Minima Cardiniana 448

EDIZIONE STRAORDINARIA
Pubblichiamo, come edizione straordinaria e primo numero del nuovo anno, il dibattito ispirato da una proposta di Mario Capanna, pubblicata sul quotidiano l’Unità, in merito all’istituzione di un “parlamento mondiale eletto da tutti i popoli per la salvezza dell’umanità”.

COSTRUIAMO IL PARLAMENTO MONDIALE ELETTO DA TUTTI I POPOLI, PER SALVARE L’UMANITÀ DALL’APOCALISSE
di Mario Capanna
Mai come in questo momento il pianeta è vicino al collasso e all’autodistruzione. Le cause? Le guerre, il mostruoso sfruttamento ambientale, la concentrazione delle ricchezze nelle mani dell’un per cento dei suoi abitanti. La via d’uscita è la democrazia piena. Cioè l’autogestione dell’umanità.
Ciò che riguarda tutti deve essere deciso da tutti (Codice giustinianeo)
Nel corso della sua travagliata storia millenaria, l’umanità non ha mai avuto – non si è data – una entità che la rappresentasse globalmente, nell’interezza delle diversità dei popoli che la compongono. Non si è mai concepita come un’unica famiglia umana, che abita un pianeta fragile, l’una e l’altro ormai minacciati da pericoli inediti che, per la prima volta, ne mettono a repentaglio il futuro.
I risultati di questa enorme carenza sono sotto gli occhi: l’umanità e il mondo sono dominati dall’anarchia, dove a prevalere sono gli interessi dei più forti. Regna sovrana la prepotenza. Il cosiddetto “diritto internazionale” è ridotto a una semplice parvenza, piegato, di volta in volta, a servire il predominio delle potenze in grado di imporsi sulle altre.
Così l’umanità e il mondo sono oggi prossimi al collasso, gravati da emergenze che, nella loro radicalità distruttiva, non si erano mai viste in precedenza, simultaneamente. Per la prima volta è a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana.
Per i mutamenti climatici, per la ripresa compulsiva della corsa agli armamenti sia convenzionali che nucleari, per le guerre in atto – “la terza guerra mondiale a pezzi”, che è in corso, secondo le pertinenti parole di Papa Francesco – per le guerre commerciali quasi devastanti come quelle degli eserciti, per il predominio del profitto capitalistico che ci ha portato alla società dell’1 per cento: l’1 per cento dell’umanità possiede ricchezze e beni che superano quelli del 99 per cento! Mai si era visto un accaparramento di risorse così concentrato.
Per l’insieme di questi fattori gli scienziati e i premi Nobel, che sovrintendono al Doomsday Clock – “l’Orologio dell’Apocalisse” – all’inizio del 2020, prima della pandemia del Coronavirus, hanno spostato le lancette a 100 secondi dalla mezzanotte, che simboleggia la fine del mondo.
Si tratta dell’orario più vicino al “giorno del giudizio” dal 1953 (anno dello sviluppo della bomba all’idrogeno da parte di Usa e Urss).
L’uomo contemporaneo è portato a non pensare a questo preoccupante orizzonte, imprigionato com’è in quel materialismo quotidiano da cui si lascia pervadere, alimentato da una sapiente (insipiente?) propaganda parcellizzata, che spezza, e frantuma di continuo, il quadro d’insieme del mondo.
Così gli 8 miliardi di donne e uomini, che compongono oggi l’umanità, sono indotti a non rendersi conto che, per continuare a vivere ai ritmi attuali, avrebbero bisogno di due pianeti, anziché dell’unico che abbiamo. Si è giunti a questo punto – vicini al non ritorno – per lontane ragioni storiche e culturali.
Dalla fondazione delle prime città, all’incirca 5 mila anni fa – dapprima con le città-stato, poi con le nazioni e quindi con gli imperi – l’umanità si è concepita basata principalmente sulla divisione: divisione-separazione per etnie, per localismi, per interessi economici, per visioni religiose.
Una continua lotta per l’egemonia sfociata quasi sempre nella guerra, fino a quelle mondiali, e a quelle in atto. Non si pone sufficiente attenzione sul fatto che è con le prime città che nascono gli eserciti, le burocrazie, la guerra. Ma 5 mila anni sono un battito di ciglia nella storia.
È consolante rilevare che, per più del 90 per cento del tempo in cui l’uomo ha camminato eretto, il concetto di guerra gli era sconosciuto, come mostrano gli studi di etnologia comparata. Dunque le attuali condizioni del mondo non sono il risultato di una presunta natura umana votata, irreversibilmente, all’autodistruzione.
Quella che definiamo “natura umana” è il risultato di una costruzione storica, che dunque può essere superata da un’altra costruzione storica, basata su una diversa visione del mondo. Perciò Einstein ha scritto a buon diritto: “L’umanità avrà la sorte che saprà meritarsi”. Il punto è proprio questo: saremo in grado di costruire una “sorte” diversa da quella che ci si sta profilando?
