Minima Cardiniana 458/1

Domenica 10 marzo 2024, IV Domenica di Quaresima, Santi Quaranta Martiri

EDITORIALE
Più che un editoriale, questa è una Presentazione e una caldissima, sincerissima Raccomandazione.
Leggete con urgenza, consigliate, diffondete questo bel libro di Elena Basile, L’Occidente e il nemico permanente (Roma, PaperFirst, 2024). Allieva di Biagio Di Giovanni, entrata nel 1985 nella carriera diplomatica, una brillante carriera in giro per il mondo per quasi quarant’anni. Poi, nel 2023, la rottura.
L’ambasciatrice Elena Basile ne ha abbastanza. Per la carriera diplomatica occorrono cultura, intelligenza, finezza, magari anche una bella presenza. Ma talvolta ci vuole anche una pesante capacità di sopportazione e magari una certa insensibilità morale.
Insomma, un bel po’ di pelo sullo stomaco. E la signora Basile ne è evidentemente priva. Davanti allo spettacolo della politica estera del nostro paese, non ci sta. Si dimette: letteralmente, per incompatibilità tra i suoi princìpi etici e gli obiettivi della nostra politica estera.
Elena Basile è una professionista seria, una persona onesta. Dalla fine degli Anni Novanta ne ha viste troppe. Ed è una diplomatica competente, una che non si lascia ingannare e che non le manda a dire. In quasi 200 pagine dense, lineari, pulite e informate ci racconta la storia del mondo che noi stessi abbiamo vissuto e magari contribuito a scrivere, ma senza comprendere. Dalla fine del secolo scorso, il Totentanz dell’allargamento della NATO e della politica criminale già annunziata del documento PNAC (Project for a New American Century) ci ha condotti sull’orlo della catastrofe. Elena Basile ripercorre gli ultimi decenni di menzogne, di stragi, d’infamie.
Dal canto mio, preferisco non aggiungere nulla. Passo la mano. Mi limito a due lunghe citazioni dal libro della Basile, ma senza usare le sue parole. Ve ne propongo invece la Prefazione, redatta da Luciano Canfora, e la Postfazione dell’ambasciatore Alberto Bradanini. Esaurienti ed impressionanti entrambi. Mi limito ad aprire e chiudere le virgolette: senza aggiungere niente. Leggete le loro parole, poi passate al libro della Basile. E fatelo leggere a più gente che potete. FC

PREFAZIONE
Luciano Canfora
Questo libro di Elena Basile, che scaturisce dalla approfondita conoscenza che l’autrice ha della storia diplomatico-militare dell’ultimo trentennio, risulta, proprio per tale suo fondamento, illuminante. Illuminante, beninteso, per chi cerchi di “sapere qualcosa di preciso”, per usare una espressione semplice e limpida che si trova in un proemio compreso nell’opera tucididea.
La ricchezza dei dati e il disvelamento delle connessioni e degli intrecci supportano ampiamente, a mio giudizio, la tesi espressa sinteticamente nel titolo del volume. Nel solco di tali indagini, si possono prospettare ulteriori scenari. Il che deve qui farsi brevemente e in iscorcio.
All’origine della più che secolare vicenda che abbiamo alle spalle vi è il suicidio dell’Europa. Suicidio determinato dalla scelta dell’impero britannico di fermare con la guerra la crescita prorompente e l’allarmante rivalità del ben più giovane impero tedesco. Tale fu la genesi della Grande Guerra (1914-1918). Al termine della quale il bastone di comando passò dal malconcio impero britannico al ben più moderno impero degli Stati Uniti d’America. Certo, non si denominava “impero”, ma aveva tutte le caratteristiche e disponeva delle necessarie premesse per esserlo.
