Domenica 10 marzo 2024, IV Domenica di Quaresima, Santi Quaranta Martiri
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IL NUOVO LIBRO DI FRANCESCO BENOZZO
Dopo la pubblicazione recente di due CD come arpista e cantante (Canto delle isole remote, dedicato ai canti di marinai dell’area atlantica e realizzato insieme al polistrumentista Fabio Bonvicini, e Sylvatica. Canti sciamanici erranti, incentrato sugli antichi canti di tradizione sciamanica provenienti dalle comunità di Tuva, dell’Estonia, Ainu, Inuit e della Mongolia settentrionale, realizzato insieme alla cantante e danzatrice contemporanea Barbara Zanoni, entrambi prodotti alle Isole Faroer per la casa discografica Tutl, specializzata nell’ambito della World Music), esce in questi giorni un nuovo lavoro, questa volta librario, di Francesco Benozzo.
Si tratta di Homo poeta. Le origini della nostra specie (Lucca, Edizioni la Vela): un piccolo libro visionario e sorprendente in cui confluiscono oltre vent’anni di ricerche filologiche e di dissidente militanza poetica dell’autore. Benozzo mette qui in relazione per la prima volta la propria rivoluzionaria teoria sulla nascita e l’evoluzione del linguaggio umano (secondo la sua teoria comparso già 3 milioni di anni fa con l’Australopiteco) con la propria convinzione che la poesia ha salvato e continuerà a salvare le nostre vite.
Benozzo, che dedica significativamente il libro da un lato “Alla memoria di Mario Alinei, che mi ha insegnato a seguire con coraggio le visioni della Scienza contro i dogmi degli scienziati” e dall’altro “Alle ribelli e ai ribelli che hanno lottato e stanno lottando in questi anni di non senso, ciascuno nei suoi modi preziosi e unici”) tenta qui, in una pubblicazione agile di 100 pagine, di illustrare come la sterzata evolutiva della nostra specie, la sua vera e propria nascita, sia da attribuire a quello che egli definisce Homo poeta, scardinando volutamente l’abituale terminologia e cronologia paletnologica. Nella convinzione che Homo poeta preceda addirittura Homo loquens, cioè la comparsa del linguaggio stesso, e che ciascuno di noi sia poeta prima ancora di saper parlare, questo testo è soprattutto un appello a una visione diversa di noi stessi. Come scrive nella premessa, “le pagine che seguono vorrebbero più che altro essere un invito, o la riscoperta di un anelito, a una percezione nomade di noi stessi, proprio oggi che, con vari strumenti e strategie, si opera sulle nostre menti in modo che viviamo in una sedentarietà di gesti e di pensieri, o che ci illudiamo di viaggiare in luoghi già noti, raggiungibili con dispositivi che prevengono ogni rischio di variante individuale. Questo è un libro sullo stupefacente potere che ciascun individuo – in quanto creatura irripetibile, unica, libera e parlante – ha dentro di sé per produrre immaginario e creare continuamente nuovi mondi. Ed è un elogio di ogni anomalia rispetto alle leggi evolutive” (pp. 13-14).
Il saggio si muove per nuotare tra i vertiginosi fondali delle parole che ogni giorno utilizziamo, spesso inconsapevolmente. Ecco un esempio eloquente: “Ciascuna parola che utilizziamo è in continuità con la prima parola pronunciata dall’uomo. Addirittura una parola come computer, che in italiano arriva come anglismo, ha dentro di sé ed esiste grazie al fatto che è esistita una parola latina (computare) usata per secoli e millenni, e continuamente morta per millenni ogni singola volta che è stata pronunciata, col significato di ‘calcolare, contare’ (i primi computer erano dei calcolatori); ma computare, a sua volta, rimanda a una delle tante parole nate nel Neolitico quando si è diffusa l’attività della potatura: attività che richiese in principio una notevole capacità di osservazione e che sviluppò pertanto nuove forme di pensiero. Computare cioè esiste grazie al fatto che è esistita una parola latina (putare) usata per secoli e millenni, e continuamente morta per millenni ogni singola volta che è stata pronunciata, il cui significato era appunto quello di ‘potare’ (gli alberi) (mantenutosi in forma traslata in amputare), e che ha dato poi origine a verbi che significano ‘pensare’, e cioè re-putare, ‘scegliere’, e cioè de-putare (con il derivato deputato, originariamente ‘colui che è scelto’), ‘discutere’ (dis-putare). Ma putare, a sua volta, esiste grazie al fatto che è esistita una parola in area indeuropea (ricostruita come *pot-/*put-) usata per secoli e millenni, e continuamente morta per millenni ogni singola volta che è stata pronunciata, con significati legati al potere sacro e alla sua manifestazione: Potna è non a caso uno degli appellativi della dea Devī nel Ṛgveda sanscrito, e compare anche nell’Iliade come Potnia theròn ‘Signora degli animali’. In definitiva, una parola come computer ha dentro di sé ed esiste grazie al fatto che è esistita una parola usata per secoli e millenni, ed è continuamente morta per millenni ogni singola volta che è stata pronunciata, legata in origine alla nominazione sacra del mondo. E quella parola esiste adesso. È pronunciata adesso. Nasce e muore continuamente adesso: vertigine evolutiva” (pp. 21-22).
