Minima Cardiniana 456/1

Domenica 25 febbraio 2024, Seconda Domenica di Quaresima

IN MEMORIAM
Ieri sabato 24 febbraio 2024 ricorreva il compleanno dello storico medievista Marco Tangheroni: uno studioso di fama internazionale, celebre per le sue molte opere sul Mediterraneo, sulla città di Pisa, sui domìni della corona d’Aragona, sulla Sardegna. Avrebbe dovuto essere il suo 78°; ma purtroppo egli ha cessato di vivere l’11 febbraio 2004, all’età di cinquantotto anni, dopo una vita non lunga vissuta in grandissima parte in compagnia di una lunga, dolorosa malattia causata da un’insufficienza renale grave che da quando aveva vent’anni lo aveva obbligato a subire a distanza ravvicinata (negli ultimi tempi anche tre volte alla settimana) un noioso e doloroso processo di dialisi.
Un vero e proprio Calvario. Ma vissuto serenamente, coraggiosamente, con l’eroismo di un autentico cristiano.
Riguardo la sua figura, si pubblicano qui due differenti profili: uno scritto valutativo di Stefano Chiappalone e un profilo di Franco Cardini.

TANGHERONI: IL DINAMISMO MEDIEVALE NASCEVA DALLA FEDE
di Stefano Chiappalone
A vent’anni dalla morte la lezione dello storico pisano: gli uomini del Medioevo avevano la consapevolezza di essere imperfetti e il coraggio di costruire per il futuro. Il segreto è il cristianesimo.
“Chi iniziava a costruire le cattedrali aveva la certezza che né lui né i suoi figli le avrebbero viste completate. Edificavano, ma per i posteri. Chi, oggi, pianta più un noce? Chi, oggi, ha il senso del futuro?”. Un’osservazione che da sola basterebbe a smontare la persistente “leggenda nera” sul Medioevo, tanto più se a dirla era qualcuno che di Medioevo non solo se ne intendeva, ma lo insegnava da una cattedra universitaria. Sono parole di Marco Tangheroni, docente di Storia medioevale nelle università di Cagliari, di Sassari e di Pisa, sua città natale, riportate in Inchiesta sul cristianesimo di Vittorio Messori (Ares, Milano 2022).
Messori nel 1987 aveva incontrato lo storico pisano, che aveva preso carta e penna per protestare contro quel “Medio Evo di cartapesta” messo in scena dal film Il nome della rosa. Un “falso clamoroso” contro il quale Tangheroni protestava come storico e “come cristiano che vede insultato un periodo glorioso della storia della Chiesa e, con essa, dell’intera cultura europea”.
Marco Tangheroni moriva esattamente vent’anni fa, l’11 febbraio 2004, a soli 58 anni. In molti hanno scorto un disegno della Provvidenza nella coincidenza tra la sua morte e la memoria liturgica della Madonna di Lourdes, venerata come Salute degli infermi, alla luce della di quella che lui stesso aveva definito “una lunghissima e drammatica storia sanitaria”, che però non gli aveva impedito un fecondo lavoro di ricerca e insegnamento, una brillante carriera accademica, l’impegno culturale e politico, e più in generale una vita piena, illuminata dalla fede che aveva riscoperto insieme alla malattia. “La notte di Capodanno del 1969 mi sono ritrovato in coma; quando ne sono uscito, le speranze di sopravvivenza erano limitate. […] Ecco, dunque, che il problema che rinviavo mi si è presentato con urgenza […]. Da allora non ho fatto che confermarmi nella certezza che il Vangelo ha ragione, che il cristianesimo è la vera speranza per l’uomo”. Decisivo fu poi, nel 1970, l’incontro con Giovanni Cantoni e quindi la militanza in Alleanza Cattolica di cui Tangheroni fu reggente regionale per la Toscana, nonché uno dei principali punti di riferimento, svolgendo un prezioso apostolato culturale.
Nel cristianesimo aveva scoperto “qualcosa che non c’è nelle altre fedi e che spinge l’uomo a migliorare”, “un ottimismo, una vitalità che sostiene anche le invenzioni tecniche e il loro utilizzo ai fini pratici”, come dimostra anche il dinamismo da cui sorgono la “rivoluzione commerciale” e la “rivoluzione nautica” dei secoli XI-XII – cui aveva dedicato anni di insegnamento condensati nel volume Commercio e navigazione nel Medioevo (Laterza, Roma-Bari 1996) – che ci restituiscono un’immagine ben diversa dei cosiddetti “secoli oscuri”. Al contrario, “vengano qui, sulla piazza pisana dei Miracoli, tra cattedrale, battistero, torre pendente, camposanto”, disse a Messori, “e mi dicano se questo è ‘buio’. Ce ne fossero, oggi, di ‘tenebre’ così!”. Dalla leggenda nera alla leggenda rosa, allora? Tutt’altro: l’uomo medievale è ben consapevole di essere “un impasto di grazia e di peccato: perfettibile certo, ma non sino al punto di trasformarsi in angelo. La società, dunque, bisogna costruirla con dei mattoni imperfetti. E questo mette al riparo quei secoli dalle utopie disastrose che contrassegnano la modernità”.
Tangheroni faceva suo l’aforisma di Marc Bloch: “Il bravo storico è come l’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda” – una preda, beninteso, cui si accostava con un misto di curiosità e pietas, che ne spiega anche la molteplicità di interessi su cui lui stesso faceva dell’autoironia definendosi “un pillaccherone della storia”. Se i suoi studi erano principalmente incentrati sul Mediterraneo (ma non solo), si può dire che il suo spazio di ricerca fosse l’uomo stesso. Anzi, non l’uomo in astratto, ma gli uomini concreti. Accadeva così che tra un canto e l’altro della Commedia dantesca, che conosceva pressoché a memoria e che faceva da filo conduttore delle sue lezioni di storia medievale, si fermasse su un nome – Cacciaguida o Mosca de’ Lamberti o chiunque altro – che per lui non era un mero oggetto di studio, bensì “una persona, che ha amato, sofferto, tradito, pianto, lottato: un uomo come noi” (Cristianità, modernità, rivoluzione. Appunti di uno storico tra mestiere e impegno civico-culturale, Sugarco, Milano 2009).
A vent’anni di distanza quella di Tangheroni è una lezione che non riguarda solo gli addetti ai lavori. Lo si comprende particolarmente rileggendo il volumetto, pubblicato postumo, intitolato Della storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila (Sugarco, Milano 2008) grazie al quale anche chi non lo ha conosciuto potrà cogliere “gli echi di quelle parole, di quella voce non più udita […] infrangendo un silenzio ormai distante”, come scriveva la curatrice e sua collaboratrice Cecilia Iannella. Utilissime ai cultori di storia, queste pagine offrono efficaci antidoti anche a vari modi errati di interpretare il presente: come l’illusione “di aver trovato la clavis aurea, la spiegazione unica e decisiva” o quella “forma più sofisticata di semplificazione” che è “la ‘dietrologia’ ad ogni costo”; salvando sempre “la libertà delle azioni e delle scelte degli uomini” e lasciando “il giusto spazio al caso” nel leggere gli eventi passati – nonché quelli attuali, imparando “l’educazione alla complessità dell’analisi del reale”, nella consapevolezza che “la storia non offre la risposta decisiva alle domande essenziali sull’uomo” e che il fine della storia è al di là di essa, senza dover forzare i fatti in cerca di arbitrarie (o ideologiche) conferme di un “senso della Storia”.
Ed è “al di là della storia” che conviene concludere questo breve profilo di Marco Tangheroni, accennando – con un po’ di pudore – alla Vita che ora sta vivendo, mentre le sue spoglie mortali riposano nel cimitero di Asciano Pisano, dove c’è chi va a chiedergli di intercedere da lassù, come ha fatto anche chi scrive: chissà che il professore non sia tuttora disposto a venire incontro alle domande, talora ingenue, della matricola di allora? In fondo, un amico comune raccontava che non sono pochi a ritenere che dalla profonda umanità che lo caratterizzava, dalla fede vissuta e testimoniata trasparisse qualcosa “in più”… Qui ci fermiamo per non cadere nella facile agiografia, lasciando che a rompere gli indugi sia Franco Cardini, che di Tangheroni fu collega e amico di lunga data, e che due anni fa raccontava di avergli chiesto aiuto per delle piccole disavventure vissute proprio a Pisa. “Mi sono rivolto anche a Marco: lo faccio di tanto in tanto, anche perché qualcuno mi ha assicurato che funziona. Non sarà santo, però…”. Nulla di eclatante: un paio di occhiali smarriti e una preziosa valigetta dimenticata. Però li ha ritrovati entrambi.
(La Nuova Bussola Quotidiana, 12 febbraio 2024)