Ma la guerra suicida aveva anche fatto sorgere il nuovo “nemico assoluto”: il comunismo. Non più “spettro” letterario ma dura formazione politico-statale non disposta a farsi soverchiare. Fino al 1918 il “nemico” dell’Occidente era la Germania, per sconfiggere la quale l’Inghilterra aveva saputo coinvolgere prima la Russia poi gli Stati Uniti. Ora il “nemico assoluto” era ancora più a Oriente, sulla carta geografica. Anche per questo era un “nemico” perfetto. Un nemico rispetto al quale l’“Occidente” tutto poté dispiegare, dando a credere di investirsi di una sorta di moderna “crociata”, tanto la forza quanto la propaganda: ora alternandole, ora coniugandole. Ragion per cui davvero il 1941-1945 costituì una anomalia, dalla quale – scampato il pericolo – furono prese quanto più rapidamente possibile, e con adeguata profusione di oratoria fremente, definitive distanze. Sappiamo chi ha vinto.
Le cose divennero un po’ meno agevoli quando l’“usato sicuro” (“mondo libero” versus “impero del male”, “chiesa del silenzio” etc. etc.) risultò non più calzante. E anzi, per un breve tratto, parve addirittura opportuno, o comunque utile, plaudere alla democrazia ritrovata grazie nientemeno che a Corvo Bianco. E i cultori meno avveduti della “filosofia della storia”, della storia proclamarono, allora, addirittura la conclusione: culminante appunto nella imminente vittoria universale della democrazia (cioè dell’“Occidente”).
Ma non durò. Quando l’Europa, raccolta sotto le insegne di una Unione a trazione tedesca cresciuta di dimensioni geografiche ed essenzialmente economico-finanziarie, cominciò a scoprire che l’ex “impero del male” era un partner interessante e foriero di reciproci vantaggi, il Grande Fratello dovette correre ai ripari. Il che poteva, consentendogli il Patto Atlantico (anch’esso in crescita vertiginosa) di affermare se stesso nel resto del mondo e, al tempo stesso, tenere per mano l’Europa.
In breve fu aggiornato il lessico: non più l’“impero del male” ma la “democratura” fu il “nemico”. Adattata all’incessante flusso degli eventi, l’antica litania poté ricominciare, con ritocchi stilistici e sommovimenti “arancione”. (Altrove provvedevano le primavere arabe, ma anche, se del caso, la distruzione dell’Iraq o il bombardamento sulla Serbia).
Il “nemico” era da capo lì: “Il bieco storione del Volga”, come si espresse un dì un giornalista emotivo nelle focose polemiche degli anni Cinquanta.
Ma nascevano anche nuovi imbarazzi. Che fare della Cina? In assenza di un altro Kissinger che riuscisse daccapo a metterla contro la Russia. Era un problema. Per le api operose che costruiscono l’opinione pubblica nel “mondo libero” si apriva un dilemma non da poco: bisogna scrivere che va a rotoli o invece che è ormai pericolosa perché troppo forte? Bisogna demonizzarla e smascherarla perché non più comunista ma ipercapitalistica, o è meglio ripiegare sul classico e ribadire che incarna più che mai il mostro comunista? Questa seconda opzione è stata da ultimo abbracciata da un astro nascente della “democrazia occidentale”, il neopresidente argentino Milei: il quale ha fatto sapere, per la gioia del democratico Biden, che si ritira dal gruppo Brics perché si sente incompatibile coi “comunisti” (cioè la Cina appunto).
Viene a mente un vecchio, efficace, scritto giornalistico di Benedetto Croce, apparso nel periodico “La città libera” del 14 settembre 1945: Durezza della politica. Lì Croce prendeva spunto dalla sorpresa di alcuni di fronte al fatto che, sconfitto ormai l’Asse, il nuovo governo inglese, non più conservatore ma laburista, accantonasse, pur sollecitato, ogni ipotesi di buttar giù Francisco Franco, a suo tempo sorretto dall’Asse e agevolato dai conservatori inglesi. Ormai – rilevava – i laburisti, giunti al governo, se la cavano con l’argomento “Ogni popolo è padrone di darsi il governo che vuole”. Con lucida freddezza Croce osservava: in politica, le parole che ammantano l’azione (in particolar modo nel campo della politica estera) non hanno, né pretendono di avere, un contenuto di verità. “Se gli interessi inglesi”, soggiungeva, “entreranno in conflitto con quelli spagnoli, si assisterà a una rapida mutazione di stile, e la crociata sarà bandita in nome della morale”. Vera vocabula rerum amisimus lamentava lo storico latino Sallustio.