I mutamenti climatici sono il nuovo paradigma che sta mettendo a repentaglio il mondo. L’avvelenamento dell’atmosfera, prodotto dalle attività umane subordinate al profitto capitalistico, ha raggiunto traguardi crescenti di allarme. Nell’ultimo secolo abbiamo bruciato immense quantità di carbone, gas e petrolio, al ritmo di 70 milioni di tonnellate di CO2 immesse nell’atmosfera ogni 24 ore.
La conseguenza è stata che le concentrazioni di anidride carbonica – che in più di un milione di anni non erano mai giunte a 300 parti per milione – all’inizio del terzo millennio sono salite a 338 ppm. La Conferenza di Parigi sul clima (dicembre 2015), presentata come un accordo storico fra i 195 paesi firmatari, prevedeva di contenere al di sotto dei 2 gradi il riscaldamento globale entro il 2020: proposito che si è rivelato di gran lunga insufficiente.
Infatti: alla fine del 2016 l’agenzia meteorologica dell’Onu informava il mondo che, nel 2015, la concentrazione di anidride carbonica aveva superato le 400 ppm, infrangendo quella che era considerata la soglia-simbolo. Continuando così, avvertono i climatologi, rischiamo di avere causato, in meno di 50 anni, un cambiamento climatico mai verificatosi in 50 milioni di anni.
In presenza di uno stato di cose così preoccupante, il mondo è “governato” dall’unica entità sovranazionale esistente: l’Onu. Le Nazioni Unite, come il nome stesso indica, rappresentano l’insieme delle entità nazionali e degli stati cui hanno dato vita.
Sotto questo profilo esse sono l’evoluzione e la proiezione moderna delle… città-stato: l’umanità non viene rappresentata in quanto tale, come specie e dunque come entità globale, bensì nel suo essere frazionata nelle diverse particolarità nazionali e statuali, che hanno interessi differenti e, spesso, contrastanti, quando non antagonistici.
Di conseguenza i rapporti in seno all’Onu non sono bilanciati in vista dell’interesse umano comune, ma fondati sugli stati di serie A, di serie B e C… La governance dell’Onu risiede nel Consiglio di Sicurezza, dominato dagli stati di serie A, ovvero i suoi cinque membri permanenti: Usa, Cina, Russia, Francia, Inghilterra (non a caso tutte potenze nucleari).
Ognuno dei cinque, come è noto, si è arrogato il diritto di veto: sicché qualsiasi decisione, che non vada a genio ai cinque Stati – o anche a uno solo di loro – è bloccata e resa vana dal veto. L’Assemblea generale può prendere sì decisioni, ma le sue deliberazioni non hanno valore vincolante per le nazioni del mondo.
Ecco le ragioni di fondo per cui l’Onu, nata in un preciso momento storico dopo la seconda guerra mondiale, si rivela sempre più obsoleta e del tutto incapace di regolare i destini della Terra: ad attestarlo è il marasma attuale del mondo. Naturalmente l’Onu fa anche cose buone: se si va a leggere la sua Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, gli obiettivi che vi sono indicati sono del tutto condivisibili. Il problema è: dove sono i risultati concreti, anche dei programmi precedenti?
Sono i presupposti e la struttura che non funzionano. Al riguardo è evidente che il Consiglio di Sicurezza è il ferro vecchio più arrugginito. Più che decidere, per i meccanismi che lo regolano, il suo scopo è permettere di non decidere. I cinque membri permanenti rappresentano, insieme, poco più di 2 miliardi di persone: una netta minoranza della popolazione mondiale.
Perché gli altri 6 miliardi di cittadini dovrebbero sottostare alle loro decisioni (e non-decisioni)? Tanto più che non li ha eletti nessuno, si sono… autoeletti… Da che l’Onu esiste, si è sviluppato, soprattutto negli ultimi tempi, un dibattito a intermittenza circa la necessità-possibilità della sua riforma.
Inutile dire che il dibattito non ha mai portato a nulla, sia perché manca la sede decisionale su cui il dibattito stesso possa poggiarsi sia perché i cinque membri permanenti non vogliono saperne di allargare il cerchio e, poi, perché i candidati (autocandidati?) a entrare nel giro sarebbero molti, per di più in lizza fra di loro. Sicché la situazione risulta bloccata ed è destinata a restare tale.
In questo aggrovigliato contesto è Papa Francesco a mettere in rilievo (v. Enciclica Fratelli tutti) la necessità di “prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali”.
Senza tuttavia spingersi a indicare quali dovrebbero essere quelle organizzazioni. Una organizzazione mondiale più efficace, “dotata di autorità per assicurare il bene comune mondiale”, può sorgere solo se l’umanità nel suo insieme, comprendendosi come specie – ovvero come grande famiglia di persone coinvolta(e) in un unico destino su un pianeta ridotto allo stremo – deciderà di costituirla. Costituire l’Assise dei popoli del mondo per l’autogestione dell’umanità: ecco ciò che è necessario e urgente.
Il Parlamento Mondiale (d’ora in poi PM), eletto da tutti i popoli secondo il criterio della democrazia rappresentativa – una testa, un voto – può e deve diventare la sede tramite la quale l’umanità, per la prima volta nella sua storia, si autodetermina, uscendo finalmente da quello stato di succubanza su cui si è finora schiacciata, frazionandosi per particolarismi nazionali.