MARCO TANGHERONI. UN PROFILO
di Franco Cardini
So bene che mio dovere di docente universitario, di medievista e di collega dello studioso che sto per onorare con queste poche note mi obbligherebbe a usare un registro “obiettivo”, se non addirittura “scientifico” – per amor di armonia ternaria dovrei addirittura aggiungere l’aggettivo “freddo”: che però a me in linea generale mal mi si attaglia, e nella fattispecie presente mi ripugna –, e mi sforzerò di farlo: ma, lo so bene fin d’ora, senza riuscirvi. L’affetto e l’ammirazione per l’amico immaturamente scomparso dopo una vita tanto densa di studi, d’interessi, di successi e d’entusiasmo e tanto faticosa e travagliata sotto il profilo dello stato fisico di salute – e sappiamo tutti quanto questo incidesse per forza di cose su quelli, e con quale forza d’animo egli costantemente gli abbia impedito di trasformarsi in paralizzante controenergia – ostano anche quattro lustri dopo la sua partenza da questa vita a un discorso piano e sereno.
Sia chiaro comunque che i miei sentimenti non appanneranno né tantomeno distorceranno, per quel poco ch’esso vale, il giudizio che sto per formulare sull’opera di Marco Tangheroni. Per parafrasare la nota massima ecclesiale, non poena, sed causa, facit martyrem, diciamo che nel caso di Marco non poena, sed qualitas, facit excellentem virum. Questo scritto non è teso semplicemente ad onorare un uomo che si sforzò di fornire un contributo eccezionale al mondo degli studi per quanto la sua salute gli rendesse più gravoso che non ad altri il raggiungere un tale scopo, bensì a rendere omaggio a un grande studioso ripensandone criticamente l’opera[1].
Marco Tangheroni, nato a Pisa il 24 febbraio del 1946, si affacciò alla ricerca universitaria ancora studente, in Sardegna dove allora risiedeva, alla severa scuola di Alberto Boscolo. Stampò appena ventenne e non ancor laureato il suo primo saggio, riguardante appunto la grande isola mediterranea[2], si laureò due anni dopo, e dalla sua tesi uscì un breve ma importante volume dedicato a un’indagine genealogico-prosopografico il taglio del quale risultò, per i tempi, originale e innovativo[3].
Già con questi primi studi, e attraverso di essi, s’andava delineando il profilo di quelli che sarebbero rimasti i costanti principali oggetti d’interesse scientifico del Tangheroni: Pisa e la Toscana, la Sardegna, la Corona d’Aragona – e quindi la Spagna catalano-aragonese -, il Mediterraneo. Era tutt’altro che un giovane studioso borné: e l’avrebbe dimostrato più tardi, nel suo lungo periodo pisano, insegnando in vari anni accademici non solo la “sua” Storia medievale, ma anche, a più riprese, discipline che andavano dalla Storia del commercio mediterraneo alla cultura letteraria: era, fra l’altro, raffinatissimo dantista e organizzatore di belle Lecturae Dantis. Ma, al di là dei suoi vasti interessi e della sua insaziabile curiosità, sosteneva con rigore inflessibile la necessità che uno studioso disponesse d’un suo campo di studi specialistici preciso e analiticamente approfondito.
Aveva da poco terminati gli studi universitari e si era appena sposato quando, nel dicembre del 1969, fu colto dalla crisi renale che avrebbe segnato l’avvìo della sua lunga malattia dalla quale non gli fu possibile uscire mediante una cura chirurgica. Ma, a considerare la sua biografia, non s’indovinerebbe mai il suo stato di sofferenza. Dal 1968 al 2004 si susseguono trentasei anni durante i quali non c’è un anno in cui egli non abbia pubblicato un volume, o saggi, o rassegne, o non abbia curato un’opera a più mani o gli Atti di un convegno o un catalogo di esposizione. Si precisava intanto, con il passaggio nell’Università di Pisa e l’avvìo della collaborazione con colui che della medievistica pisana era da tempo l’indiscusso dominus loci, Cinzio Violante, del quale egli fu a lungo prima allievo e quindi collega, la sua particolare visione della storia.
Non si può dire che seguisse, sul piano della critica storica, una “scuola” precisa: e tantomeno una qualche “ideologia”. Era anzi molto avverso a qualunque dimensione propriamente ideologica, dalla quale si sentiva estraneo come cattolico e che gli sembrava pericolosa in quanto le ideologie condizionano e compromettono il lavoro dello storico, la “libertà dello storico”, a dirla con un’espressione cara a un illustre studioso che del Tangheroni fu amico ed estimatore, Mario Del Treppo. Tale lontananza dalle ideologie lo teneva fra l’altro al sicuro rispetto a tentazioni da tesi deterministiche e teleologiche di sorta: convinto che la storia avesse uno scopo e una logica di tipo metafisico e trascendente, le negava qualunque “fine” e “ragione” di tipo immanente. Al tempo stesso, era fiero avversario di qualunque proposta “attualizzante”: sosteneva anzi che condizione preliminare alla comprensione della complessità storica era accettarne la distanza temporale, la diversità del passato rispetto al presente, la specificità irripetibile di ciascun periodo e la necessità di analizzarlo in sé e per sé e di per se stesso, con la piena coscienza della sua irriducibilità. Il Tangheroni puntava non già alla costruzione più o meno arbitraria di un “progresso” storico, bensì alla comprensione di un “processo” che andava compreso – come avrebbe detto David S. Landes – con tutti i suoi “se” e i suoi “ma”, in quanto nulla era “necessario” nella storia prima di essere in affetti accaduto.