Così, l’“Occidente” non ha mai perso il vezzo di voler fare la lezione al mondo, nel mentre che ha come obiettivo primario di egemonizzarlo, convogliando intorno a sé satelliti contro il “nemico”: con ogni mezzo, dall’assassinio mirato al predicozzo.
Lo fa dire Le Carré a Smiley: “A volte penso che la cosa più volgare della guerra fredda sia stata il modo in cui imparammo a trangugiare la nostra propaganda. Naturalmente abbiamo fatto lo stesso in tutta la nostra storia. Nella nostra presunta rettitudine ideologica perfezionammo l’arte della menzogna pubblica. Ci facemmo nemici riformatori rispettabili e amici i sovrani più disgustosi” (The SecretPilgrim, 1990, trad. it. Il visitatore segreto, Oscar Mondadori, 2001, capitolo 6). Valutazione complessiva, che trova un puntuale riscontro documentario nel recente studio di Vincent Bevins The Jakarta Method (2020, trad. it. Il metodo Giacarta, Einaudi, 2021).

POSTFAZIONE
Alberto Bradanini
Giocando a rimbalzo con una pretestuosa strumentalità, molti abusano del principio di complessità quale forma giustificativa della difficoltà a comprendere gli eventi, anche quando questi s’impongono per lucida evidenza. Se tuttavia si prende distanza dal pre-giudizio e si presta attenzione al rigore del ragionare più che alla musica delle parole, la logica aristotelica torna ad affiorare e la nebbia inizia a diradarsi.
A compensare l’umiliante destrezza di intellettuali all-season che per pavidità o convenienza vibrano all’unisono con gli orchestranti di turno, soccorre il pensiero inequivoco di Antonio Gramsci (“Odio gli indifferenti!”), che in aggiunta compensava l’ontologica impossibilità di sconfiggere il profilo apodittico di ogni argomentare con la limpidezza del posizionamento.
Elena Basile, fuggendo dall’elusione, si lascia avvolgere nell’abbraccio della passione (un pregio incommensurabile!), scegliendo di posizionarsi dalla parte giusta della storia, incurante dell’abisso valoriale nel quale l’ingiustizia e la violenza trascinano il nostro tempo.
Fin dalle prime righe, si è catturati da un intreccio di rigore, passione e indignazione, una dimensione estranea al mondo che ci circonda, amalgama melanconico, eppur vivificante di ogni percorso di palingenesi. L’indignazione, in specie, raro e sconsolato appannaggio di anime nobili, riempie ogni spazio del libro, guidando chi legge verso un ideale punto di fusione, dove la meditazione sulla tragedia del mondo riflette i labirinti dell’umana sofferenza.
Il disvelarsi di una coscienza critica davanti all’oppressione e ai massacri teleguidati da cinici commedianti costituisce un azzardo per i freddi difensori di privilegi, onori e denari, residue illusioni del vacuum valoriale di una società mercificata. Su un palcoscenico in crisi di legittimazione l’impalcatura politica, mediatica e accademico-amministrativa (fatta salva qualche nobile, ininfluente eccezione) ha la consegna di tollerare solo distanziamenti di margine, sorvegliando da vicino quegli spiriti che si ostinano a combattere ingiustizia, oppressione e violenza.
Davanti a una demonizzazione del dissenso decisamente fuori misura, che riflette un’inedita fragilità di sistema, l’autrice propone un’esegesi degli accadimenti che l’umiliante asservimento dei maggiordomi del potere giudica un attentato. La sua acquisizione ha tuttavia il pregio di scuotere il torpore di chi guarda senza vedere o di chi pur vede, ma poi volge lo sguardo altrove.
In un celebre passaggio dell’Ideologia tedesca Marx osserva: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti. La classe che dispone dei mezzi di produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa, in complesso, sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi di produzione intellettuale”.
