostruzione della Lombardia della guerra austropiemontese del 1848-49, quella che la retorica ufficiale italiana orgogliosamente definisce “La prima Guerra d’Indipendenza”, mentre fu il primo atto della destabilizzazione della penisola che ci costò cinque guerre e fu tragicamente conclusa nel 1945 per dar luogo a un secondo, non meno discutibile, periodo delle vicende della penisola passata da un’onorevole policentrismo nel quadro della Restaurazione (che avrebbe potuto ben condurre a un’unità nel segno della coerenza policentristica, quale l’avrebbero auspicata lucidamente Carlo Cattaneo e Antonio Rosmini) a una deprecabile scelta centralizzatrice su modello bonapartista, quindi all’Italietta, poi al regime fascista che avrebbe potuto essere una dignitosa “dittatura di sviluppo” se non fosse degenerato in una grottesca avventura megalomane tentando di trasformarsi in grande potenza e finendo succube di una tirannia razzista?
Prima di continuare, vi prego di valutar molto bene le poche righe che avete appena letto, forse con meraviglia o con sdegno. Pensateci bene. È la nostra storia, che avrebbe potuto esser diversa se non avessimo scelto, l’uno dopo l’altro, tre alleati sbagliati: Napoleone III tra 1856 e 1859, che ci ha portati all’Italia centralizzata anziché federale; i franco-inglesi nel 1914-15, che ci hanno condotti a far da cenerentola di un’alleanza che ci ha sempre disprezzati, ci ha regalato qualche briciola della vittoria e, con la scellerata “pace di Parigi”, ha posto le basi per la seconda guerra mondiale e per la crisi ancora in atto tra Europa orientale e Vicino Oriente; Hitler nel 1940, con le conseguenze che ben conosciamo.
Ebbene: Visconti ci mostra il Teatro della Scala dell’inizio del Risorgimento, e i manifestini tricolori che scendono dal loggione, e l’inappuntabile gesto dell’ufficiale austriaco che se ne scrolla uno, cadutogli sulla spalla della candida uniforme, come ci si libera di un fastidioso e repellente insetto.
Ma la non ho capito ancora se “seconda” o “terza” repubblica italiana non ha evidentemente la signorilità dei funzionari dell’imperiale governo austriaco. Non ci meraviglia: lo possiamo capire, conosciamo la mancanza di stile di certi tangheri della nostra cosiddetta classe dirigente. Tuttavia, da che mondo è mondo, le “proteste dal loggione” vanno considerate per quello che sono: in genere si placano al riaprire del sipario (“The show must go on”, che diamine!) o al massimo si placano con l’intervento delle maschere di sala; nei casi più gravi di un paio di poliziotti che di solito non fermano nessuno.
Invece l’altro giorno, alla Scala, è successo un po’ quel che sarebbe accaduto se l’ufficiale evocato da Visconti fosse scattato in piedi e avesse stentoreamente chiesto l’ingresso in sala di un reparto di Fucilieri di Boemia: il che sarebbe stato senza dubbio giudicato atto d’isterico cattivo gusto. Per un tizio che ha gridato “Viva l’Italia antifascista!” è scattata nientepopodimenoché la DIGOS. Francamente avrei preferito un “Abbasso la NATO!”, tanto per vedere se per caso sarebbe arrivato un reparto speciale direttamente dalla Dal Molin di Vicenza. E in fondo, badate, tutto sarebbe stato più coerente e pertinente, vista la presente situazione italica che vede per le strade poche e sparute camicie nere mentre immobile e noncurante assiste a un’oppressiva, capillare e arcicostosa occupazione militare straniera dal paese.