La ricerca sulle famiglie pisane e sui loro affari commerciali lo indusse presto a passare allo studio della politica comunale e della civiltà comunale nel suo complesso: ne scaturì, nel 1973, il libro Politica, commercio e agricoltura a Pisa nel Trecento, nel quale si coglie netta l’influenza da una parte di un altro Maestro che egli aveva incontrato a Pisa, Emilio Cristiani e dall’altra dello storico italiano al quale si può dire che egli più debba sul piano metodologico e concettuale: Gioacchino Volpe[4]. Del grande storico abruzzese egli ritenne soprattutto la lezione di concretezza, di adesione spregiudicata ai documenti, di sensibilità per la complessità e la mutevolezza delle strutture sottostanti alle istituzioni storiche, di attenzione alle dinamiche, ai rallentamenti, alle accelerazioni. Riguardo a ciò, per quanto l’autocitazione sia riprovevole, credo non inopportuno ripetere un mio giudizio di qualche anno fa, al quale mi sembra di poter ancor aderire: “Il ‘volpismo’ tangheroniano recuperava in effetti con molta libertà la grande lezione della scuola economico-giuridica: ma l’arricchiva grazie al costante impegno esegetico e storiografico in una direzione molto responsabilmente ed esplicitamente impegnata in senso cattolico, su una linea che molto doveva ad autori come Gilson e Marrou”[5]. Sappiamo che Cinzio Violante gradì molto il fatto che Ruggiero Romano, citandolo come felice eccezione positiva nel contesto d’un ben poco pietoso pamphlet dedicato agli storici italiani, avesse detto che si trattava certo di uno studioso cattolico, che però quando scriveva di storia non mostrava affatto la sua appartenenza religiosa. Romano aveva inteso in tal modo elogiare Violante, che naturalmente l’aveva capito e ne era rimasto soddisfatto e orgoglioso; credo che Marco Tangheroni, se un apprezzamento del genere fosse mai stato rivolto a lui, non lo avrebbe accolto altrettanto bene.
D’altronde, l’ambiente pisano gli proponeva anche molti altri stimoli. Limitandoci solo ad alcuni tra i suoi colleghi ed amici più stretti, vanno ricordati oltre al Cristiani e a Maria Laura Cristiani Testi almeno Bruno Casini, Chiara Frugoni, Michele Luzzati, Mario Nobili, Gabriella Rossetti, Amleto Spicciani, Mario Mirri, cui si sarebbero più tardi aggiunti Giuseppe Petralìa, Maria Luisa Ceccarelli Lemut, Mauro Ronzani, Silio P.P. Scalfati, Simone Collavini; ma accanto al Tangheroni si disponeva tutto un ampio, vivacissimo ambiente di allievi a loro volta destinati a far ingresso ai differenti livelli dell’insegnamento universitario. I nomi da ricordare, tra allievi propriamente suoi, scolari del prestigioso team dei docenti ordinari pisani compresenti nell’ultimo trentennio circa e altri che si erano giovati del suo insegnamento prima pisano, quindi sassarese e poi nuovamente pisano nonché per lunghi periodi barcellonese, sarebbero molti: vanno ricordati quanto meno i “fedelissimi”, collaboratori preziosi ma anche amici prediletti, da Gabriella Graziella a Olimpia Vaccari, da Laura Galoppini a Cecilia Iannella, ai sardi come Maria Eugenia Careddu, Pinucia Simbula, Giuseppe Meloni. è bene che l’elenco si fermi qui, ad evitare dimenticanze anche gravi: perché Marco Tangheroni ebbe moltissimi allievi, alcuni condivisi anche da altri Maestri; e a dover render conto sul serio delle sue relazioni sia scientifiche, sia intellettuali, sia umane – ma per lui le cose andavano quasi sempre di pari passo – si dovrebbe ricordare gran parte del mondo accademico non solo pisano, ma anche italiano ed europeo del lungo periodo compreso tra i primi Anni Sessanta e l’inizio del nuovo millennio. Tuttavia, non si possono tacere almeno i colleghi di Barcellona, che per lui era davvero, e profondamente, una seconda patria: da Salvador Claramunt a José Enrique Ruiz Doménec a Rafael Conde.
Era, e si vantava di essere, uno storico eclettico, addirittura “impuro” sotto il profilo dei referenti metodologici e delle “scuole”. La celebre frase di Marc Bloch, “lo storico è come l’orco della fiaba: dovunque senta odore di carne umana, sa che lì c’è il suo pasto”, era tra i suoi aforismi preferiti: e per le teorie e per i metodi storici, come per gli amici, era del tutto spregiudicato: sceglieva quelli che voleva lui e che gli piacevano ascoltando sempre i pareri di chiunque, ma senza accettare che nessuno di essi limitasse la sua libertà di scelta. Certo, le nuove tendenze storiografiche affioranti tra anni Sessanta e Anni Settanta in Europa e negli Stati Uniti lo avevano interessato e lo incuriosito, per quanto egli fosse per temperamento e per convincimento profondo aperto a tutte le istanze, ma refrattario alle mode: tuttavia, come tutti i giovani storici di quegli anni, con fu sordo alla voce della “scuola delle Annales” e ampliò i suoi interessi fino a introdurvi con decisione l’archeologia – da qui la sua amicizia e la sua collaborazione con un altro straordinario studioso anch’egli purtroppo scomparso immaturamente, Riccardo Francovich – e la demografia storica, una disciplina che gli consentì un approccio nuovo rispetto all’area mediterranea, specie in rapporto alla crisi di metà Trecento con la sua problematica (le dinamiche del popolamento, i “villaggi abbandonati”, le oscillazioni dei prezzi, la vita quotidiana e via discorrendo).
