Domenica 25 febbraio 2024, Seconda Domenica di Quaresima
VELA A MOMPRACEM
LUSIA
di Luigi G. de Anna
Lusia parla in terza persona. Dice: “Lusia non ha studiato”. E sorride un po’ vergognandosi. Lei sarebbe Lucia, ma il suo nome è diventato Lusia. A dire la verità lei non sarebbe neppure quello, perché il suo nome da Akha è Aija. Lusia lo è diventata quando l’hanno battezzata. E dice, questa volta con orgoglio, “sono cattolica”.
Fa vedere la catenina che porta al collo, con la piccola croce in similoro.
Lusia è piccola di statura, come di solito sono gli Akha, di carnagione scura, occhi neri, profondi, un sorriso che rivela denti bianchissimi. L’età è indefinita, ma non è più giovane, ha tre figli, ma è vero che le Akha si sposano dopo i tredici anni, a diciotto sono già madri di qualche bambino, magari lasciato ai genitori, al villaggio, perché loro devono andare a lavorare in città e il padre, lui chissà dove è andato a finire.
Con Teeng volevamo mostrare a C., per fargli vedere che la Thailandia non è solo spiagge turistiche, le montagne che stanno a nord di Chiang Rai, la vasta regione a confine con Myanmar.
– In Myanmar non ci possiamo andare, bum bum – precisa Lusia.
E fa il gesto di sparare. Lì c’è la guerriglia, ma non sono gli Akha, loro sono un popolo pacifico, ma i Karen che da decenni combattono contro i Burmesi a ridosso della frontiera thai. Infatti con Teeng avevamo provato a passare il confine a Mäe Sai per andare a Tassileq, ma non mi hanno fatto passare. Il farang non è benvenuto di questi tempi in Myanmar.
Del resto abbiamo abbastanza da vedere qui. E siamo appunto andati sulla montagna di Doi Chang, che si trova sopra il lago artificiale di Mäe Suai. Per arrivarci, Teeng deve guidare lungo una strada che si inerpica rapidamente, che con la stagione delle piogge diventerà pericolosamente sdrucciolevole. In origine poche case di contadini Akha, poi il turismo ha portato i primi resorts, e poi i residence di lusso, ma sparpagliati sulle pendici delle montagne. Montagne coperte di alberi che risentono della lunga stagione secca (basterebbe un fiammifero e…), che si alternano a spianate brulle, dove gli Akha hanno bruciato le stoppie. Sulle pendici della montagna vicina si vedono le terrazzate del “wet rice”, ma c’è anche quello secco, molto di più non cresce. O meglio cresceva bene il papavero, quello rosso, con i bulbi gonfi di succo da cui si ricava l’oppio, ma da anni le coltivazioni sono scomparse. E con loro i personaggi come Khun San, il re della droga che stava in Shan, la regione cinese a nord di Myanmar, Thailandia e Laos.
Ora i soldi si fanno col turismo, ma non solo: all’oppio si sono sostituite le anfetamine, e spesso leggo sul Bangkok Post che da queste parti hanno sequestrato milioni di pillole che da Myanmar vanno verso Bangkok, lo “ya baa”, la “medicina pazza” che ha sostituito il tradizionale, e meno aggressivo, oppio.
C. stende sul tavolino dove stiamo terminando la colazione una carta del posto e chiede una informazione. Lusia la guarda e sorride imbarazzata. Non sa leggere.
– Il padre di Lusia era molto povero – dice – è venuto da Myanmar in Thailandia.
E ci fa vedere la foto della prima casa che hanno abitato quando passarono il confine, una capanna sgangherata. Le case degli Akha nei villaggi vengono invece costruite su palafitte, così non ci salgono i roditori che vanno a mangiarsi il riso. E i cobra. Le Akha portano dei gambali, quelli che oggi elegantemente chiamiamo “leggins”, per proteggersi dai rovi quando vanno in montagna, e dai serpenti.
Lusia quindi non ha potuto studiare e a mala pena legge il thai, che parla con un forte accento akha, ma Lusia parla oltre alla sua lingua e al thai anche il lahu e l’inglese, che ha imparato lavorando come massaggiatrice a Chiang Rai, dove i migliori parlours sono tenuti dalle Akha.
Lusia ripete scuotendo il capo:
– Lusia non ha studiato.
E allora, con orgoglio, ci fa vedere le foto dei tre figli, due maschi e una femmina, che studiano alle scuole superiori e andranno all’università. Due studiano in scuole di religiosi a Chiang Säen, il maschio in Myanmar. Lusia lo chiama, lo vediamo in video, un bel ragazzo che sorride. La madre è contenta di mostrare gli amici farang. I soldi che C. le ha dato per accompagnarci li manderà al figlio.
Lusia va ogni domenica alla messa cattolica. A Chiang Rai c’è una chiesa che per le feste comandate si riempie di thai, ma anche di chi viene dalle montagne, gli Akha, ma anche gli Yao, pochi i farang residenti. Quella di Chiang Rai è una diocesi con un vescovo thai e sacerdoti thai. Quando con C. scherziamo sui preti di casa nostra Lusia non capisce in che cosa consista lo scherzo, qui il cattolicesimo ha un’altra dimensione.
I missionari cominciarono a venire nel nord dell’Indocina e della Thailandia verso la fine dell’Ottocento, trovarono un terreno fertile.
– Perché siete cristiani?
Lusia non capisce la domanda, per lei è logico esserlo. Il padre e la madre erano cattolici.
– E il nonno?
Del nonno Lusia non sa nulla, ma gli Akha hanno una buona memoria collettiva e sanno da dove vennero, hanno anche la passione della genealogia, scienza peraltro utile nelle piccole comunità montane per evitare che il sangue si mischi troppo.