Significa che l’umanità matura e assume la coscienza di sé come specie, nessuna frazione esclusa, e decide lo sviluppo (la sopravvivenza?) del suo presente e del suo futuro, in rapporto a tutti gli altri esseri, con cui è in relazione ineliminabile. Significa elevare al massimo grado la propria intelligenza collettiva, divenendo capace di inter-legere e intus-legere (“leggere fra” e “leggere dentro”) nella complessa realtà dell’esistenza comune del mondo.
Il PM può essere composto da mille membri – un eletto ogni 8 milioni di abitanti della Terra (poco più dei deputati attuali del Parlamento europeo). Un’assemblea perfettamente gestibile e operativa, dove tutti i popoli vengono rappresentati con pari dignità, senza che ci siano quelli di serie A, B, C…
Oltre le riunioni plenarie, dove si prendono le decisioni fondamentali riguardanti tutto il mondo, si struttura per commissioni di lavoro sui temi di maggiore importanza. Il PM dura in carica 5 anni ed elegge il suo presidente, che diviene il Presidente dell’Umanità globalmente rappresentata. Si può immaginare la sua autorevolezza se paragonata a quella del segretario dell’Onu…
Lasciando agli Stati la gestione dei problemi interni di ogni singola nazione, il PM delibera sulle questioni basilari dell’umanità: la pace – la guerra deve diventare un tabù – il disarmo a partire da quello nucleare, la salvaguardia dell’ecosistema terrestre, i diritti e i doveri fondamentali, lo sradicamento della fame, le produzioni eque e solidali e l’introduzione dell’onesto guadagno – al posto del profitto onnivoro – la giusta distribuzione delle risorse, le migrazioni, la difesa e l’incremento di tutti i beni comuni.
Le sue deliberazioni verranno accettate dai popoli, che lo hanno eletto direttamente, in una continua – e feconda – dialettica fra “centro” e “periferie”, dove i movimenti coscienti dal basso costituiranno una linfa vitale. Dal punto di vista tecnico, l’elezione del PM non presenta affatto ostacoli insormontabili: seguendo i fusi orari, in un giorno di vota dappertutto e l’indomani si conoscono i risultati.
È evidente che il problema è prettamente culturale e politico: lasciare la vecchia strada per la nuova. E però ormai vediamo che proseguire sulla vecchia e non imboccare la nuova può comportare conseguenze irreparabili. È ovvio che la proposta di PM può essere criticata sotto vari aspetti. Ma chi la rifiuta (chi la ritiene utopica, velleitaria ecc.) ha il dovere di proporre un’alternativa. Quale? Andare avanti con l’oligarchia attuale, e i suoi effetti deleteri?
D’altra parte, grandi sono i movimenti sotto il cielo. L’egemonia degli Usa, come regolatori planetari, è in fase di declino. Per esempio: i Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), che stanno aumentando di peso e di numero, stanno a significare che il mondo, pur fra contraddizioni, si muove verso il multipolarismo. Uno spazio nuovo si sta aprendo.
L’idea del PM comincia a farsi strada. Il libro, a mia cura, Il risveglio del mondo (Mimesis, 2022) contiene gli interventi di numerose personalità – della cultura, della filosofia, del diritto, della scienza, dell’arte, del giornalismo ecc. – che, con sensibilità diverse (laiche e credenti, per esempio, e di differente orientamento culturale), argomentano in profondità e dicono che la proposta è proporzionata rispetto al marasma attuale del mondo.
I 2500 scienziati, che hanno elaborato nel 2007, per conto dell’Onu, il rapporto sui mutamenti climatici, in modo unanime consegnavano all’umanità un messaggio inequivocabile: rilevato che “il 90 per cento dei mutamenti atmosferici è causato dall’uomo”, essi ammonivano: “Si avvicina il giorno in cui il riscaldamento del clima sfuggirà a ogni controllo. Siamo alle soglie dell’irreversibile”.
Per scongiurare il superamento del punto di non ritorno, gli scienziati ci raccomandavano di tenere presente che “non è più il tempo delle mezze misure” (come quelle adottate nella Conferenza di Parigi) e ci affidavano tre indicazioni imperative: “È il tempo della rivoluzione delle coscienze, della rivoluzione dell’economia, della rivoluzione dell’azione politica”.
Il PM è sia la conseguenza – il risultato – di quelle tre rivoluzioni sia il mezzo per realizzarle compiutamente. È la sede attraverso cui possiamo e dobbiamo gestire in comune il bene comune più prezioso che abbiamo: la nostra vita – e quella di tutti gli altri esseri.
L’umanità e il mondo sono inscindibilmente interdipendenti: comprendere appieno questo è la consapevolezza più alta che l’umanità può e deve raggiungere. La coscienza di specie si dilata fino a divenire coscienza globale: la comprensione che la parte è collegata al tutto e il tutto è più delle singole parti che lo compongono.
Va da sé che non si arriverà al PM senza quella rivoluzione delle coscienze che gli scienziati, non a caso, hanno indicato per prima – e come condizione necessaria per realizzare la rivoluzione dell’economia e quella dell’azione politica. È necessario costruire – entro ciascuno di noi e in noi tutti – quella che i greci chiamavano metànoia: “correzione di pensiero”, “mutamento di parere”, in senso lato “conversione”.