Importante per Marco Tangheroni fu il 1980: un anno bisestile, e pertanto da lui – non insensibile a qualche suggestione scaramantica – abbastanza temuto, e che in effetti si sarebbe risolto in parecchi di quelli che egli definiva “momentacci”: in uno di essi, molto duro sotto il profilo dei suoi problemi medici, gli fu sostegno affettuosissimo, tra gli altri, Gabriella Rossetti, una delle personalità di studiose a lui costantemente più vicine. Ma appunto il 1980 fu l’anno in cui egli vinse la cattedra di Storia medievale in un concorso non facile: e una dei commissari, Gina Fasoli, si sarebbe poi a lungo vantata di essere stata sua grande sostenitrice. Ma alle difficoltà che la malattia l’obbligò ad affrontare in quel periodo si aggiunse il disagio dell’obbligo di raggiungere la sua nuova sede. Sarebbe in effetti stata libera una cattedra fiorentina, ch’era stata bandita ma dove colui che si sarebbe potuto ritenere il “candidato locale” non aveva superato la prova concorsuale. Senonché la Facoltà fiorentina depositaria di quella cattedra, dopo una decisione difficile – alla quale non furono forse estranei motivi extrascientifici – preferì al Tangheroni uno studioso peraltro a sua volta di grande valore, Paolo Delogu. Di conseguenza, al Tangheroni non restava che ripiegare sulla per lui disagiata cattedra sassarese. D’altronde, va detto che la destinazione sarda a lui, che in Sardegna aveva risieduto e studiato, non dispiacque: non solo vi si trovò bene ma, appena arrivato, si vide affidare – a trentaquattro anni! – la presidenza della Facoltà, che tenne in modo esemplare lasciando un’ ottima memoria del suo passaggio.
La residenza sassarese lo ricondusse a quegli studi sardi che peraltro non aveva mai del tutto abbandonato, seguendoli magari attraverso l’osservatorio della storia pisana e di quella aragonese. Le competenze nel campo degli studi archeologici e insediativi, che aveva frattanto messo a punto, gli consentirono di affrontare una ricerca di storia veramente à part entière che approdò a uno dei suoi libri più felici e più celebri: la ricerca sulla città di Iglesias e le sue miniere argentifere, il nucleo dell’idea originaria della quale si deve forse ricercare nel saggio del Volpe sulle miniere di Montieri nelle “Colline metallifere” del sud-ovest toscano[6].
L’ampiezza, la varietà e al tempo stesso la coerenza delle sue esperienze di ricerca gli consentivano ormai di superare in breccia qualunque residuo pericolo di tipo localistico, nel quale aveva temuto per lungo tempo d’incappare: si era ormai affermato a livello non solo italiano ma europeo come uno dei pochi studiosi in grado di padroneggiare con lucidità e ampiezza di orizzonti il complesso intreccio di storia istituzionale, politica, economica e culturale. L’oggetto dei suoi studi era ormai il Mediterraneo in tutta la sua ampiezza, per quanto continuasse a privilegiarne le aree centro-occidentali. Era comunque entrato in quell’àmbito di studiosi nei quali si potevano annoverare personalità quali Eliyau Ashtor, Roberto S. Lopez, David Herlihy, David Abulafia – tutti concordi infatti nello stimarlo altamente – e non moltissimi altri. Dalla sua meditazione ormai di ampio raggio e di lungo periodo uscirono quasi a ruota due nuovi libri: quello dedicato al Medioevo tirrenico e l’ariosa, robusta sintesi del 1996 sul commercio e la navigazione nel medioevo, un libro di straordinarie lucidità e chiarezza, nel quale il severo e rigoroso studioso riesce a dimostrare anche eccellenti qualità di scrittura e a far passare nella severa pagina scientifica anche un po’ di quello humour che chi aveva assistito alle sue lezioni e alle sue relazioni congressuali ben conosceva[7].
Viste le sue difficili condizioni fisiche, ci si sarebbe aspettati – e sarebbe stato comprensibile – di vederlo gradualmente ritirarsi quanto meno dagli aspetti più gravosi della vita pubblica per dedicarsi magari con migliore riserva d’energia allo studio. Invece, sempre lottando con la malattia, non si risparmiava: ed era generosissimo quanto al suo tempo, che poneva costantemente al servizio dei colleghi e degli studenti. Fu prorettore e membro del consiglio d’Amministratore dell’Università di Pisa e per due volte direttore del Dipartimento di Medievistica. Intanto, si dedicava anche – sia pure à sa manière – alla vita politica: candidato sindaco alle elezioni amministrative del 1994[8], quindi consigliere comunale di minoranza e al tempo stesso, per delega comunale, amministratore del Teatro Verdi. Pochissimi giorni prima della crisi che lo avrebbe condotto a lasciare questa vita, era stato eletto direttore dell’unificato Dipartimento di storia, con notevole e unanime soddisfazione dei colleghi: e, per quanto ormai dovesse servirsi sempre più spesso del supporto della sedia a rotelle – alla quale guardava con ironia quasi amichevole –, era assiduo nel lavoro ed entusiasta della nuova sfida. Come del resto sembra capiti a tutti i grandissimi, il silenzio e la vita appartata giovavano certo ai suoi studi: ma più ancora giovavano loro gli stimoli d’una vita intensa e attiva, che sottraeva tempo moltiplicando però in cambio interessi, informazioni, sollecitazioni.
