Domenica 24 dicembre 2023, IV Domenica di Avvento, Vigilia di Natale
ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
L’ICONOGRAFIA MARIANA IN ORIENTE E IN OCCIDENTE
di Eleonora Genovesi
“Di Maria non si dirà mai abbastanza – De Maria numquam satis” (San Bernardo di Chiaravalle)
Siamo in pieno periodo dell’Avvento, ossia il periodo della preparazione immediata alle festività natalizie, nelle quali la Chiesa fa memoria della prima venuta di Cristo Salvatore degli uomini, nell’umiltà della nostra condizione umana.
E nel cammino dell’Avvento la Vergine Maria occupa un posto particolare come Colei che in modo unico ha atteso la realizzazione delle promesse di Dio, accogliendo nella fede e nella carne Gesù, il Figlio di Dio, in piena obbedienza alla volontà divina.
E rifacendomi alle parole di San Bernardo di Chiaravalle, nella speranza che non me ne voglia, direi che di Maria, non solo non si dirà mai abbastanza, ma non la si raffigurerà mai abbastanza. Non per niente il tema iconografico più ricco e complesso dell’Arte cristiana è quello della Madonna.
Le prime immagini della Madre di Dio le troviamo nelle rappresentazioni realizzate nell’iconografia cristiana per venerare la figura di Maria. Il culto alla Theotokos, tanto nella chiesa d’Oriente quanto in quella d’Occidente, troverà un mezzo di diffusione in quelle icone che spiegavano con le immagini, quanto la riflessione teologica sosteneva e affermava riguardo l’incarnazione del Verbo di Dio. Ma tali icone, sebbene esaltino la persona di Maria, sono sempre realizzate in funzione del Verbo incarnato, venendo così comprese dall’osservatore come la sintesi del rapporto che lega il Figlio di Dio con l’umanità redenta, di cui la Vergine è il prototipo. Per la strutturazione di questo tipo iconografico si attingeva a fonti diverse che provenivano dall’ambito della Scrittura (Antico Testamento, Vangeli), degli Apocrifi, della Liturgia (preghiere e inni come l’Akathistos) o della Tradizione (scritti patristici e dogmatici). I principali aspetti formali delle icone, quali la ieraticità, l’assenza di volume, la frontalità, il fondo d’oro, ecc., furono coniati dalla tradizione bizantina per offrire alla devozione dei fedeli un ritratto spirituale e teologico della Madre di Dio e del Salvatore. Il culto alle immagini in Occidente si farà eco di questa “maniera greca”, adattandola alle sue esigenze, non solo a carattere devozionale, ma anche artistico.
Dunque l’Icona diviene una forma di “scrittura” visiva grazie alla dottrina ufficiale della Chiesa, che dette un ragguardevole stimolo alla diffusione delle diverse tipologie iconiche, in particolar modo di quelle inerenti la maternità divina di Maria. La Chiesa riteneva, infatti, l’icona uno strumento di rivelazione: ciò che la Parola porta all’orecchio, l’immagine lo porta davanti agli occhi.
Come uno specchio, in cui si riflette la realizzazione del disegno divino, le icone materializzano le parole della Scrittura e, attraverso la loro figurazione simbolica, visualizzano il messaggio di salvezza.
Inoltre la complementarietà esistente tra parola ed immagine, aveva anche la finalità di suscitare nel fedele l’imitazione di ciò che si contempla, quasi fosse una sorta di “teologia visiva” da acquisire nella propria vita.
Così come la Scrittura, anche l’icona presenta due livelli di comprensione, uno narrativo ed uno simbolico. Ciò significa che, per cogliere la ricchezza del suo messaggio, ad un’attenta lettura dell’immagine bisogna aggiungere anche una giusta interpretazione della stessa. L’icona, realizzata in modo ideale al fine di far percepire emotivamente l’incontro personale con il divino, veniva elargita alla contemplazione dei fedeli come ricordo del momento risolutivo in cui il Verbo si era fatto uomo. Dunque il fedele non contemplava una semplice immagine pittorica, bensì il volto della persona protagonista dell’evento di salvezza, il volto di colei che ha reso possibile questo miracolo. L’icona quale impronta indelebile dell’esistenza storica del divino.