Già Einstein ci aveva ammonito al riguardo: “Occorre un vero e proprio nuovo modo di pensare se l’umanità deve sopravvivere” (corsivo mio). Certo, il PM costituisce un traguardo non facile da raggiungere, ma è indispensabile se l’umanità vuole sfuggire allo stato di divisione impotente in cui finora ha accettato di lasciarsi ridurre.
Come tutte le costruzioni dell’uomo sarà imperfetto, non sarà dunque la panacea. Ma è l’unica strada attraverso cui l’umanità potrà scongiurare la propria estinzione. E costruire il suo futuro.
(l’Unità, 26 novembre 2023)

Risposta imperfetta (ma non evasiva) a Mario Capanna
UN PARLAMENTO MONDIALE? PRIMA DELLA QUESTIONE DEMOCRATICA C’È UN IMPERATIVO ETICO: LA REDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA
di Franco Cardini
Destra e sinistra sono parole obsolete che non mi interessano più. La lotta di classe? L’hanno vinta i ricchi come ci ha spiegato Revelli. Ora dobbiamo sperare nei ragazzi che non hanno ancora 20 anni. Del resto ce lo diceva pure Gesù: solo i bambini ci salveranno.
Caro Mario,
mi sono molto piaciuti il coraggio, l’entusiasmo e la freschezza – guarda che questo è un apprezzamento altamente positivo: e che non sto facendo dell’ironia – con i quali, alcuni giorni or sono, hai affrontato il problema dell’inadeguatezza rispetto alle esigenze del giorno d’oggi sia della Carta delle Nazioni Unite, di ormai tre quarti di secolo fa, sia delle istituzioni dell’ONU ingabbiate e poste in permanente ricatto da parte delle cinque potenze mondiali riunite in Consiglio di Sicurezza che le controlla e ciascuna delle quali dispone della micidiale arma del “diritto di Veto”.
D’altronde, come sostituire questa squallida farsa – e il recente scandaloso “veto” statunitense alla proposta di una pur brevissima tregua nel macello israeliano-palestinese ne dimostra l’ornai irreversibile inutilità – con un effettivo sistema “democratico”? E di quale democrazia stiano parlando?
La tua proposta è l’elezione di una nuova rappresentanza a scegliere la quale siano chiamati tutti gli abitanti della terra, con voto individuale, senza alcuna distinzione di appartenenza a realtà societarie o comunitarie di sorta.
È evidente che in tempi di globalizzazione matura tutto ciò può ben esser tradotto in qualcosa di praticabile: ma, per corrispondere a un percorso concepibile in termini concreti, necessita di ulteriori indicazioni di qualità, di metodo e d’indirizzo.
Quali? È evidente che ci aspettiamo da te (o, quanto meno, che io mi aspetto) un piano organico di riforma, arduo magari, ma affettivamente applicabile. Credo che dovresti metterti al lavoro, poi magari andremo avanti tutti insieme: lo scopo della battaglia è chiaro e – anziché bollarlo pregiudizialmente come utopistico – attendiamo adesso che tu indichi al riguardo una tattica e una strategia plausibili.
Consentimi però intanto di osservare che così com’è, per il momento, il tuo pensiero somiglia a quello che secondo Giovanni Gentile caratterizzava i comunisti degli Anni Venti-Trenta del secolo scorso: i quali, a detta del grande filosofo siciliano che li guardava dalla sponda della sua scelta fascista con un’evidente (paradossale ma non troppo) simpatìa, erano “dei corporativisti impazienti”.
Il paragone non deve né offenderti né sembrarti provocatorio, caro Mario: il fatto è che, con il tuo miraggio di un suffragio universale esteso a tutti gli esseri umani sulla base di un impeccabile postulato del diritto giustinianeo, peraltro con valenza esclusiva nel diritto privato (quod omnes tangit, ab omnibus adprobari debet), tu fissi come punto di partenza quello che dovrebbe semmai costituire un punto d’arrivo.
Mi sembra che sia necessario invertire quello che ora è per te un “cànone inverso”: e che tu debba rispondere al classico, leniniano “Che fare?” per spiegarci in che modo giungere a quella che tu, con cristallina evidenza, definisci appunto metànoia. Parola altissima, straordinaria, che si può tradurre con “totale cambiamento”, magari addirittura “rivoluzione”: e che Paolo di Tarso usa nel senso cristiano di “conversione”.
Che ci si debba convertire all’assoluta e perfetta democrazia è tua convinzione; io nutro molti dubbi al riguardo, ma se tu me ne insegnassi la strada ci potrei anche stare. Per ora, sono d’accordo con te su un principio: come direbbe Catone il Censore, et hoc censeo, ONU delenda est; e prima ancora, con la massima urgenza possibile, NATO delenda est.
Ciò irrinunziabilmente premesso, procedo nel mio ragionamento con gli umili strumenti offertimi dal magistero della storia e con l’ausilio del “disincanto” weberiano. E comincio dal momento della Grande Rottura: l’Eccezione occidentale.