Comunque gli ultimi mesi del 2003, dopo un’estate trascorsa in una lunga degenza ospedaliera, furono per lui pesantissimi: e forse decisivi nel determinare la sua precoce dipartita. Ma pieni d’interesse e di passione. Gli era stato affidato il coordinamento della grande mostra storica su Pisa e il Mediterraneo: davvero “un lavorone, in un momentaccio”, com’egli soleva dire; ma anche un grande successo, del quale sono testimonianza sia l’imponente catalogo[9], sia una quantità di studi preparatori e accessori alla mostra che uscirono in quell’anno e anche nel successivo, a firma sua o di alcuni suoi allievi e collaboratori, qualcuno purtroppo ormai postumo[10].
In quest’ultima categoria, un posto a parte spetta a un discorso che definire “di circostanza” sarebbe formalmente corretto, ma metodologicamente impreciso e concettualmente ingeneroso. Si tratta del testo, ignoro se redatto in forma definitiva, del discorso d’apertura del seminario Il Mediterraneo occidentale nell’alto Medioevo (secoli VIII-X): recenti acquisizioni e nuove prospettive di ricerca, che si svolse a Pisa tra il 17 e il 19 gennaio del 2003 in evidente concomitanza con la preparazione della grande mostra[11]. Cecilia Iannella, che aveva rintracciato – ignoro se da sola o con l’aiuto di altri – questo testo tra le carte inedite del suo Maestro, lo pubblicò facendolo precedere da una sobria, breve nota della quale richiamo la parte conclusiva che ne esprime come sarebbe difficile far meglio il senso e il significato: “… un prezioso ed inatteso memorandum, profondamente pervaso dalla straordinaria personalità dell’Autore come uomo e come storico, che ci permette di ritrovare le molte sfumature dell’umanissimo spirito di Marco Tangheroni: l’apertura culturale e intellettuale, la curiosità, l’affetto senza preclusione per coloro che aveva incontrato (i maestri, i colleghi, gli allievi), l’ironia con cui sempre guardava alla vita e svolgeva l’amatissimo lavoro. Di ciò Marco Tangheroni ha vissuto, anche di ciò queste pagine parlano”[12].
Avevo letto – e credevo di averlo fatto con la massima attenzione – questo prezioso inedito mentre, insieme con l’amica Maria Luisa Ceccarelli Lemut e grazie alla disponibilità d’un altro grande amico mio e di Marco, l’editore Pierfrancesco Pacini, stavo organizzando i due volumi in memoriam dell’Amico scomparso. L’avevo trovato straordinariamente denso e interessante, animato da una forte, quasi ardente volontà di sintetizzare i risultati raggiunti e di programmare gli obiettivi futuri: ma ora, riletto a distanza di parecchi mesi e nelle prospettive delle ricerche intanto avanzate (qualcuna già pubblicata) sulla base di quelle sollecitazioni o ad esse comunque collegate, esso mi appare qualcosa di ben più importante, oserei dire decisivo.
Il richiamarne qualche aspetto mi sembra fondamentale. Certo, bisogna tener conto che si è dinanzi a un testo che, nelle intenzioni dell’Autore, era forse ancora provvisorio e che sarebbe stato suscettibile di parecchi cambiamenti forse profondi. Ma lo stile è quello di qualcosa che va avviandosi alla conclusione e alla stampa, non di un insieme di appunti: ritengo pertanto non avventate né illegittime alcune considerazioni che lo trattano come uno studio già concluso nelle sue linee di fondo.
Abituato a convivere con una malattia tanto grave quanto dolorosa fin da quando aveva poco più di vent’anni, Marco Tangheroni non mancava mai di porsi, in qualunque cosa facesse, dicesse o scrivesse, il problema del momento nel quale avrebbe dovuto lasciare la sua attività: il che vuol dire, per uno studioso, abbandonare a metà strada o comunque imperfetto o inconcluso un qualche lavoro; e più profondamente ancora significa doversi in ogni istante porre il problema dell’eredità che avrebbe lasciato ai colleghi e agli allievi, del messaggio definitivo che avrebbe dovuto affidare a chi avrebbe proseguito il suo lavoro e a quanti dopo di lui sarebbero venuti. È una sorta di “preventivo-consuntivo” che tutti gli studiosi cominciano prima o poi a fare, con l’avanzar dell’età: e che in parecchi casi (non, purtroppo, nel suo) prosegue per moltissimi anni.
Nelle pagine pubblicate dalla Ianella si ritrova intatto il Marco Tangheroni scientificamente più maturo, accademicamente più autorevole, umanamente più ironico e simpatico: non senza, e va detto, quella punta di cara, amabilissima civetteria che metteva sempre nelle cose che faceva e che forse – in quella morale cristiana ch’egli con grande austerità e coerenza seguiva – sarà anche stata un peccato veniale, ma che certamente faceva parte della sua straordinaria umanità. La prolusione al seminario del 2003 era un punto d’arrivo di un lavoro di ricerca da lui avviato quasi quarant’anni prima e quindi fedelmente proseguito senza soluzioni di continuità, e non c’erano state fasi di peggioramento (frequenti) della sua malattia né periodi d’intenso impegno civico o amministrativo in grado di fargli abbandonare quella ch’era, insieme con l’affetto profondo per la moglie e le figlie, la principale ragione della sua vita. Ma essa costituiva anche un momento di sintesi e di riflessione per ulteriori ricerche, l’occasione per un preventivo denso e ambizioso. Per questo