Pare viceversa che il “Viva l’Italia antifascista!”, frase che visto il contesto dell’Italia odierna risulta altrettanto vistosamente provocatoria del “Noi vogliam Dio ch’è nostro padre” dei romani coevi del marchese del Grillo e del “Viva la Madre Superiora” proferito dalle bambine in abitino rosa del tempo di De Amicis, abbia provocato nel paese un’ondata di eroico isterismo. Un po’ come quel parigino del ’42 del quale racconta Celine, il quale riferisce all’amica di aver gridato “Vive de Gaulle” in faccia a un boch (“un crucco”), cioè presumibilmente a un timido soldatino della Wehrmacht che in quel momento stava camminando isolato e disarmato per strada: al che la sua Nanette replica ammirata, “oh, chéri, a volte mi fai paura!”. Il loggionista fino a ieri semianonimo è diventato un divo mediatico: ed è stato egli stesso ad assicurare chi lo ha intervistato che quelli della DIGOS erano, nel fermarlo per puri accertamenti anagrafici, più sorpresi e disorientati di lui; anzi, ha assicurato che pure la DIGOS è antifascista. Alla buon’ora: ora sì che siamo sollevati.
In effetti, l’intrepido gridator loggionario ha ispirato l’ammirazione di tutti gli aspiranti a una Nuova Resistenza che abbia come obiettivi, per ora solo polemici, alcuni pericolosi fascisti della risma del senatore Ignazio La Russa – detentore di un busto del Duce (ma lui assicura che adesso ce l’ha sua sorella: un’altra buona notizia) e padre amoroso di un figlio discolo – e del putinista pentito e precettatore ferroviario Matteo Salvini. Per la penisola, all’indomani dell’evento, anziché una liberatoria omerica risata all’indirizzo di quei funzionari della DIGOS che senza loro colpa hanno fatto sulle prime la figura di essere di grandissima lunga più melonisti della Meloni (la quale magari oggi si sarebbe addirittura dichiarata solidale con il loggionario), si è levata una corale standing ovation all’indirizzo del fiero urlatore antifascista, fermato dalla DIGOS – qui sta il paradosso – come se, infrangendo la venerabile legge Scelba, avesse gridato “Viva il Duce!”. Perché per la repubblica quello è e resta un reato, non lo slogan echeggiato alla Scala.
Quanto di recente accaduto – e la cosa si è subito sgonfiata – ha rischiato per un istante di trasformarsi in un altro inciampo gettato fra i piedi di Giorgia Meloni, la quale del loggione scaligero si sarebbe ampiamente disinteressata se non fosse stato il presumibile zelo di qualche caporale nel senso decurtisiano del termine (“siamo uomini o caporali?”) a procurarle un’altra indesiderata grana. E vogliamo sperare, per un avanzo di fiducia che ancora nutriamo nei confronti dei nostri simili, che l’intervento di polizia non sia stato sollecitato da qualche Mammasantissima di governo in quel momento presente in sala.
Ma tant’è. Much ado about nothing, a dirla con Shakespeare: ma, proprio per questo, scandalo irrimediabile. E, se si prova ad analizzarlo come pur dovrebbe, situazione terribile ma poco seria.
Che tuttavia potrebbe anche riuscire paradossalmente utile se (usiamo il condizionale ipotetico della realtà) da quella frase tanto inopportuna quanto pleonastica quanto stupidamente provocatoria scaturisse un invito alla riflessione. “Italia antifascista”: in che senso?
Io conosco un solo vero e apprezzabile antifascismo. Che, se non era di comodo, abbracciato dai soliti voltagabbana, fu serio ed encomiabile solo in un senso: nell’immediato anteguerra e in particolare, per l’Italia, tra 1943 e 1945. L’autentico antifascismo storico, che s’indirizzava contro un preciso obiettivo. Quando per essere antifascisti sul serio ci volevano rigore, onestà e coraggio. Agli antifascisti seri, pronti a pagare di persona, come ai fascisti onestamente tali e convinti di esserlo, va fatto tanto di cappello. Gli altri erano i soliti quacquaracquà di cui il Bel Paese abbonda, quelli che “tengono famiglia” anche quando sono single.