La storia ha sempre proceduto secondo fasi di discontinuità spesso imprevedibili e comunque inevitabili: ma il Grande Balzo è maturato – dopo un paio di secoli di preparazione – fra Quattro e Cinquecento, allorché la cultura euro-occidentale ha fatto saltare con le sue scoperte e le sue invenzioni l’antico equilibrio di un’umanità “a compartimenti stagni” ed ha inaugurato con l’economia-mondo la globalizzazione che avrebbe quindi gestito nel nome dei suoi specifici parametri concepiti e proposti però come i soli veramente “universali”.
A metà Quattrocento però Nicola Cusano guardava nel suo De pace fidei alle antiche tradizioni extracristiane ed extraeuropee allora in procinto di venir sommerse e soggiogate: e sognava una sintesi che nei secoli successivi apparve inattuale e impossibile, mentre oggi torna a proporsi come necessaria.
Oggi, libri come Il furto della storia di Jack Goody (Feltrinelli 2008) e La democrazia degli altri di Amartya Sen (Mondadori 2004), del resto preceduti da un “classico” quale Il mondo e l’Occidente di Arnold J. Toynbee (Sellerio 1992), hanno contribuito a chiarirci le idee liberandoci da schemi ormai invecchiati e chiarendo quella che già per Claude Lévi-Strauss era, antropologicamente parlando, la “ragione nascosta” delle culture diverse dalla nostra e con le quali la globalizzazione ci obbliga a confrontarci facendola finita una volta per tutte con l’occidentocentrismo ch’è la nostra vecchia malattia; mentre scritti quali Chi sono i padroni del mondo di Noam Chomsky (Ponte alle Grazie 2007) hanno avviato forse definitivamente il tempo del disincanto sfrondando gli allori dei quali si sono troppo a lungo adornati gli altari della Libertà individualistica e del Progresso turbocapitalista e avviando il tempo di un multilateralismo ormai necessario, che possa affrontare sul serio l’autentico grande problema dei nostri tempi: l’urgenza di una più equa ridistribuzione della ricchezza nel mondo.
Ch’è questione non primariamente economica, bensì essenzialmente, intrinsecamente etica per tutto il genere umano il quale si rifiuta di esser trattato da oggetto schiavo delle “leggi del mercato” in un mondo governato dalle lobbies oligarchiche degli happy few e paradossalmente assoggettato al “pensiero unico” socioculturale (l’omogeneizzazione e il livellamento di cui già parlava Pasolini) mentre l’incudine economica e il martello finanziario, con le loro “ferree logiche” iperliberiste, lo ritagliano sul filo spietato di una forbice fra i pochissimi troppo ricchi e i moltissimi troppo poveri che si va allargando di giorno in giorno.
Ho cercato di precisare questi problemi e queste istanze in un saggio recente, La deriva dell’Occidente (Laterza 2023), ch’è stato giudicato “un libro di destra scritto da uno di sinistra, o forse un libro di sinistra scritto da uno di destra”: definizione questa certo ironica, forse polemica, ma che mi sembra comunque ben qualificare la mia reticenza a collocarmi dall’una non meno che dall’altra parte.
Quelle parole, divenute insignificanti perché abusate, non m’interessano. In un mondo che cambia ancora più rapidamente di quanto sembri – meditate sul numero di aprile 2023 del “National Geographic Italia”, dall’eloquente titolo “8 miliardi. Il Paradosso” –, le nostre cognizioni non possono più affidarsi alla disinformazione mediatica né contare sull’educazione standardizzata e obiettivamente obsoleta che (nonostante le buone intenzioni di molti) continua a venir diffusa dalle istituzioni scolastiche.
Per svegliarci, cominciamo a meditare attentamente su quanto scrive Marco Revelli, La lotta di classe esiste. E l’hanno vinta i ricchi (Laterza 2020). I “lavoratori di tutto il mondo” che avrebbero dovuto unirsi a metà Ottocento erano essenzialmente quelli del triangolo magico tra Londra, Parigi e Berlino, ma oggi la realtà è diversa: da Pechino e da Tokyo a Los Angeles, passando per Ulan Bator e New Delhi, per Mosca e per Teheran fino al Cairo, a Cape Town, a Buenos Aires. E il miserando “popolo dei gommoni” sul Mediterraneo ne è solo l’avanguardia.
I grandi problemi del momento, dal riscaldamento e dall’inquinamento ambientali al disordinato e fragile incremento demografico fino all’intelligenza artificiale e alle questioni della selezione delle élites e dell’organizzazione del consenso che stanno alla base delle dinamiche “democratiche” ma ne costituiscono anche la minaccia hanno bisogno di esser guardati con occhi nuovi e spregiudicati.
Il libro di Zygmunt Bauman Modernità liquida (Laterza 2003), ormai divenuto un “classico”, ha segnato proprio all’inizio del nostro secolo – e del nuovo millennio – la Jahrhundertswende di una storia del mondo che stava ormai voltando pagina, come tragicamente era stato annunziato dall’11 settembre di due anni prima della sua pubblicazione.