Ma come viene considerata l’icona in Occidente e come in Oriente? Mentre in Occidente l’icona sarà uno strumento didattico, nella tradizione Ortodossa verrà considerata come una “Teofania”( dal greco ϑεοϕάνεια comp. di ϑεο- “teo-” = Dio e ϕαν- di ϕαίνομαι “apparire”), ossia una rivelazione di Dio che consente di contemplare lo splendore della sua incomparabile presenza. L’icona che vuol rendere visibile l’invisibile viene utilizzata nel culto come manifestazione di una realtà superiore. E proprio per questo motivo la venerazione delle immagini sacre è contraddistinta da due aspetti ugualmente importanti: quello di “memoriale” che testimoniava la presenza di coloro che nel corso della loro vita terrena avevano trasmesso la potenza della parola di Dio, e quello “profetico” finalizzato ad assicurare la presenza sovratemporale della persona rappresentata.
Quindi, in qualità di “interlocutore” a cui rivolgersi per entrare in contatto con il divino, l’icona giocava un ruolo molto importante nel culto e veniva invocata affinché agisse a beneficio dei fedeli (una per tutte la guarigione fisica), palesando quei prodigi tipici delle reliquie dei santi.
Ma fu solamente nel 431 con la definizione fornita dal Concilio di Efeso, convocato dall’imperatore Teodosio II, che proclamò Maria quale “genitrice di Dio” (Theotokos), che la venerazione della Vergine fu introdotta ufficialmente nella chiesa, ponendo così le basi della dottrina dell’icona.
E insieme alla collocazione nella liturgia di cicli festivi dedicati alla Madre di Dio, si formò una letteratura incentrata sulla figura della ragazza di Nazareth al fine di recuperarne la biografia in quanto persona realmente vissuta.
Così in concomitanza con le celebrazioni dei riti festivi si diffuse una ricca iconografia mariana tesa a consolidare il culto della Madre di Dio. In assenza di reliquie corporali della Vergine, saranno proprio le sue icone, considerate ritratti autentici, a garantire la sua presenza come realtà storica per la vita della chiesa. Dunque Liturgia ed iconografia erano finalizzate a diffondere e rendere popolare il ruolo di Maria nel piano della salvezza voluto da Dio.
Dio nella sua essenza trascendente non poteva essere rappresentato, perché invisibile, ma con l’incarnazione del Verbo egli assume forma umana, divenendo visibile e dunque raffigurabile. Ecco dunque che la raffigurazione della genitrice umana, Maria, diviene indispensabile a conferma della natura umana del Figlio di Dio.
Pertanto l’icona di Maria viene creata solo ed esclusivamente in funzione della sua maternità divina, per cui il Bambino nelle braccia della Madre lo si troverà in tutte le sue prime raffigurazioni. La proclamazione ufficiale dello Status di Maria nella storia della salvezza avvenne attribuendo all’icona mariana il titolo teologico di Theotokos divenuto poi quello di Méter Theou ossia “Madre di Dio”.
Raffigurandola come madre di Dio, l’immagine di Maria appariva al popolo come Colei che sorreggeva il Verbo fatto carne e si presentava come un’arma potente contro l’eresia e a seguire l’iconoclastia. Perché Maria non era una dea che generava altri dei, ma una madre umana che consente a Gesù, il Verbo Incarnato, di assumere la sembianza umana.
Ma vediamo ora come viene declinato il titolo di “Madre di Dio” in Oriente ed in Occidente.
1) Theotòkos, “colei che genera Dio” definita tale nel Concilio di Efeso (431), titolo conservato fino a oggi, soprattutto nella tradizione orientale, ha come equivalente occidentale la “Madre di Dio”. Per riprodurre la dignità della Theotokos l’iconografo si ispirò al fastoso cerimoniale della corte di Bisanzio.
La Madre di Dio è vestita, come l’imperatrice, con un prezioso manto regale, e come lei indossa anche delle scarpe rosse, scarpe che solo l’imperatrice poteva indossare. Inoltre poggia i piedi su di uno sgabello adornato da perle e pietre preziose come quello che veniva messo sotto i piedi della Basilissa nel corso dei ricevimenti importanti. Sostanzialmente il gesto della Vergine, seduta in trono con il Figlio, è identico a quello dell’imperatrice che presenta ai sudditi il nuovo sovrano.