egli ricordava come la ragione per quel nuovo seminario gli fosse stata fornita da un altro, da lui condotto nel 1995 insieme con Giuseppe (“Pino”) Petralìa: il tema di quel seminario, organizzato – a giudizio del Tangheroni stesso – in modo forse fin troppo informale[13], riguardava l’influenza del commercio a lunga distanza sullo sviluppo delle economie regionali del tardo medioevo, e partiva da un’articolata e approfondita riflessioni sulle tesi di Lorenzo Epstein della London Economic School sulla perdita d’importanza del commercio a grande distanza a partire dalla metà circa del Trecento e sullo sviluppo delle economie regionali nonché sulla capillarizzazione delle economie di scambio. Su tali tesi, ricorda il Tangheroni, “personalmente non ero d’accordo, sulla base del magistero indiretto di Federigo Melis e delle mie personali ricerche. Lo sviluppo delle reazioni causate nel Tangheroni dalle tesi dello Epstein sarebbe stato davvero esemplare, sotto il profilo del metodo scientifico e dell’onestà intellettuale: ripetuti dialoghi fra i due studiosi, qualcuno anche originato dal caso; quindi un’occasione di lavoro comune tra i due e altri colleghi, sollecitata ma neppure troppo curata sul piano organizzativo e formale. Al seminario erano intervenuti Immanuel Wallerstein, proprio lui, quello dell’ “economia mondo”, nonché specialisti quali Michel Balard, David Abulafia, Maurice Aymard, Pedro Chalmeta, Michel Zimmermann, Cristina La Rocca, Marco D’Agostino, Stefano Medas, Gherardo Ortalli, Stefano Bruni, Gian Maria Varanini, Gabriella Rossetti ed altri. Accanto a loro, un gruppo di allora giovanissimi studiosi pisani o comunque di formazione pisana dei quali avremmo sentito più tardi parlare e più ancora sentiremo parlare in futuro: tra loro, Ignazio Del Punta, Elisa Soldani, Alma Poloni, Giovanni Ciccaglioni, Francesca Frugoni, Michele Campopiano, Michela Diana e altri; oltre naturalmente a Catia Renzi Rizzo, corresponsabile in prima persona del seminario.
Così, quasi per caso, attorno al Tangheroni e al Petralìa si era riunito il Gotha degli studiosi più noti della società e dell’economia mediterranee del medioevo e della prima età moderna, insieme con un bouquet di giovani che si affacciavano al “mestiere” di storico: solo per scambiarsi opinioni scientifiche e per migliorare il lavoro rispettivo e quello comunitario, senz’altra preoccupazione né accademica, né editoriale. Un modello di che cosa potrebb’essere l’Università, di che cosa potrebb’essere la ricerca, di come si dovrebbe lavorare se tutti i membri della respublica studiorum condividessero questi livelli di serietà, di probità scientifica, di reciproca disponibilità, d’intelligenza: e non oso nemmeno pensare a quanto la generalizzazione di questi modi d’agire e di pensare avrebbe giovato a tutti, e quante e quali siano state le occasioni andate perdute a causa della miopìa e della stupidità di troppi fra noi.
Nei nostri colloqui della fine del 2003, a poco tempo dalla sua scomparsa – ma eravamo talmente abituati a saperlo sofferente che in realtà nessuno di noi pensava sul serio alla possibilità effettiva d’una sua prossima dipartita –, il Mediterraneo era diventato centrale. La nuova fase dei drammatici rapporti internazionali, avviatasi all’indomani degli attentati di New York e di Washington dell’11 settembre 2001, gli faceva sentire prossimo il momento nel quale la centralità del Mediterraneo sarebbe tornata a imporsi anche in politica: per questo dedicava grande attenzione al lavoro della Conférence Permanente des Villes Historiques de la Méditerranée, un sodalizio all’interno del quale si erano situati i rapporti tra Pisa e la città algerina di Bejaïa, l’antica “Bugia” nella quale Leonardo Fibonacci aveva soggiornato e imparato i segreti del calcolo custoditi dagli arabi[14]. Aveva seguito con affetto il mio lavoro, tanto più modesto del suo, sui rapporti politici e culturali tra Europa e mondo musulmano e molto amichevolmente mi rimproverava per aver disertato, sia pure perché impegnato altrove, gli incontri da lui organizzati e nei quali quei rapporti, esaminati dal punto di vista socioeconomico (ma non solo), erano sovente centrali. La nostra collaborazione aveva avuto momenti di grande intensità: insieme avevamo dato vita alla collezione di fonti diaristiche di pellegrinaggio denominata “Corpus Italicarum Peregrinationum”, pubblicata dall’Editore Pacini, con il quale avevamo edito anche due grossi volumi sulla guerra e le istituzioni militari toscane tra medioevo e Rinascimento. I progetti erano molti e il suo tempo, invece, si andava accorciando: ed egli lo avvertiva. L’ultima volta che ci vedemmo, e non sapevamo fosse tale, mi disse una cosa che mi colpì: “Sono stanco”. Non l’avevo mai sentito da lui, non rientrava nel suo vocabolario. Certo, poteva ben dire – e gli capitava di dirlo spesso, come càpita a tutti di dire cose del genere – di avvertire la stanchezza di un certo troppo gravoso impegno, di una troppo lunga indagine. Ma quella volta, era diverso. Me ne resi conto alcune settimane dopo, ripensando a quel colloquio mentre lo accompagnavo fino al luogo nel quale adesso riposa, alle pendici dei suoi monti pisani, quel pomeriggio del 13 gennaio 2004. Ora, si tratta di proseguire il suo lavoro.