E il 18 giugno 2015 papa Francesco, promulgando l’enciclica Laudato si’ dedicata alla “cura della casa comune”, ha formulato pacatamente una serie di denunzie, documentate e terribili, a proposito della perdita delle diversità culturali, del rapporto tra deterioramento della qualità della vita e degrado sociale, dell’“inequità” (ardito e pittoresco ispanismo che efficacemente coniuga ineguaglianza, ingiustizia e iniquità) che domina il pianeta, della subordinazione dei doveri e dei còmpiti comunitari all’interesse dei pochi, della tragica complicità tra concentrazione del potere e della ricchezza da una parte, crescenti impoverimento e sottoproletarizzazione di massa dall’altra.
Ho sintetizzato il pensiero del Santo Padre nel saggio Un uomo di nome Francesco, Mondadori 2015: una provocazione che quasi nessuno ha raccolto. Lascio a chi vorrà farlo l’indagare le ragioni di questa sfida andata a vuoto. Tu, caro Mario, ci hai suggerito da dove cominciare: ma in realtà ci hai indicato l’approdo della nostra nuova nave di Ulisse. Sta a noi, ora, tracciare la rotta.
Quale dovrà essere la prima tappa? Forse, una sveglia da dare con energia ai giovanissimi europei, quelli ancora vergini dal consumismo e dai suoi deleteri effetti di corruzione di rimbecillimento progressivi. Quelli che intraprendono adesso il cammino del loro secondo decennio di vita, perché i meno giovani di così sono, nel “nostro Occidente”, nella maggior parte dei casi già perduti e corrotti.
Ricominciamo da loro nella nostra battaglia per liberare l’umanità dalla superstizione dell’Avere per riportarli all’Essere. Impostiamo insieme con loro la lotta contro il Nulla che avanza. Prendiamo alla lettera Gesù: o si torna bambini, o non si entra nel regno dei cieli: ch’è, umanamente, quello della giustizia e della solidarietà.
Ecco il punto, in sintesi. Debbo forzatamente concludere con una citazione da papa Francesco: “La nostra non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca”.
(l’Unità, 27 dicembre 2023)

PARLAMENTO MONDIALE, UN’UTOPIA CONCRETA
di Giacomo Marramao
Un’utopia? Certo, ma è una di quelle che Ernst Bloch chiamava le utopie concrete. Torniamo a creare orizzonti alla politica, come fu negli anni della rivoluzione intorno al 1968.
In questo mondo che brucia – un mondo flagellato da una guerra nel cuore dell’Europa, un’altra nel cuore del Medioriente, una terza guerra mondiale scomposta in frammenti, e dalla contrazione del tempo determinata dall’Antropocene che in mezzo secolo ha alterato l’ecosistema planetario come mai era accaduto da cinquanta milioni di anni – l’idea di un Parlamento Mondiale si presenta come una proposta fecondamente visionaria in grado di rompere il muro dell’opacità e la zona grigia dell’indifferenza.
Tacciare di utopia questa proposta sarebbe banale: miserabile riflesso condizionato di quel falso realismo politico che sta conducendo a una soglia critica le condizioni di esistenza della specie umana sul pianeta Terra.
Esiste qualcosa di più realistico della rilevazione che l’ONU, la sola istanza di governo del mondo, è pressoché ridotta all’impotenza essendo bloccata dalla clausola dell’unanimità che vincola un Consiglio di Sicurezza composto di cinque membri che rappresentano insieme non più di un quarto della popolazione del pianeta?
Confesso di non amare molto il termine utopia. Ma, se proprio vogliamo usarlo, dovremmo parlare di qualcosa di prossimo a quella che Ernst Bloch – e, sulla sua scorta, Lelio Basso – definivano “utopia concreta”. Un’utopia immanente alla dinamica storica che oggi, nella drammatica situazione attuale del mondo, non può che assumere il carattere e il timbro di un ultimatum.
Un ultimatum che ha come suo stabile referente la mondialità, la dimensione globale dei problemi. Dove sta l’origine dell’attuale pandemia, che ha trasformato il nostro mondo-ambiente in una “virosfera”?
L’origine va ricercata – mi è già capitato di scrivere – in quella violenza “estrattiva”, esercitata sulle materie prime e sulle forme di vita animali e vegetali, che ha contrassegnato l’Antropocene a partire dall’epoca industriale, determinando il global warming, la riduzione del patrimonio forestale e con esso l’espulsione dal loro habitat naturale di molte specie e il conseguente fenomeno della “zoonosi”, dello spillover, del salto del virus dall’animale all’uomo.
Catena di disastri globali che toccherà affrontare, e sperare di superare, solo globalmente: per la semplice ma decisiva ragione che, come ha icasticamente ricordato Joseph Stiglitz, “i virus, come il riscaldamento globale, non hanno bisogno di passaporto per fare il giro del mondo”.
Proprio per questo, un’utopia immanente come quella che è alla base della proposta di un Parlamento Mondiale (o anche, per altri aspetti, della proposta di una Costituzione della Terra portata avanti dalla Fondazione Basso, su iniziativa di Raniero La Valle e Luigi Ferrajoli) si presenta più realista di quella Realpolitik che, nella sua pervicace rimozione dell’attuale stato del mondo, rivela l’impotenza di un potere sempre più incapace di cogliere i segni dei tempi.