Un bellissimo esempio di questa tipologia di icona mariana ci è dato dal dipinto realizzato intorno al 1230 dal Maestro del Bigallo, dal titolo la Madonna col Bambino in trono e due angeli, detta anche Madonna Bardini, visibile agli Uffizi.
Questa tempera su tavola, in buono stato di conservazione, realizzata da un anonimo artista fiorentino, è considerata tra le più significative della pittura fiorentina della prima metà del 1200. La Vergine seduta su un trono stilizzato, composto da più strati rigonfi e da un cuscino rosso, tiene in braccio il Bambino benedicente. I piedi poggiano su una pedana vista di scorcio ed il corpo è avvolto da un mantello rosso dalle pesanti pieghe del panneggio. Le forme tendono a dilatarsi, conferendo al gruppo sacro solennità e maestosità.
Un altro eccellente esempio di questa tipologia di icona mariana ci è dato dal dipinto realizzato a cavallo fra il 1460 ed il 1464 da Giovanni Bellini dal titolo Madonna Greca, in cui questo esponente del rinascimento veneto volge lo sguardo su Bisanzio. Gli sguardi tristi dei protagonisti, come sempre in questa tipologia, non si incontrano, ma la familiarità è data dal movimento delle mani di Maria, che creano un tenero abbraccio che avvolge e protegge il figlio.
2) Haghiosoritissa che rappresenta la Vergine mentre prega con le mani giunte o con le braccia alzate ha come equivalente occidentale la Madonna Orante. Un bellissimo esempio di questa iconografia mariana è dato dal mosaico della Vergine orante conservato presso il Museo Arcivescovile di Ravenna, facente parte di uno straordinario ciclo iconografico, datato al 1112. La Vergine, a figura intera, è posta frontalmente con le braccia alzate ed allargate in atteggiamento di preghiera, secondo l’iconografia dell’orante. Si tratta di un’immagine antica di provenienza pagana, successivamente ripresa e reinterpretata dalla comunità cristiana. Il gesto del pregare con le mani rivolte verso l’alto è, infatti, trasversale a diverse tradizioni religiose e culture. La Vergine si staglia su di un fondale dorato fra due cortine tese ai lati del capo; è avvolta da un manto turchino e poggia i piedi su un prato cosparso di fiori. Ai lati del nimbo, filettato di bianco, rosso e nero, si trova un’iscrizione latina.
Un altro importante attributo associato al nome di Maria è quello di Panaghia che significa Tutta Santa.
Nell’iconografia dell’Oriente cristiano troviamo particolari raffigurazioni della Panaghia che riporto a seguire.
3) Panaghia Odigitria, “colei che mostra la direzione”: in cui la Vergine è rappresentata eretta e solenne nell’atto di indicare con la mano il Bambino seduto sulle sue ginocchia, che benedice e tiene il rotolo delle Scritture. Questa tipologia che ha come equivalente italiano la Madonna “che indica la via”, è tra le icone più celebri della Madre di Dio, venerata tanto in Oriente quanto in Occidente. Ed è in Occidente che diverrà il tipo fondamentale delle Madonne gotiche. Pensiamo ad esempio alla bellissima Madonna col Bambino realizzata nel 1230-1235 dal volterrano Berlinghiero Berlinghieri.
L’artista avrebbe conosciuto la tipologia della Vergine Odigitria dalle icone giunte in Italia dopo la caduta di Costantinopoli nel 1204. La Madre di Cristo indica il figlio quale via per la salvezza. Il Bambino, vestito come un filosofo dell’antichità, tiene in mano un rotolo.
La Madonna di Berlinghiero, dai tratti fortemente stilizzati, è caratterizzata da una bellezza solenne. L’artista, infatti, presta una particolare attenzione alla resa anatomica dei corpi e dei volti di Maria e di Gesù: le mani affusolate della Vergine, l’archetto fra le sue sopracciglia. E che dire poi del calcolato equilibrio fra le figure e del linguaggio misurato dei gesti e degli sguardi? Un linguaggio, quello di Berlinghiero, di una raffinata dolcezza che trasmette pienamente allo spettatore il significato dell’icona, sia a livello umano che teologico. Con la Madonna col Bambino di Berlinghiero Berlinghieri, dipinto di altissima qualità, il rapporto tra l’immagine di fede, di derivazione teologica, e la verità umana dei 2 protagonisti, raggiunge una fusione che sarà estremamente importante per le opere successive.