[1] Mi sia comunque consentito qui richiamare quanto mi occorse di scrivere in F. CARDINI, Ricordo di Marco Tangheroni, in “Bollettino Storico Pisano”, LXXIV (2005), pp.9-18. Nello stesso fascicolo si trovano le testimonianze di Marco Pasquali, rettore dell’Università di Pisa, p1; di Alfonso M. Iacono, preside della facoltà di Lettere e Filosofia, pp.3-4, di Gino Nunes, presidente della Provincia, pp.5-6, di Paolo Fontanelli, sindaco di Pisa, pp. 7-9, dell’amico Francesco Danielli, pp. 19-27; la bibliografia, che occupa le pp. 29-50, costituisce una rielaborazione della tesi di laurea discussa nel luglio del 2004 da Stefano Chiappalone, relatrice Cecilia Iannella.

[2] M. TANGHERONI, Su un memoriale di Pietro il Cerimonioso relativo alla riforma della Sardegna (1338), in “Studi Sardi”, XX (1966), pp. 299-308, poi ripubbl. in IDEM, Sardegna mediterranea, Roma 1983, pp. 87-97.

[3] IDEM, Gli Alliata. Una famiglia pisana del medioevo, Padova 1969.

[4] Attorno alla metà degli Anni Settanta si situa un lungo e fecondo periodo di collaborazione di Marco Tangheroni alla Fondazione Gioacchino Volpe, un sodalizio animato dall’energica e generosa volontà del figlio dello studioso, Giovanni. Chi scrive ebbe l’onore di affiancare l’attività del Tangheroni in tale frangente e di organizzare con lui numerosi seminari.