Il grande intellettuale americano, Noam Chomsky, afferma che “la propaganda sta alle democrazie come il bastone alle dittature”. Nelle cosiddette autocrazie o dittature, il popolo sa bene che alcune cose sono consentite, altre no, e che i media obbediscono al potere, e dunque mantiene un naturale scetticismo verso ciò che sente o legge. Per insondabili ragioni, invece, nelle cosiddette democrazie la popolazione ritiene che la verità scaturisca in automatico dalla libertà d’espressione, quale filiazione di un sistema d’informazione oggettivamente attendibile, salvo eccezioni: un mistero insondabile! Quando invece nelle democrazie la macchina della propaganda ha bisogno di una sorveglianza ancor più sofisticata, perché i meccanismi di controllo sociale tendono a sfuggire più facilmente rispetto a quelli delle dittature.
In verità, il primo obiettivo di ogni potere è ovunque lo stesso: controllare il disagio del popolo, sempre inquieto per definizione. E dunque, il cittadino che voglia preservare la propria integrità prenda distanza da tv e giornali, con modiche eccezioni, attingendo a informazioni e conoscenza attraverso i libri e la rete. Certo, anche libri e rete sono territori percorsi dai modellatori della coscienza pubblica a libro paga, ma in essi la libera espressione è ancora possibile.
Con una freschezza d’intelletto che ha smesso di dissetarsi alla fonte della Grande Menzogna, l’autrice riflette sui conflitti in Ucraina e Gaza, su alcuni profili della riemersione cinese, sull’ascesa dei Brics, sulla macchina della propaganda, sulla patologia della potenza egemone e sui pericoli di un’escalation distruttiva della civiltà. La circostanza che i padroni del mondo – privi ormai di egemonia (quella gramsciana), ma non della forza! – esibiscano consapevolezza minima di tale azzardo costituisce funesta evidenza della degenerazione morale dell’io narrante.
Il filo rosso che lega la struttura dei conflitti in atto (e potenziali) è costituito dal capitalismo estrattivo che, in linea con i processi di asfissiante globalizzazione impostasi a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ha assunto le forme strutturali di un feroce imperialismo. Da allora, il culto del dio profitto si è radicato nella grammatica della vita umana, soffocando ogni altra valorazione dell’esistenza sociale.
Su tale binario esegetico, il conflitto in Ucraina, come anche le pietre hanno ormai compreso, è ben decifrato se si assume che gli obiettivi del conduttore atlantico siano un cambio di regime e l’implosione di una Russia ricca di territori e risorse, sebbene i soli ritorni laterali fossero già considerati un ottimo affare: la Nato viene riportata in vita, il guinzaglio che stringe l’Europa si accorcia, i venditori di armi sono al settimo cielo, il dollaro riprende ossigeno, i corsi di gas/petrolio tornano a salire e via dissanguando. Il conflitto in Palestina, che finirebbe d’incanto se il grande fratello americano cessasse di fornire a Israele armi e denari, ha le sue radici nel dominio mediatico e finanziario dei circoli pro-israeliani degli Stati Uniti (l’Aipac e i cristiano-evangelici pro-sionisti). Le tensioni intorno alla Cina, infine – che puntano a demolire il capitalismo pubblico cinese, una sfida di struttura, finanziaria e ideologica al corporativismo americano – riflettono anch’esse le priorità della plutocrazia globalista.
Quanto sopra premesso, vale la pena riflettere sui due termini del titolo Occidente e nemico permanente, senza ambizioni di completarne lo spazio ermeneutico. Con Occidente s’identifica usualmente quel recinto politico, culturale, economico e militare (non geografico) che dal secondo dopoguerra vive sotto l’ombrello egemonico degli Stati Uniti. Di tale termine, va detto, la narrativa occidentale ha imposto un uso ambivalente, con l’intento surrettizio di farlo coincidere con l’intera comunità internazionale, non solo una parte, per di più demograficamente minoritaria. Ora, persino negli anni divisivi della guerra fredda ai Paesi satelliti della costellazione Usa era riconosciuta qualche libertà d’escursione (non su questioni essenziali, però). In ogni caso, quel tempo è trascorso. Oggi quei vagoni sono saldamente ancorati alla locomotiva dei padroni del mondo, con un aggravio ulteriore, poiché alla luce del declino in atto minore è la presa politica/economica/militare della locomotiva americana sul mondo, maggiore la saldatura dei vagoni con quest’ultima.