Vennero dal Tibet, e parlano una lingua del ceppo sino-tibetano.
Lusia cerca, divertita, di farci ripetere alcune frasi in Akha. Le chiedo di scriverle, ma gli Akha non hanno una scrittura propria, come i Thai o i Lao, col loro bello stile di caratteri arrotondati.
Facciamo una passeggiata. C. osserva che sui banani non si vedono caschi di frutti, ma Lusia ha l’occhio abituato alla foresta, e gliene indica alcuni. Una ragazzina sta cogliendo delle erbe. Lusia l’aiuta. Parlano in burmese, la ragazzina è una dei tanti burmesi che vengono a lavorare in Thailandia. La Thailandia ha bisogno di loro, avendo una disoccupazione di solo l’1%. I burmesi fanno i muratori, i contadini, le loro donne servono nelle case dei benestanti e nei ristoranti. Qualcuna finisce nei bar di Jedyod road, o ancora più lontano, a Pattaya. Ogni tanto a Mäe Sai, al confine, vedo donne e uomini burmesi stipati nel gabbione del pck up della polizia, sono dei clandestini che la solerte polizia thai rispedisce a casa. E anche se hanno il permesso di lavoro, a sessanta anni devono andarsene.
Teeng non ama i Burmesi, ma è naturale, lei è orgogliosamente Lanna, l’etnia dominante del vecchio regno del Nord. La Birmania e Lanna si invadevano a vicenda, battaglie di guerrieri e di elefanti. I burmesi sono seri, sorridono poco, non come i Thai o i laotiani. Le donne si spargono sulle gote la thanakà una mistura farinosa ricavata da una pianta. Sembrano infarinate.
Al mercato di Mäe Sai chiesi ad una di loro perché lo fanno. Lei disse:
– Fa caldo.
Ma il vero motivo è perché ha un significato religioso, fa parte del belletto di una donna.
Come gli anelli al collo delle Padaung, le “donne giraffa”.
Continuiamo la nostra passeggiata. La terra del sentiero è rossa.
Fino a pochi anni fa per salire al proprio villaggio un Akha doveva comminare per ore, magari portandosi dietro quanto aveva comprato al mercato.
– Ora, con i suv e le moto ci si muove rapidamente.
Ha ragione Lusia, e questo ha cambiato la vita delle comunità montane, anche degli Hmong, dei Lahu, dei Lisu e degli Yao. E poi ci sono i cellulari, che però prendono solo più in basso, e gli Akha hanno imparato a fare soldi. E quello che guadagnano lo investono in collane e bracciali d’oro.
Una volta era l’argento. I copricapi delle Akha sono adornati di monete d’argento, le piastre coloniali francesi. Sono copricapi molto elaborati, che le Akha potavano ogni giorno, perfino la notte, ho letto, ma Katai, un’altra amica Akha di Teeng, mi dice che non è così.
– Tu hai il costume nazionale Akha?
Lusia certo che ce l’ha, ma lo indossa, come le altre giovani, solo nelle feste importanti, come il Capodanno o quando si riuniscono al villaggio per ballare le loro danze, che sono diverse da quelle siamesi, ricche invece di movenze, di simbolismo, di storia mitica.
Lusia ridendo accenna qualche movenza, saltella semplicemente e ride.
– Proprio così, ci teniamo per mano e saltelliamo…
E ride di nuovo, è l’“ochobo”, quando la donna ridendo si copre la bocca con la mano, per grazia ed educazione.
E questo è uno dei grandi cambiamenti: le giovani delle tribù delle montagne non indossano più i loro vestiti tradizionali ogni giorno, le riconosco solo quando parlano thai, mentre le loro mamme e nonne li usano ancora. Le Akha in quegli abiti colorati sembrano Sami, ma mentre sono gli uomini lapponi a distinguersi per i loro elaborati copricapi, qui sono le donne a farlo. Ed ogni etnia, perfino ogni villaggio, ha aggiunto qualcosa all’abito tradizionale. Vogliono distinguersi gli uni dagli altri, pur essendo lo stesso popolo, un popolo, che però ha mille storie diverse, di valle in valle, di balza in balza delle loro montagne.
– È ora di cena.
C. guarda l’orologio, l’aria di montagna gli ha messo appetito.
– Ma è vero che mangiate i cani?
La domanda non è proprio la più educata, ma Lusia ha molta pazienza, chissà quante volte glielo hanno chiesto.
– Solo una volta all’anno.
Non so se scherza o se anche questa è una nuova tradizione.
Alcune di quelle vecchie resistono.
– Venite per la nostra festa al mio villaggio a vedere l’altalena.
Nei villaggi Akha ci sono tradizionalmente due costruzioni fondamentali: il cancello di ingresso, da cui non si passa, sta lì per impedire l’intrusione degli spiriti maligni, e l’altalena, alta, che butta in aria i giovani che ridono e ridono.
– Perché l’avete?
Lusia non lo sa, c’è e basta. Forse a volte facciamo domande inutili.
Penso che sia una reminiscenza sciamanica, di avvicinarsi al cielo, ma forse ho letto troppo sullo sciamanesimo, che comunque in queste comunità ha avuto un impatto fondamentale.
Torniamo al nostro resort per la cena. La terrazza si apre su una valle dove le brume della mattina si sono diradate. Ai Tropici la notte cala rapidamente. Sulle pendici dei monti si accendono delle luci, qualche auto si inerpica, se ne vedono i fari.
Si accendono anche i grilli, come diceva Garcia Lorca.
Teeng poggia il capo sulla mia spalla.
Il nostro Mediterraneo è così lontano.
Nel cielo compaiono le stelle che oramai in città non si vedono più.
Anche qui ci si perde nel Guadalquivir delle stelle.