Permettetemi adesso di dare alle mie riflessioni un carattere più personale e testimoniale: dopotutto, la politica non si nutre soltanto di idee e di concetti ma anche di esperienze e di passioni…
Sono convinto che lo scenario degli orrori cui stiamo assistendo in questi anni dipenda direttamente da un vuoto: dall’assenza di movimenti di liberazione capaci di dare nuovo senso all’agire politico. Basti pensare alla portata liberatoria delle lotte delle donne iraniane e all’entusiasmo generato dalle recenti manifestazioni femminili di massa in Italia.
Sono così ritornato a un’esperienza comune a me e Mario Capanna. Ho sempre pensato il Sessantotto come una catena di lotte attraversata dal vissuto della mondialità. Anche per questo la rottura di quegli anni ha assunto il rilievo di un evento di portata mondiale. Ho un vivo ricordo dell’intensa e appassionata assemblea del novembre 1967 a Firenze, nella quale sono riuscito, con l’aiuto di Mario Capanna, a far votare l’occupazione della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Ma il “mio” Sessantotto, preparato dalla lettura dei testi di Marx negli anni del liceo, era iniziato prima: nei giorni immediatamente successivi all’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966.
Con l’arrivo in città di giovani di tutti i continenti (non solo europei e americani ma africani, mediorientali, asiatici, australiani), avvenne qualcosa di incredibile e di inatteso, come se venissimo tutti trascinati dalla forza misteriosa dello Zeitgeist, dello “spirito del tempo”: si creò una vera e propria comunità transnazionale fondata sulla condivisione degli stessi gusti, delle stesse esigenze, dello stesso spirito di ribellione, in parte anche delle stesse letture.
Incredibile, a ripensarci, come tanta affinità e comunanza potesse realizzarsi nel mondo della guerra fredda, diviso nei due blocchi, più di quanto non sia possibile nell’odierno mondo globalizzato.
Non intendo proseguire oltre nei ricordi e la faccio breve. Sta di fatto che, da quello spontaneo confluire a Firenze di giovani provenienti da lingue, tradizioni e paesi diversi era scaturita una esperienza di mondialità in cui continuo a scorgere l’onda lunga del Sessantotto, che ho poi ritrovato in altre città dove ho avuto modo di risiedere a lungo, come Francoforte, o con una certa frequenza, come Parigi e New York.
Un’onda che ho ritrovato nel testo di Mario Capanna e negli altri che compongono il volume con la proposta del Parlamento Mondiale. E che io stesso ho tentato di portare avanti nelle diverse tappe del mio percorso filosofico, mettendo a fuoco i centri gravitazionali che il presente di volta in volta esibiva: le trasformazioni del Politico; l’implosione del futuro; la critica del postmoderno; il nesso globale-locale; l’inversione del rapporto tra Occidente e Mondo; la doppia logica del mondo globale (contrassegnato da uniformazione e diaspora, interdipendenza e conflittualità).
Tutte queste tappe sfociano in una tesi compendiata in un concetto che ritengo utile nella prospettiva del Parlamento Mondiale: universalismo della differenza. In contrasto con il carattere suprematistico dell’universalismo identitario, occorre ricostruire l’universalismo a partire dal criterio e dal vertice ottico della differenza.
In breve: la differenza va assunta come la trama ontologica dell’universale. Trasferita alla dimensione pratica, la tesi comporta l’assunzione della traduzione come progetto politico: l’universale sarebbe così il risultato non di un compromesso contrattuale, di un overlapping consensus, ma di un lavoro di traduzione reciproca tra contesti di tradizione e forme di vita differenti.
Per questa via il Parlamento Mondiale potrebbe essere uno strumento per rigenerare la politica, conferendole un luogo che si collochi oltre la logica interstatale e al tempo stesso imprima una svolta democratica a una globalizzazione che è violenta proprio perché falsamente globale.
Compito arduo, dal momento che avviamo una navigazione in acque sconosciute, come segnala la splendida frase di Einstein: “I problemi non possono essere risolti allo stesso livello di pensiero che li ha generati”.
Sembra un controcanto alla celebre affermazione di Marx nella prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica: “L’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere”.
Ma ora si tratta di rimettere al mondo il mondo: di dargli spazio e voce in un’Assise rappresentativa di tutti i popoli, nella quale le donne dovrebbero avere – finalmente – una funzione di guida.
Per questo quella di Capanna non si presenta come una mera esortazione. Ma ha piuttosto il carattere di un vero e proprio ultimatum.
Un ultimatum contro la guerra, in primo luogo. L’autore di queste righe, al pari di Gino Strada, non è un pacifista. È – semplicemente e risolutamente – contro la guerra. Per la decisiva ragione che la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire.
Le manifestazioni oceaniche delle donne stanno a indicarci che abbiamo perduto troppo tempo. Sbrighiamoci, allora, e andiamo avanti progettando un Parlamento Mondiale capace di opporsi ai poteri costituiti del patriarcato e del post-patriarcato, conferendo un ruolo dirigente alle donne più sensibili del pianeta.
(l’Unità, 1 gennaio 2024)

LA COMUNITÀ LOCALE AL POSTO DEL PARLAMENTO (MONDIALE)
di David Nieri
So di non avere alcuna competenza per esprimere un’opinione in materia. Sono un ex ragazzo di campagna e tale, probabilmente, in epoche diverse, sarebbe stato il mio destino: la terra e la zappa. Sto cominciando a pensare che sarebbe stato meglio.