In tutta apparenza, i Paesi europei hanno assorbito con gratitudine lo status di vassallaggio ereditato dalla sconfitta militare nel secolo scorso. Sulla carta, è vero, essi potrebbero sfidare la sorte e avventurarsi su un difficile percorso di recupero della sovranità. Ciò richiederebbe tuttavia la disponibilità di classi dirigenti dignitose, di cui in Europa non si scorge l’ombra.
Quanto al bisogno di un nemico permanente, come rileva l’autrice, l’Occidente s’ingegna quotidianamente a dipingere un’inesistente minaccia alla sua sicurezza e democrazia (una costruzione fantasmagorica che da sola meriterebbe un trattato) per neutralizzare ogni libertà di scelta di nazioni ormai riluttanti ad accettare la sola posizione consentita dal sovrano, quella del missionario.
Secondo il politologo americano d’origine giapponese F. Fukuyama[1], tutti i Paesi sono destinati a precipitare nell’imbuto di democrazia liberale ed economia di mercato, è solo questione di tempo. Sinora, per la verità, tale divinazione si è rivelata fallace. La creatività dei popoli del mondo non può essere limitata da stravaganti profezie al servizio dell’impero, secondo cui le nazioni resistenti sarebbero strutturalmente ostili al Regno del Bene, a sua volta basato sulle regole (rules-based order), beninteso mobili e sempre scelte dal medesimo sovrano, le quali garantirebbero pace, stabilità e progresso; del resto, basta guardarsi intorno per sciogliere ogni dubbio.
Quale logica derivazione, poi, l’espressione nemico permanente nasconde un fatale destino: la condizione di inimicizia è infatti destinata a convertirsi, prima o poi, in conflitto armato. E il titolare del potere di conversione, come rilevava il politologo nazionalsocialista Carl Schmitt, è colui che siede sullo scranno più alto, il vero sovrano. È così che l’oligarchia malata di una nazione di 335 milioni di abitanti – che, per difendere interessi illegittimi e ipertrofici, pretende di dominare su otto miliardi di individui – genera tensioni che rendono rovente la temperatura del pianeta.
La tragedia del conflitto permanente tra grandi potenze – che la teoria realista delle relazioni internazionali[2] giudica un destino ineludibile – è invero tutt’altro che una necessità. Per chi crede che gli esseri umani siano dotati di ragione, non solo di pulsioni, non si tratta di una strada obbligata. Le nazioni possono convivere nell’armonia della diversità, lavorando a un’agenda comune, come suggerisce il leader cinese Xi Jinping, centrata su sviluppo (cui tutti popoli hanno diritto), sicurezza (che va garantita anche agli altri) e valori (alla libertà formale, fondamento della civiltà occidentale, va associata quella sostanziale, vale a dire la libertà dal bisogno, insieme a giustizia ed eguaglianza).
Quando nel 2001 Jim O’Neil (Goldman Sachs) coniò con malcelata apprensione l’acronimo Brics (il Sud Africa si sarebbe aggiunto più avanti) pochi credevano che quell’insieme disomogeneo di Paesi fosse l’apripista del Sud globale verso l’emancipazione. Dal 1° gennaio 2024, altre cinque nazioni sono entrate nei Brics e altre ancora lo faranno in avvenire, tutte desiderose di liberarsi dal giogo di un Occidente predatore, in una costellazione che include la Sco, l’Unione Economica Euroasiatica e altre aggregazioni continentali.