Allora, per essere antifascisti si poteva essere conservatori, tradizionalisti, liberali, socialisti, cattolici, anarchici e quant’altro: ma esser tali significava opporsi a un occhiuto regime di polizia, a un conformismo di massa, a una classe dirigente boriosa e mediocre (con parecchie eccezioni, peraltro), a un sistema caratterizzato da una violenza e da un sistema repressivo che restavano tali anche quand’erano solo impliciti, a un consenso ch’era onestamente tale solo e nella misura in cui era consapevole e criticamente vigile al pari dei fascisti “frondisti”, alla Berto Ricci o alla Diano Brocchi o magari alla Indro Montanelli e – con qualche riserva – alla Davide Lajolo. Parlo solo dell’Italia, beninteso: se dovessimo esaminare le variabili francesi, tedesche, spagnole, portoghesi, ungheresi, croate e rumene (tanto per prendere gli esempi principali nella sola Europa), o se dovessimo andare a disturbare i “casi” fascisti o parafascisti degli altri continenti, dal nasserismo arabo al peronismo argentino al getulismo brasiliano (a parte, ebbene sì, la declinazione del sionismo da parte di Jabotinsky, il pater patriae d’Israele ch’è l’unico fondatore di una nazione moderna a essersi dichiarato esplicitamente fascista), tutto si farebbe più complesso.
Ma oggi, no. Oggi l’“antifascismo” è considerato non solo e non tanto l’opposizione alla prassi di un passato regime che sarebbe stata doverosa a meno di non nutrire nei suoi confronti un cosciente consenso, quanto un’opinione ideologica. E allora, se non vogliamo far della mistica disancorata rispetto al tempo e allo spazio, il sostantivo “antifascismo” non basta: bisogna qualificarlo, dal momento che tra le molte caratteristiche del fascismo alcune ve ne furono ch’erano e restano condivise da persone d’indirizzo politico diverso e magari lontano. Che cosa rifiuta, in modo preciso, l’antifascista di oggi? La “dittatura”, cioè in pratica il totalitarismo o l’autoritarismo? Un comunista sincero non può affermarlo. Il sistema sociale magari verticistico, ma teso comunque a un welfare state nel complesso efficiente e avanzato, come fu riconosciuto dallo stesso Franklin D. Roosevelt? Un socialista avrebbe parecchi dubbi al riguardo. Uno stato fondato sull’ordine e la gerarchia? Tradizionalisti e conservatori si rifiuterebbero di rigettarlo a priori. Una società che, pur restando magari rigorosamente laica, consente anzi promuove la “pace sociale” senza respingere i princìpi della libera iniziativa e della proprietà privata, e limitandosi a richiedere in caso di attriti l’arbitrato statale? Nessun liberale, nessun liberista potrebbe opporsi. Un regime che, sia pure con qualche argine, riconoscesse il principio della tolleranza religiosa? I cristiani in genere, i cattolici in particolare, stenterebbero a non considerarlo positivamente.
Ma se l’intero arco delle possibili “forze in presenza” politiche possiede un corredo ideologico e concettuale che riconosce la validità di alcune posizioni proprie del fascismo, com’è possibile poi un’unanimità tanto corale e assoluta quando di tratta di condannarlo? Com’è possibile che i singoli modi di vedere la politica, le singole ideologie, mantengano sempre una qualche magari minimale compatibilità col fascismo (sia pure sempre diversa nelle singole prospettive), salvo poi saltare concordi a una comune visione negativa di esso senza che in tutto ciò si manifesti quella che in filosofia si definirebbe una “petizione di principio”? La tesi del Male assoluto, del Nemico Pubblico Numero Uno, fa acqua da tutte le parti. E allora, di che cosa stiamo parlando?
A questo punto la sfida diventa esplicita. Sfido chiunque a redigere un “cartello unitario dell’antifascismo” che condanni vizi e crimini ad esso propri e di esso esclusivi e che, nel nome di ciò, proponga una definizione coerente, univoca e onnicomprensiva dell’antifascismo come valore comune a tutti gli altri sistemi di pensiero politico consentendo a ciascuno di loro di dichiararsi esente dalla minima affinità rispetto al fascismo. Forse, solo la celebre definizione crociana del fascismo come “calata degli Hyksos” potrebbe rappresentare uno spalto credibilmente difendibile: ma fu proprio don Benedetto a non saperla sostenere. È il “fascismo come Altrove”, è la sua demonizzazione laica, che non regge.
