Minima Cardiniana 454/1

Domenica 11 febbraio 2024
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IN MEMORIAM
UN RICORDO DI ANTONIO PAOLUCCI
di Amerino Griffini
Domenica 4 febbraio è morto a Firenze Antonio Paolucci, una grave perdita per la Cultura. Era stato uno dei maggiori critici d’arte italiani, direttore del Polo Museale fiorentino e anche ex ministro (da indipendente) dei Beni culturali e ambientali, nel governo Dini, per poco più di un anno, dal 1995, oltre che Soprintendente ai Beni Artistici e Storici di Firenze, Pistoia e Prato. Lo voglio ricordare per una questione che ci riguarda e che ce lo farà rimpiangere non solo per le sue competenze professionali, ma anche per la sua onestà intellettuale.
Qualcuno di voi, ahinoi, i più anziani, ricorderanno che a Firenze, in piazza Beccaria, dove adesso c’è quell’orribile bunker di cemento armato che contiene l’Archivio di Stato, c’era un ben altro complesso edilizio, edificato in soli due anni (tra 1936 e 1938), che ospitò la Casa della Gioventù Italiana del Littorio (GIL). Ragazze e ragazzi di Firenze vi frequentarono la piscina, il cinema-teatro, le altre sale sportive e ricreative. Anche dopo la guerra, e fino alla sciagurata demolizione, alcune parti furono utilizzate. Ne ho potuto usufruire anch’io come chiunque altro, vedendo dei film d’essai. Nel 1975, infine, l’antifascismo della cancel culture trionfò e fu accontentato con la demolizione. Alcuni dei preziosi affreschi che si trovavano nelle sale furono risparmiati e trasferiti nel Museo delle Pagliere, altri furono criminalmente distrutti.
E qui entra in scena il nostro Antonio Paolucci, che scrisse la prefazione di un libro dedicato a quelle opere d’arte (Arti applicate a Firenze: 1930-1960. Il restauro degli affreschi della G.I.L. per il Museo delle Pagliere, 2001, edito da Pagliai Polistampa; con un po’ di fortuna lo potete ancora trovare). Sono poche righe, che vi consiglio di leggere, quelle di Antonio Paolucci, che qui vi trascrivo estrapolandole da quel bel testo:

“Del resto la vicenda recente dell’edificio della GIL fiorentina è un apologo politico di rara esemplarità. Venne raso al suolo nel 1975 perché era fascista e perché – una ragione in più e decisiva per la demolizione – era anche bello. Certo più bello della triste costruzione tirata su in fretta subito dopo per ospitare l’Archivio di Stato destinato a lasciare gli Uffizi. La demolizione dell’edificio si spiega soltanto per ragioni politiche; ragioni che è più semplice definire di puro odio ideologico. Che queste fossero le motivazioni vere lo si comprende dalla campagna stampa che da sinistra si levò contro il salvataggio degli affreschi voluto da Sandra Pinto. Che fastidio potevano dare delle pitture murali già condannate allo stacco e destinate a finire in deposito in qualche magazzino di Soprintendenza? Eppure dalle pagine di Paese Sera (19 novembre 1975) Renzo Federici negava a quegli affreschi il mero diritto di Sopravvivenza (‘Basta un fotocolor’ era il titolo dell’articolo) e si chiedeva perché mai si dovessero spendere soldi pubblici per ‘documentare questi fez a sghimbescio e camice nere sgualcite’.
Quanto più colto e civile, al confronto, fu il comportamento di Giovanni Cabras che, incaricato dello stacco, racconta nelle pagine di questo catalogo, del suo disagio e del suo imbarazzo nel dover rimuovere l’opera di pittori che egli sentiva vicini e fraterni alla sua storia di artigiano e di artista.
La distruzione della GIL fu voluta dalla cultura politica dominante in quegli anni.
Il Fascismo era stato soltanto oscurantismo culturale, oppressione delle masse lavoratrici e ‘guardia bianca’ della borghesia. Questo ci avevano insegnato all’Università e questo proclamava impavida e minacciosa (prima di De Felice e della caduta del Muro di Berlino) l’Intellighenzia progressista.
Chi all’epoca avesse detto e scritto, per esempio, che durante il Ventennio c’era stata una eccellente politica di promozione delle Arti e di tutela del patrimonio culturale (con la Legge 1089 del 1939, con la creazione dell’I.C.R.) avrebbe rischiato poco meno che la lapidazione. Quindi le testimonianze del Fascismo andavano cancellate, se appena possibile.
Dispiace che la Firenze di allora non abbia fatto nulla per impedire la demolizione della GIL. Ma il conformismo di sinistra (chi c’era lo ricorda bene) era totale e anche pericoloso in quegli anni. Al punto che la pur moderata presa di posizione di Sandra Pinto (va bene l’abbattimento dell’edificio ma almeno salviamo gli affreschi) venne giudicata inopportuna e di ‘destra’.
Sembrano cose di un’età remota e invece era ieri. Noi c’eravamo ed anche se giovani e senza potere potevamo opporci allo stolto ukase che volle la demolizione della GIL. Non lo abbiamo fatto; per opportunismo, per vigliaccheria, per non dispiacere all’assetto intellettuale e politico allora dominante, per non contraddire le decisioni dei nostri superiori gerarchici E questo valga come doverosa autocritica”.