Al 31 dicembre 2023, secondo il Fmi, il Pil dei Paesi G7 è stato di 52.151 mld di dollari in parità di potere d’acquisto (PPP)[3]. Quello dei Brics-plus ha superato 63.157 miliardi. Se poi si sommano i Paesi che hanno già chiesto di aderirei[4] (e la lista è destinata a crescere), il Pil complessivo sfiora i 78.000 mld: una ricchezza enorme. Resta vero che se al G7 si sommano le economie dell’Occidente che non ne fanno parte, quest’ultimo è tuttora più ricco. Le distanze, tuttavia, si accorciano ogni giorno, poiché i Paesi emergenti crescono a tassi più elevati.
In ogni caso, il G7 non è più il faro del mondo. Ormai le discussioni che vi hanno luogo appassionano soprattutto i cultori di storia medievale. Chi intendesse raccogliere qualche segnale sul futuro, farebbe bene a non ignorare il polso del Resto del Mondo. Gli ex padroni del pianeta (Nato-Usa, Unione europea e via colonizzando) sono oggi relegati al ruolo di anticipatori del prossimo conflitto, non molto altro.
Va rimarcato che il cemento unificante tra i Brics – con inevitabili, ma risolvibili problemi al loro interno (ad es. il contenzioso territoriale sinoindiano alle pendici dell’Himalaya) – non è quello di dominare il mondo o di sfidare l’Occidente-Usa, poiché molti hanno interessi sui due fronti, ma il principio di sovranità, vale a dire il desiderio di sottrarsi al neocolonialismo dell’egemone unipolare, camuffato da diritti umani e altre fabbricazioni. La sovranità, essenza di ogni statualità, è un tema di valenza esistenziale, sul quale anche la cosiddetta Unione europea farebbe bene ad aprire una storica riflessione.
Nella sua opera magistrale (1984), George Orwell sostiene che la guerra non ha il fine di sconfiggere il nemico, ma di preservare la medesima struttura all’interno della società, proteggere i privilegi dei ricchi e mantenere i poveri nella loro condizione. Pace e guerra, nell’analisi di Orwell, tendono a sovrapporsi, perdendo la caratteristica di contesti contrapposti, e diventano profili di un medesimo destino, inquadrati nell’ontologia dell’immutabilità: il ministero della Pace è incaricato di preparare la guerra, quello della Verità di fabbricare menzogne, quello dell’Amore di praticare la tortura, quello dell’Abbondanza di rendere scarsi beni e servizi, in una distopia senza fine, dove la democrazia non è che forma estetica, funzionante sulla delega, non sulla partecipazione, e dove si materializza la nota trilogia ossimorica: la Pace è Guerra, la Libertà è Schiavitù, l’Ignoranza è Forza. Divenendo perenne, il conflitto cessa di essere tale e sfuma in un impasto di guerra-pace i cui contorni si perdono nella bruma.
Uno sguardo alla natura dei conflitti mostra che ad arricchirsi sono sempre gli stessi, sia nei Paesi che li hanno iniziati che in quelli che li hanno subiti. E dal secondo dopoguerra, come rileva una schiera di analisti (su tutti Lindsay O’Rourke, Covert Regime Change, Cornell University, 2018) i primi beneficiari sono gli Stati Uniti.
Questi sono oggi il supremo garante strategico-militare dell’egemonismo estrattivo, dominato da una cinica plutocrazia che promuove diritti umani e democrazia con ordigni al napalm, diffondendo un occulto complesso di colpa olocaustico scontabile solo nell’eternità, imponendo la mistica di una cultura superiore, la patologia di una nazione voluta da Dio per governare un mondo irrequieto – al cui fine si renderebbero necessarie le 800 basi militari disseminate nel mondo –, più altre perle di mitologica preminenza. Tali riflessioni non sono figlie di pregiudizi antiamericani, poiché l’avversario, è utile ripeterlo, non è il popolo statunitense, politicamente ahimè tra i più analfabeti del pianeta, ma la sua oligarchia plutocratica, predatoria e bellicista.
