Domenica 3 marzo 2024, Terza Domenica di Quaresima, Santa Cunegonda
IN MEMORIAM
Anna Maria Martellone, storica americanista e studiosa di talento raffinato, è morta quasi sola sabato scorso 24 febbraio, nella sua bella casa al quinto piano di un moderno palazzo della periferia settentrionale di Firenze: dalla sua terrazza si godeva un panorama affascinante, da una prospettiva a volo sulla stazione ferroviaria di Rifredi al cimitero ebraico al profilo delle colline fiesolane e di Monte Morello; e, in lontananza ma non troppo, la nostra bella Firenze con i suoi monumenti e le colline d’Oltrarno. E scherzavamo sul fatto che Anna Maria, così profondamente legata al suo “North End” bostoniano, il quartiere italiano della gemma del Massachusetts, romana fiorentinizzata, fosse finita da abitare a Rifredi, il “North End” della Città del Giglio.
Era nata nel 1928, aveva studiato sotto il magistero di Delio Cantimori e di Eugenio Garin, era amica di Sergio Bertelli e di Raimondo Luraghi. Durante l’anno accademico 1970-71 era divenuta assistente di Giorgio Spini insieme con Gigliola Dinucci, Zeffiro Ciuffoletti e con me; nel contempo, era docente “incaricata” di storia americana, disciplina della quale divenne poi severissima cattedratica formando alcuni giovani americanisti di altissima qualità. Studiava la storia novecentesca degli Stati Uniti, custodiva una viscerale passione nordista uguale e contraria a quella sudista del suo amico Luraghi, era americanista attenta e anche innamorata della sua ricerca ma al tempo stesso rigorosa di un rigore bizzarramente corretto da un humour spontaneo e incontenibile. Il suo capolavoro e il suo testamento spirituale è il bellissimo libro sul “North End” di Boston, la Little Italy della splendida “Cambridge del New England”. Un libro bello e triste, divertito e commosso, a tratti crudele a tratti commovente. Un vero monumento dell’americanistica più colta e più sottile eppure appassionata.
Anna Maria aveva vissuto a lungo negli Stati Uniti; e a Firenze conosceva un po’ tutti gli “americo-béceri” della città, qualcuno davvero pittoresco e più inarrivabilmente impensabile ancora degli “anglo-bèceri”. Oltre all’America, odiatamata – in un certo senso anche lei aveva “sepolto il suo cuore a Wounded Knee” –, un altro suo grande amore era l’Austria: e anche qui c’incontravamo profondamente, da perfetti mitteleuropei mozartianowagneriani. Ho lavorato insieme con lei, a contatto di gomito, dalla fine degli Anni Sessanta alla metà degli Anni Ottanta, quando, vinta la cattedra di Storia medievale a Bari, dovetti abbandonare la Facoltà di Magistero di Firenze, quella di Via del Parione alla quale ero affezionato. Quando rientrai a Firenze, nel 1990, fummo tutti trasferiti alla Facoltà di Lettere, ma ormai le cose non erano più come prima: e ci perdemmo poco a poco di vista.
Eravamo stati amici fraterni sul serio e, come accade sempre in questi casi, lo siamo restati per sempre sia pur frequentandoci pochissimo: anzi, credo che Anna Maria sia stata una delle poche persone, forse l’unica, con la quale sentivo di potermi sinceramente confidare anche in anni che per me non furono facili. La mia quarta figlia porta il suo nome a testimonianza del nostro reciproco affetto. Fu anche lei a “farmi capire” gli Stati Uniti: che io – da troppi considerato a torto un “antiamericano viscerale” – amo invece profondamente e nei quali ho avuto tanti allievi e ora conservo tanti amici. Debbo ad Anna Maria il lungo bel periodo di docenza fiorentina al Middlebury College; a lei debbo la mia Fellowship alla Berenson Foundation della Harvard University; è lei ad avermi spiegato Ezra Pound e i poeti dello “Spoon River”; è stata lei, mozartian wagneriana di lungo corso, a cercare – con successo modesto, ma per colpa mia – di farmi capire West Side Story (ma con Porgy and Bess non ce l’ha fatta).
Sapevo da tempo che la sua salute andava declinando. Ma ho fatto con lei, a lei, quello che purtroppo ho fatto con tanti altri amici cari, a tanti amici cari. Da anni non riuscivo più a trovare una mattinata, un pomeriggio, una cena o un dopocena da dedicarle. Mi ripromettevo di farlo e Dio sa se non ero sincero. Ma ho rimandato di settimana in settimana; ho fatto passare il tempo. L’ultima volta che le sono stato vicino, nella chiesa della Madonna di Rifredi, non ho potuto rivederla. Era là, in una piccola cassa di legno chiaro, circondata da pochi amici fidati.
Così il tempo passa: e noi restiamo sempre più soli, ad accumulare rimorsi. FC