Però – non ho potuto fare a meno di notarlo, leggendolo – il testo di Mario Capanna mi pare rispecchiare perfettamente la filosofia della “fantasia al potere” che divenne lo slogan di un cambiamento agognato oltre mezzo secolo fa, un mantra che l’autore dovrebbe conoscere bene.
La fantasia, dopo quasi sessant’anni, non è andata al potere (e non è necessariamente un male): ma per immaginare chi sta al potere oggi, almeno all’epoca della “rivoluzione”, di fantasia ce ne voleva parecchia. Il fatto è che proprio grazie a molti esponenti di “quella” generazione che ci ritroviamo oggi, seduti ben comodi in parlamento, i rappresentanti politici di un centrosinistra che ha smarrito qualsiasi gradazione di rosso per sposare un arcobaleno che probabilmente non riuscirà mai a vedere, vittima com’è di una tempesta che, leopardianamente parlando, non sembra preannunciare quiete.
Ma veniamo al punto.
Come si può immaginare un “parlamento mondiale” eletto in modo “democratico”, quando le stesse democrazie “occidentali” ormai non riescono più a rispondere alle esigenze e ai bisogni “essenziali” dei cittadini (se non in modo “fantasioso”, appunto)?
Quando le decisioni “fondamentali” in materia economica ed estera sono stabilite a priori da quella macchina democratica globale che risponde agli amministratori delegati delle multinazionali?
Chi sarebbe il “prescelto”, l’“eletto” in modo democratico tale da rappresentare un intero paese, sul seggio di un ipotetico “parlamento mondiale”?
Come si può immaginare una “comunità internazionale” quando abbiamo da tempo abbandonato, rifiutandola, la piccola “comunità di paese”? Quando, anche grazie al movimento del Sessantotto, i sintomi del quale erano da tempo nell’aria – e il buon Pasolini, come al solito, se n’era accorto in diretta – si gettò via l’acqua sporca insieme al bambino, ovvero alcuni “valori” sui quali – giusti o sbagliati che fossero – si era forgiato un paese lungo vari decenni, addirittura secoli, prima dell’avvento del Nulla?
Dove l’individualismo e il relativismo imperano, non si può parlare di “bene comune”. Un ipotetico “parlamento mondiale” risponderebbe davvero alle esigenze di una comunità globale (quella dove il 10% della popolazione vive alle spalle dell’altro 90%), oppure, dopo alcune settimane, comincerebbero i “veti”, le ripicche, le barricate? Come si può parlare di “bene comune” e di accordi globali quando le emergenze vengono affrontate come per esempio è stato affrontato il Covid o come sarà affrontata la crisi climatica, che anche secondo Capanna è causata per il 90% dall’attività umana? Per non parlare delle guerre in corso e di quelle che (purtroppo) continueranno a martoriare questo povero pianeta e l’umanità che vi risiede negli anni a venire, con la compiacente complicità dell’industria bellica che vale molti punti del PIL mondiale. Chi potrebbe rispondere, in modo trasparente e senza condizionamenti legati al personale interesse di lobby, a queste domande?
Se vogliamo ripartire davvero, dobbiamo ricominciare dalle comunità familiari, di quartiere, di paese, come sostiene Wendell Berry, il “filosofo” contadino (appunto…). Dal bene di una piccola comunità nascono solidarietà e sussidiarietà. Che possono anche ampliarsi, ma servono costanza, impegno e umiltà (i valori…). La nostra società (quella “occidentale”) è finita quando abbiamo smesso di aver bisogno l’uno dell’altro. E dire che un’esistenza comunitaria sarebbe anche la più “consigliabile” in termini di sostenibilità ambientale. Una piccola comunità coesa crea al suo interno una microeconomia (ve la ricordate la “ditta” a conduzione familiare del dopoguerra?): e una microeconomia consuma consapevolmente, inquina meno e riduce drasticamente gli sprechi. Perché la vera “rivoluzione” si attua a partire dal soggiorno di casa, dalla cucina, almeno finché ci resteranno un soggiorno e una cucina. Senza una burocrazia asfissiante e i continui voli in aereo per raggiungere la sede del “parlamento mondiale”, che probabilmente, grazie al genio imprenditoriale di Elon Musk, tra qualche anno sarà costruita su Marte. Non abbiamo bisogno di ulteriori “sovrastrutture”, ma di piccoli “legami” da ricostruire dopo l’Apocalisse tecnologica declinata abilmente sulla ricerca della felicità (personale) che ha archiviato l’Antropocene per plasmare l’Egocene. “Non servono più eccitanti o ideologie”, cantava Battiato: “Ci vuole un’altra vita”.

Il sistema collasserà se ci rifiutiamo di comprare quello che ci vogliono vendere, le loro idee, la loro versione della storia, le loro guerre, le loro armi, la loro nozione di inevitabilità. Ricordatevi di questo: noi siamo molti e loro sono in pochi. Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo noi di loro. Un altro mondo, non solo è possibile, ma sta arrivando. Nelle giornate calme lo sento respirare.
(Arundhati Roy)