Un filosofo del secolo scorso affermava che i conflitti armati finirebbero tutti e per sempre se venisse adottata la seguente norma universale: “Coloro che dichiarano una guerra devono essi stessi recarsi al fronte, insieme a figli e parenti”, poiché i potenti decretano le guerre, ma a morire è sempre la povera gente.
La piccola politica (quella dei nostri governi) si occupa di cose piccole, di una finta dialettica tra partiti distinguibili solo per la diversa capacità d’intrattenimento. Al contrario, la grande politica vuol cambiare la società, si batte per la giustizia, il lavoro, la libertà dal bisogno, i servizi pubblici, l’emancipazione culturale, e sulla scena internazionale si oppone ai conflitti, ai massacri, al colonialismo/neocolonialismo, lotta per l’emancipazione dei popoli, di cui rispetta diritti, valori e diversità.
Oggi, il pianeta è esposto a tre rischi esiziali: 1) un conflitto atomico che porrebbe fine al genere umano. Secondo il Doomsday Clock – l’orologio dell’apocalisse – la distanza dalla mezzanotte è misurata in novanta secondi. Per di più, quel pulsante è consegnato alle macchine, che obbediscono a principi di automatismo; 2) un capitalismo senza restrizioni che concentra la ricchezza nelle mani di pochi; 3) la distruzione dell’equilibrio ecologico, che annega nella logica del profitto delle corporazioni private, sostenute dai rispettivi governi.
“Paura, dubbio e cautele di tipo ipocondriaco ci stanno chiudendo in una gabbia. Abbiamo invece bisogno del respiro della vita. Non v’è nulla di cui aver paura. Al contrario, il futuro ci riserva più ricchezza, libertà economica e opportunità di vita di quante non ne abbiamo mai godute in passato. Non v’è ragione alcuna per non sentirci audaci, aperti all’avventura, attivi e alla ricerca di tante possibilità. Là di fronte a noi, a bloccare la via, vi sono solo alcuni anziani signori, stretti nei loro abiti talari, che hanno bisogno di essere trattati con un po’ di amichevole irriverenza e buttati giù come birilli”. Questi pensieri non sono scaturiti dalla mente di Marx o Lenin, ma da quella di J.M. Keynes, il più grande economista liberale del XX secolo, difensore però di un’economia etica e di un benessere condiviso, e insieme sensibile ai bisogni essenziali degli uomini – il primo dei quali, per lui come per noi, resta la pace.
Per concludere, poiché la desolante scena del mondo non induce certo all’ottimismo, le chances che in un tempo ravvicinato possa prodursi un vero cambiamento sfiorano drammaticamente lo zero. In Italia, poi, il decadimento etico delle sfere dominanti – i cui esponenti sono attori di un copione scritto altrove – rende i cittadini inerti, abbagliati dal cupio dissolvi di una società rassegnata all’ontologia dell’immodificabilità.
La prospettiva cambia però radicalmente se si guarda al cammino dell’uomo nella storia, dove il sogno di una società diversa resta insopprimibile. E su queste note, ci attentiamo a proporre al lettore i versi che seguono: “Diletti figli di un dio minore, umani sventurati oppressi e umiliati, non siete abbandonati; volgiamo insieme lo sguardo alle praterie della speranza, dove un giorno potremo assaporare la gloria del riscatto, dove i carnefici sconteranno le loro infamie, dove sfruttamento e alienazione saranno banditi, e la vita, con le sue gioie e i suoi dolori, sarà vissuta nella dignità di uomini liberi e uguali”.

[1] La fine della storia e l’ultimo uomo, Ed. Utet, 2020.

[2] John J. Mearsheimer, The tragedy of Great Powers Politics, W.W. Norton & Company, Updated edition, 2014.

[3] https://www.imf.org/eict.ernal/datamapper/PPPG-DP@WE0/0EMDC/ADVEC/WEOWORLD

[4] Algeria, Bangladesh, Bahrein, Belarus, Bolivia, Vietnam, Honduras, Indonesia, Cuba, Kazakistan, Kuwait, Marocco, Nigeria, Palestina, Senegal e Thailandia.