Quanto a me, visto che firmo queste parole, consentitemi di esporvi il mio caso personale. Da quando avevo vent’anni mi professo cattolico, europeista e socialista: in quest’ordine. Ancora da prima avevo scelto il mio posto nell’àmbito della problematica religiosa, spirituale e anche metastorica proclamandomi – sulla scia dei miei Maestri De Maistre, Donoso Cortés, Papini, Giuliotti e Mordini – avversario della Modernità individualistica, del primato dell’economia e della finanza e delle rivoluzioni liberal-democratiche inglese, americana e francese. In quanto tale respingevo anche il nazionalismo, il che mi procurò problematiche e tensioni durante la mia giovanile permanenza nel Movimento Sociale Italiano (non approvavo, ad esempio, la sua posizione riguardo al problema sudtirolese; mentre guardavo al socialismo, al di là della sua pregiudiziale agnosticistico-atea, con sincero interesse e con forte simpatia per quanto atteneva il suo impegno nel senso della giustizia sociale). Avevo ben presenti queste difficoltà e queste contraddizioni, tuttavia mantenevo fede alla mia scelta in favore di quel movimento in quanto lo consideravo una forza in grado comunque di opporsi al sistema dei poteri allora vigenti. M’ingannavo: era coerente con essi, come la posizione atlantista dei suoi vertici comprovava.
Rispetto al fascismo storico, non dubito dunque che già le posizioni di allora mi avrebbero in ultima analisi consentito di definirmi “antifascista”: a ciò sarebbe bastato il mio antinazionalismo, sia pur in quel momento per me arduo ad esprimersi, nonché la mia visione anticentralistica (quindi antisabauda e antimazziniano-garibaldina) per quel che riguardava il processo di unità nazionale, riguardo al quale privilegiavo le visioni di Rosmini e di Cattaneo. Ma non mi pronunziai, nonostante tutto, per una visione antifascista: il fascismo mi sembrava avere il merito di essere stato un tentativo energico di costruire comunque una forte coscienza identitaria nazionale, e per questo non me la sentivo di pronunziare nei suoi confronti una condanna “totale”.
Quanto all’ipotesi di poterlo fare un giorno, mi trovo oggi esattamente nella posizione di Shatov ne I demoni di Dostoevskij. A chi gli chiede se crede in Dio, il pravoslavo Shatov risponde che crederà in Dio, quando la Sua presenza e la Sua opera si saranno pienamente estrinsecate nell’anima del popolo russo. Novello Shatov, io rispondo a mia volta che francamente e gioiosamente mi proclamerò antifascista allorché – riferisco alla lettera con qualche modifica fraseologica la conditio sine qua non che ho espresso due capoversi sopra – qualcuno avrà redatto un “cartello unitario dell’antifascismo” che condanni vizi e crimini ad esso propri e di esso esclusivi e che, nel nome di ciò, proponga una definizione coerente, univoca e onnicomprensiva dell’antifascismo come valore comune a tutti gli altri sistemi di pensiero politico, consentendo a ciascuno di loro di dichiararsi esente dalla minima affinità rispetto al fascismo. Nei nuovi valori così delineati mi riconoscerò a mia volta.
La parola, adesso, passa a chi accetterà la sfida. Se non si presenterà nessuno in grado di esporre ragioni plausibili, la scelta di dichiararsi “antiantifascisti” non potrà esser considerata se non legittima sulla base della conclamata impossibilità di definire concettualmente l’antifascismo condannandolo come “nemico del genere umano” in un modo universalmente comprensibile e accettabile. In caso contrario, la palestra resterà aperta finché vi saranno interlocutori validi. FC