4) Panaghia Glykophilousa Eleoúsa, cioè Tutta Santa, tipologia che fa riferimento prevalentemente ad una qualità della sua persona, in cui i volti sono accostati nell’abbraccio mentre la Madre bacia dolcemente il Figlio.
E come non citare la Theotokos di Vladimir o Madre di Dio della tenerezza, una delle icone ortodosse più venerate e famose al mondo, tipico esempio di iconografia bizantina della tipologia eleusa. Questa icona fu dipinta a Costantinopoli nel XII secolo alla corte degli Imperatori Comneni.
Secondo le cronache medievali questa icona della Vergine di un anonimo artista bizantino arrivò da Costantinopoli a Kiev intorno al 1130. Nel 1131 il patriarca greco di Costantinopoli inviò l’immagine in dono al gran principe di Kiev Jurij Dolgorukij. L’opera restò nel Monastero di Mežyhir’ja fino al 1155, quando Andrej Bogoljubskij, figlio di Dolgorukij, distrutta una parte di Vyšhorod e rubata l’icona la portò nella città di Vladimir. Qui per custodire l’immagine, fu eretta la grande cattedrale della Dormizione, cui seguì la costruzione di altre chiese dedicate alla Madonna.
Nel 1395, durante l’invasione di Tamerlano, l’icona fu trasportata fino a Mosca.
Sopravvissuta nel corso dei secoli a un numero incredibile di saccheggi e incendi, l’icona è oggi custodita nella Galleria Tret’jakov di Mosca.
Con la Theotokos di Vladimir o Madre di Dio della tenerezza siamo dinanzi ad un capolavoro artistico che gode ancor oggi di una grande venerazione e che da sempre accompagna le vicende del popolo russo.
La particolarità espressiva di questa iconografia la riscontriamo nel modo in cui Madre e Figlio si abbracciano: la Vergine, non solo sorregge, ma stringe a sé con immensa tenerezza il Bambino il quale, poggiando la sua guancia su quella materna la guarda intensamente.
E se la Vergine con l’altra mano parrebbe indicare Gesù come la via da seguire, lo sguardo che Gesù rivolge a Maria fa identificare quest’ultima con l’immagine della Chiesa che riceve l’abbraccio di Cristo. La Madre di Dio di Vladimir riuscì a far inginocchiare persino Stalin, il “Koba”, l’indomabile.
La Chiesa ortodossa la festeggia il 3 giugno ed il 26 agosto.
L’equivalente occidentale della Panaghia Glykophilousa Eleoúsa è la Vergine “della tenerezza”.
Inizia ora la trasformazione dei caratteri iconografici di Maria, che superano la ieraticità e rigidezza di quelli orientali, per lasciare spazio da un ritratto di intonazione più marcatamente sentimentale come si può vedere nella Madonna della Tenerezza di Andrea Mantegna realizzata nel 1491. Si tratta di un’opera poco conosciuta in quanto appartenente da sempre a collezioni private.
È stato solo nel 2006, quando l’allora ultimo proprietario decise di donarla al Museo Civico Eremitani di Padova, che l’opera fu conosciuta dal pubblico. E mai titolo fu più appropriato data la suggestiva bellezza e l’incanto emanati dalla dolcezza dei gesti tra la Vergine ed il Bambino.