In ciascuno di noi, ci dice l’autore, alberga e pulsa qualcosa dell’antica visione sciamanica del mondo: “Come morene modellate dal paesaggio glaciale, i sedimenti della poesia paleolitica non scomparvero. Si trasformarono in un nuovo paesaggio. I canti danzati da Homo poeta si sgretolarono in asimmetrici crinali, come nella tipica fluttuazione dei margini del ghiaccio, ma i poeti possono ancora camminare lungo quei crinali, attraversando con consapevolezza gli strati della loro antica arte. Il poeta, ciascuno di noi in quanto poeta, non ricostruisce l’antico aspetto del mondo primevo, ma lo risveglia, lo riattiva, e ne riproduce la sua prima demiurgica qualità. Anche in questa sua capacità di risvegliare le qualità e le forme dormienti si mostra ancora simile allo sciamano. E così, ancora una volta, in uno statico destino, sul trono di una notte imponderabile, nella prima incerta pulsazione delle cose, tra un segreto preambolo di vita e la premonizione della morte – quando la vita non esisteva ancora, quando la morte ancora non esisteva, quando le possibilità in potenza vennero radunate – nello spettro di un mare stagnante, presero a ruotare incessantemente nuove particelle: improvvise, fortuite, inarrestabili. E rivelarono i recessi di energia all’interno della grande espansione del tutto” (pp. 47-48).
In un costante intersecarsi di autobiografia e riflessione teorica, di linguaggio scientifico e linguaggio poetico, Benozzo tocca temi che, attraverso la parola, arrivano alle domande cruciali che riguardano la nostra esistenza: “Perché forse, dopo esserci chiesti dove va a finire la parola ogni volta che muore al fine di essere percepita, è il caso di domandarci, adesso: ‘Dove è la parola prima di essere pronunciata?’. Il sospetto è che la parola fosse già parola ancora prima che riciclassimo, nella nostra storia evolutiva, gli organi per la masticazione, la deglutizione e la respirazione, trasformandoli nel più potente dispositivo del nostro immaginario, in uno strumento magico in grado di veicolare emozioni, sogni, visioni. Non eravamo destinati a parlare: all’origine c’è stato uno scarto evolutivo, una forma erratica di anomalia, un gesto dissidente. Siamo sulla Terra da circa cinque milioni di anni. Per oltre il 99 per cento della nostra storia abbiamo vissuto da cacciatori-raccoglitori. Solo ieri l’altro – 10.000 anni fa, col Neolitico – abbiamo iniziato a coltivare le piante e ad addomesticare gli animali. La poesia appartiene ai cinque milioni di anni della nostra storia, mentre gli ultimi 10.000 anni descrivono solo lo sforzo di alcuni individui per preservare la complessità originaria che il nostro cervello rivelò quando ci permise di creare storie, canti, rituali ed esplorazioni del nostro mondo interiore. Fummo sciamani, siamo diventati scrittori. Oltre i portali di pietra del Paleolitico, le nostre parole furono alberi, fiumi, montagne; dopo l’avvento del Neolitico, divennero segni, simboli e metafore. Questo piccolo libro è anche un viaggio in questo mondo inesplorato e tratta dell’indispensabile risveglio della poesia in questi tempi anemici e avversi” (pp. 31-32).
Infine un passaggio molto illustrativo del modo con cui Benozzo ha inteso scrivere questo libro, al tempo stesso come filologo e come poeta, ammesso che le due cose nella sua visione del mondo possano essere separate: “Questi nomi mostrano in definitiva che nella parte rimossa delle nostre percezioni più radicate del mondo circostante sta ancora accovacciato, che ne siamo consapevoli o no, un lupo dotato di poteri che oggi chiameremmo magici. E che in una certa misura anche noi, oltre che eredi di Romolo e Remo allattati da una lupa, siamo, come Gengis Khan, “figli del lupo azzurro”, errabondi della steppa resi inquieti dalla nostalgia di un cielo ancora non popolato dalle stelle: la nostalgia che ha portato Homo poeta a parlare”.