[5] CARDINI, Ricordo di Marco Tangheroni, cit., p. 15.

[6] M. TANGHERONI, La città dell’argento. Iglesias dalle origini alla fine del medioevo, Napoli 1985.

[7] IDEM, Medioevo tirrenico: Sardegna, Toscana e Pisa, Pisa 1992.; IDEM, Commercio e navigazione nel Medioevo, Roma-Bari 1996.

[8] Sia consentito ancora una volta a chi scrive, per affetto e senza ostentazione alcuna, il ricordare che anche in tale circostanza egli fu al suo fianco, partecipando alla campagna elettorale.

[9] Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli etruschi ai Medici, Milano 2003.

[10] C. BERTI – C. RENZI RIZZO – M. TANGHERONI, Il mare, la terra, il ferro. Ricerche su Pisa medievale (secoli VII-XIII), Pisa 2004 (è il volume n.12 della bella collana Percorsi, voluta e diretta dal Tangheroni (il quale l’aveva inaugurata nel ’92 con Medioevo tirrenico) ed edita presso Pacini; Pisa e il Mediterrano. Antologia di fonti scritte, dal secolo VII alle metà del XII, a cura di M. Campopiano – C. Renzi Rizzo, Pisa 2004.

[11] M.TANGHERONI, I perché di un seminario. Origine, metodologia e motivazioni, a cura di C. Iannella, in Quel mar che la terra inghirlanda, cit., I, pp. 35-47.

[12] Ibidem, p. 35.

[13] Se ne può leggere comunque un’ottima rassegna in M. CAMPOPIANO, Il Mediterraneo occidentale nell’alto Medioevo (secoli VIII-X), in “Bollettino Storico Pisano”, LXXII (2003), pp.369-73.

[14] Cfr. D. AISSANI, Marco Tangheroni, les rapports Béjaïa-Pise et la coopération entre, les villes de la Méditerranée, in AA.VV., Quel mar che la terra inghirlanda, cit., pp. 67-83.