Madre e Figlio, stretti in un delicatissimo abbraccio, in un dolcissimo “guancia a guancia”, sperimentano un contatto di anime espresso dall’artista con un’incomparabile intensità espressiva. Dal punto di vista stilistico salta agli occhi la differenza cromatica tra figure e sfondo, le prime monocromatiche al punto da sembrare marmoree, il secondo colorato e realistico nel suo evocare monumenti archeologici (si riconoscono il Colosseo ed un sarcofago ai tempi ubicato in Santa Maria Maggiore con tutta probabilità ammirato dal Mantegna nel suo soggiorno romano di poco precedente). Ma cosa vorrà dirci l’artista con la sua decisione di porre delle rovine romane dietro a questa tenerissima Vergine? Si tratta dell’eternazione del valore evocativo di una statua inserita in un contesto di bellezza antica o piuttosto del desiderio di contrapporre una realtà passata come quella espressa dalle antiche rovine, con l’immortalità del valore, religioso ma anche laico, della maternità di Maria? Forse Andrea Mantegna voleva semplicemente dirci che il valore della sacra maternità di Maria è riassumibile nella tenerezza di un abbraccio al suo piccolo appena venuto al mondo. Dunque la Vergine non si limita più ad essere il trono o la “sede della Sapienza”, ma si mostra come una vera madre, legata a suo figlio nella carne.
5) Panaghia Nikopoia o Kyriotissa, “Colei che dà la vittoria”, è una tipologia di icona bizantina in cui Maria, rappresentata frontalmente, siede maestosa e severa su un trono e tiene con ambedue le mani il Bambino rivolto verso l’osservatore.
Si pensi alla Madonna Nikopoia di Santa Sofia a Costantinopoli. E forse fu per imitazione di questa tipologia di Madonna, che i veneziani posero un’immagine analoga nella Basilica di San Marco.
Questa Tipologia iconografica ha come equivalente occidentale la Madonna in trono (“Sedes sapientiae”) o “Maestà”, in particolar modo le Maestà toscane.
Pensiamo solo alla Maestà ed alla Madonna Rucellai di Duccio di Boninsegna o alla Maestà di Simone Martini.
Nella Maestà di Duccio il linguaggio del fiorentino Cimabue, suo principale modello di riferimento, viene aggiornato secondo il gusto senese, di lontana matrice bizantina, caratterizzato da grande eleganza e raffinatezza e da una maggiore idealizzazione rispetto alla pittura fiorentina.
In questo dipinto Duccio di Buoninsegna unifica due importanti generi di iconografia religiosa: la tavola della Vergine con il Bambino e la pala d’altare come polittico dove si rappresentano i più importanti eventi della salvezza.
La Madonna Rucellai costituisce un importante esempio del nuovo modo di interpretare l’iconografia della Madre di Dio.
La Vergine si stacca dal trono su cui è seduta mediante il manto blu (colore dell’eterno) che l’avvolge, come pure il Bambino, vestito di bianco e oro (colori del divino), risalta sulla figura di Maria, che forma per lui, secondo la tipologia bizantina della “Sedes Sapientiae”, un vero e proprio trono umano.
Le posture delle due figure, con le ginocchia piegate ad angolo retto, formano un blocco unico che evidenzia maggiormente la maternità divina di Maria. Ella, non indica il Bambino con la mano destra, ma gli sfiora il suo piede, alludendo a quella preghiera di intercessione caratterizzata da supplica e prosternazione. Si compendia così in un’unica immagine il tipo iconografico della Maestà con quello dell’Hodigitria.
L’estrema eleganza della Maestà di Simone Martini, in cui la Vergine con il Bambino seduta in trono, appare come una regina dell’epoca, con ai lati la sua corte celeste formata da santi, arcangeli e angeli, costituisce l’apice del gusto senese che qui raggiunge la massima perfezione ed un altissimo preziosismo (grazie al fatto che Simone Martini fosse un profondo conoscitore delle tecniche dell’oreficeria).
6) Panaghia Galaktotrophousa, nome che deriva dalla radice greca “galakt-”, che significa “latte”, e dal termine “trophein” ovvero “nutrire”. “Maria che allatta” porge il seno al Bambino che ha come equivalente occidentale la Madonna del latte.
Con questo nuovo tipo di iconografia mariana prosegue, accentuandosi, quel processo di intonazione sentimentale.
Penso all’Icona Madre di Dio del Latte esposta a Palazzo Pitti in cui è rappresentata la Vergine, con i capelli raccolti in una cuffia e la testa e le spalle coperte dal maphorion (il tipico manto bizantino), che scosta parte del suo abito bianco per dare il latte al Bambino. Ed ecco Ambrogio Lorenzetti con la sua Virgo lactans, Madonna del Latte del 1325, a riprendere la tradizione bizantina della Vergine Galaktotrophousa. Conservata a Siena nell’Oratorio di San Bernardino e Museo Diocesano di Arte Sacra, “La Madonna del Latte” di Ambrogio Lorenzetti, è un capolavoro assoluto per la qualità pittorica e può considerarsi l’archetipo iconografico del soggetto per la resa dei sentimenti.