Questo scriveva Antonio Paolucci nel 2001. Sono passati altri 23 anni e la situazione è nuovamente precipitata, anche peggiore di prima. Con le Boldrini che vogliono abbattere monumenti ed ogni vestigia che ricordi il passato. Con le Schlein che rispolverano lenzuola di fantasmi immaginari rinfocolando odio e muri, al solo fine di farne vetusto strumento di politichetta da “pastasciuttata antifascista”.
Ci corre l’obbligo di rimpiangere e di conservare nella memoria il grande Antonio Paolucci, testimone di una Firenze che non c’è più. Ricordiamolo, almeno noi.

Antonio Paolucci (Rimini 1939 – Firenze 2024), una breve nota biografica
Antonio Paolucci è stato uno Storico dell’arte e uomo politico italiano. Allievo di R. Longhi, conseguita nel 1964 la laurea in Storia dell’arte ha intrapreso una brillante carriera istituzionale: entrato nell’amministrazione dei beni culturali nel 1969, dal 1988 soprintendente ai beni artistici e storici di Firenze, Prato e Pistoia, ha retto il dicastero per i Beni culturali (1995-1966) nel governo Dini, dal 2004 al 2006 è stato direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Toscana, e dal 2007 al 2016 ha ricoperto la carica di direttore dei Musei Vaticani. Rilevanti anche gli incarichi di commissario straordinario per il restauro della basilica di San Francesco ad Assisi dopo il sisma del 1997, e di presidente delle commissioni per i progetti di ricostruzione della basilica di San Benedetto da Norcia dopo il terremoto del 2016. Accademico dei Lincei dal 2004, collaboratore dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, per il quale ha redatto contributi di museologia e gestione e conservazione del patrimonio culturale, tra le sue pubblicazioni si citano qui: Il Laboratorio del restauro a Firenze (1986); Mille anni di arte italiana (2006); La cappella Sistina (2010).

Solo due parole per offrire la mia testimonianza: non per concludere la bella pagina di Amerino Griffini, che è perfetta così com’è e sottoscrivibile nonché condivisibile in ogni sua parte, nessuna esclusa.
Colgo comunque anzi l’occasione per esprimere di nuovo tutto il mio dolore per la morte del mio fraterno amico e collega Antonio, come ho già fatto qualche giorno fa accompagnandolo fino all’uscita della chiesa della Santissima Annunziata che tanto egli amava e nella quale gli avevamo dato l’ultimo saluto.
Antonio mi manca. Ricordo le giornate – e qualche volta le serate e le nottate – durante le quali passeggiavamo insieme parlando di molte cose. Ricordo anche che parlammo della caserma GIL e di altre cose, in quel 1975 che ci vide vilmente silenziosi. Me ne pento e me ne vergogno. Non tutti agirono così. Un altro amico e collega illustre, lo storico Sergio Bertelli – da sempre deciso antifascista e odiatore di tutti i conformismi – parlò a voce alta e chiara, da solo o quasi, attirandosi odio e sarcasmo.
Ricordo quel mio lontano atto di viltà di quasi mezzo secolo fa e lo terrò bene a mente perché la situazione, in Italia e nel mondo, sta prospettando forse a tutti noi nuove e difficili prove. Prego Dio di essere stavolta, a differenza di allora, all’altezza della dignità che ogni essere umano ha il dovere di tutelare per se stesso e per gli altri. – Franco Cardini