La Vergine è ritratta, come da tradizione, con un maphorion blu oltremare dal bordo d’oro decorato con motivi geometrici, che copre un velo bianco, avvolto in sottilissime pieghe, delineate con grande virtuosismo, nell’atto di allattare il Bambino, il quale, mentre succhia voracemente il latte materno, si gira guardando qualcosa o qualcuno. I tratti fisiognomici della Vergine sono di un’eleganza inedita nella loro naturalezza: gli occhi a mandorla, il profilo lievemente allungato, le fini sopracciglia arcuate, gl’incarnati teneri e diafani.
La composizione, pur assumendo una monumentalità plastica, risulta estremamente naturale. La Vergine, che si trova spostata a sinistra rispetto al centro della tavola e il Bambino col suo piedino poggiato sul braccio materno, conferiscono all’immagine una grande spontaneità così lontana dalla rigidità e dalla frontalità delle icone bizantine.
Anche la luce non è più quella accecante delle icone bizantine: è una luce più pacata, intima, domestica che trasmette un senso di calma, di serenità.
Ambrogio Lorenzetti, nell’eseguire la sua Virgo lactans, rinnova radicalmente l’iconografia nel campo di quel processo di umanizzazione delle immagini sacre che stava interessando la pittura senese dei primi decenni del Trecento.
7) Panaghia Platytera, “la più ampia dei cieli” (letteralmente «con il corpo più grosso») che diverrà più tardi in Occidente la Madonna del Carmelo. Il concetto di ampiezza del corpo fa riferimento ad un testo del Padre della Chiesa San Basilio, secondo il quale Dio creò il corpo di Maria più grosso per accogliere il Cristo incarnato.
Il bambino è mostrato al mondo dalla madre all’interno di un cerchio, che allude al suo grembo e al suo cuore.
La Platytera più famosa era la Blachernitissa di Costantino-poli, purtroppo andata perduta.
A questi temi in comune fra oriente e occidente, si aggiungeranno successivamente altri temi: la Madonna della Misericordia o del Manto, che raccoglie i fedeli sotto il mantello (si tratta di un retaggio dell’epoca medievale, detto della “protezione del mantello”, che le nobildonne altolocate potevano concedere a perseguitati e bisognosi d’aiuto; ciò consisteva appunto nel dar loro simbolico riparo sotto il proprio mantello, considerato inviolabile); la Madonna del Roseto, cara al gotico fiorito; la Madonna dell’Umiltà, seduta in terra col Bambino in braccio; la Vergine addolorata o Pietà; l’Immacolata, tema diffuso dall’arte barocca, raffigurante la Vergine vestita di bianco che poggia sulla falce di luna e schiaccia col piede il serpente, simbolo del peccato originale.
Al termine di questo excursus sull’iconografia mariana in Oriente ed Occidente, vediamo come le varie espressioni tipologiche delle icone mariane, sviluppatesi fra Bisanzio e Roma, abbiano le stesse radici e ci dimostrano come abbiano saputo tradurre in immagini la riflessione teologica sulla Theotokos così come sulla Panaghia. E continuano a rendere Maria sempre presente come Colei che intercede per l’unità della Chiesa. Personalmente in questo particolare momento storico, tormentato da guerre, femminicidi, crescita delle diseguaglianze sociali e della povertà, mi piace pensare alla Panaghia Glykophilousa Eleoúsa quella Madonna della Tenerezza cui chiedo di proteggere con la tenerezza di una madre questo mondo che ha smarrito la retta via. Siamo nell’Avvento, periodo che ci esorta a corroborare atteggiamenti interiori quali l’attesa, la fiducia, la speranza. E sì voglio sperare che la Madonna della tenerezza vegli su di noi. Buon Natale a tutti.
“Maria Santissima è veramente la mistica scala per la quale è disceso il Figlio di Dio sulla terra e per cui salgono gli uomini al cielo” (Sant’Agostino)