Minima Cardiniana 459/5

Domenica 17 marzo 2024
V Domenica di Quaresima
San Patrizio, patrono degli Stati Uniti d’America

BREVE NOTA SU ETHOS E NOMOS
DA ITALO MANCINI A CARL SCHMITT
di Luigi Copertino
Nel suo essere al crocevia tra Mondo e Sovra-mondo, l’uomo vive inevitabilmente il conflitto interiore tra il bisogno di radicamento e quello dell’esodo, tra l’aspirazione di Ulisse al ritorno alla patria d’origine e il desiderio di Abramo della terra promessa nell’abbandono della casa paterna. È l’antico conflitto tra il nomade Abele, il giusto il cui sangue grida dalla terra verso il Cielo, e il sedentario Caino, fratricida e tuttavia segnato da Dio affinché nessuno potesse toccarlo in modo da interrompere immediatamente la catena della vendetta, dato che sangue chiama sangue.
Il racconto biblico ha nel mito della fondazione di Roma un parallelo pagano. Se nel fratricidio biblico vengono in evidenza le fondamentali implicazioni etiche del conflitto fraterno tra nomadi e sedentari, nel mito romano l’accento è posto sulla violazione da parte di Remo del diritto fondato sulla localizzazione dello spazio sacro. Violazione che, in quanto espressione della ubris tracotante congiunta alla mancanza di pietas, legittima la reazione fratricida ma “giusta” di Romolo, il perimetratore della terra destinata a localizzare l’ordinamento giuridico della città. Nel recinto stabilito dall’aratro, lo jus umano era in origine strettamente legato al fas, alla sfera normativa che regolava il rapporto tra uomini e divinità.
Tanto il racconto biblico quanto il mito pagano approcciano, in modo diverso, il rapporto tra il Divino e il mondano ed il conseguente problema del rapporto tra ethos e nomos, etica e diritto.
In Abele, la cui offerta della primogenitura del gregge è gradita da Dio, possiamo intravvedere la ricerca di una via etica verso la salvezza del mondo, nel riconoscimento che nel cuore dell’uomo hanno radice il bene come il male. Abele cerca Dio perché è consapevole che non c’è bene che non sia manifestazione del Sommo Bene e che il male, in cui consiste il peccato, sta nella pretesa di autosufficienza umana. Quella di Abele vuole essere la ricerca di un ethos universale che apra all’uomo la strada verso l’unità trascendente che sta oltre la necessaria molteplicità immanente.
Non possiamo dire che Remo sia analogo ad Abele, perché il protagonista in negativo del mito romano esprime piuttosto l’autosufficienza nel quale biblicamente consiste il peccato dell’uomo.
Un parallelo invece può essere intravisto tra Caino e Romolo, perché entrambi indicano nella perimetrazione dello spazio – Caino è detto dal testo biblico “costruttore di città” (Genesi 4,17) – la via dell’ordinamento del mondo attraverso la ripartizione territoriale che, nella sacralità del nomos, possa regolare pacificamente, o almeno con il minor spargimento di sangue, le differenziazioni mondane ed i conflitti che ne conseguono. Una via che, biblicamente, resta sempre esposta al rischio dell’autosufficienza umana che facilmente si trasforma in volontà di potenza.
Si potrebbe anche dire che mentre Abele, ponendo in secondo piano il nomos, punta direttamente all’Uno attraverso l’ethos dell’Amore, Caino, ed il suo analogo pagano Romolo, tenta di raggiungere l’Uno preoccupandosi innanzitutto di ordinare il mondo attraverso il nomos. Quella di Abele, attraverso l’ethos, è la Via della Mistica e della Ascetica, quella di Caino/Romolo invece, attraverso il nomos, è la Via del Politico e del Diritto. Necessaria, e quindi “benedetta”, quanto la prima benché più di essa a rischio di deviare, allontanandosi dalla correlazione, comunque sussistente benché problematica, tra Ethos e Nomos, tra jus e fas.
Riflettendo intorno a questa correlazione, difficile ma non in assoluto impossibile, allo scrivente è capitato di imbattersi, subendone in entrambi i casi il fascino intellettuale e spirituale, in due grandi pensatori del Novecento filosofico. Due cattolici che hanno espresso due modi differenti l’essere cattolico. Modalità, a ben vedere, ambedue legittime e ambedue – se solo si superano le visuali unilaterali – necessarie, che dovrebbero prendersi piuttosto come complementari che non in conflitto. Si tratta di Italo Mancini e di Carl Schmitt e delle loro opere maggiori ossia, rispettivamente, “L’ethos dell’Occidente” e “Il nomos della terra”[1].
Secondo uno schema tanto banale quanto purtroppo molto diffuso, Italo Mancini viene classificato quale cattolico progressista e Carl Schmitt quale cattolico conservatore. Ma appunto si tratta di un cliché che non dice nulla di essenziale né dell’uno né dell’altro.
Il problema del rapporto tra morale e diritto, secondo Italo Mancini, è stato fondato, dalla tradizione filosofica occidentale, sul principio di “giustizia”, quale carattere essenziale, e sempre incompiuto, dell’etica chiamata a ispirare il diritto. L’approdo finale della riflessione di Italo Mancini, sulla scia di Ernst Bloch, del quale egli coglie l’aspetto del profetismo piuttosto che il marxismo, è quello dell’“ethos del futuro”. Un ethos che, tuttavia, ha la sua salda ed antica radice nell’ellenicità, nell’ebraicità e nel Cristianesimo (invero in Mancini alquanto bonheferiano).
Questo ethos dell’avvenire viene definito come l’Amore che travalica qualsiasi differenziazione, non solo etnica ma anche storico-filosofica, quale si è finora data nella vicenda umana, generando conflitto. Potremmo, se non fosse troppo banalizzante, indicare nella “Civiltà dell’Amore” di certa predicazione cattolica post-conciliare, ad esempio quella di Paolo VI (il “grande disilluso” del Vaticano II), e di certa teologia forgiatasi nell’ottimismo modernista, diventato egemone negli anni sessanta del secolo scorso e molto influenzato dal protestantesimo liberale, la “sintesi ideale” dell’ethos del futuro proposto da Italo Mancini.
La posizione contraria a detto ethos dell’Amore, insieme antico e futuro, va cercata non solo nel contrattualismo sociale (in particolare in Hobbes), non solo nel positivismo giuridico di Hans Kelsen – che riducendo il diritto al solo aspetto della cogenza della norma positiva, validamente formatasi secondo la prevista procedura costituzionale, prescinde dal rapporto del diritto stesso con l’etica, quando non nega esplicitamente l’esistenza di tale rapporto –, ma anche e soprattutto nella concezione del diritto come possesso e radicamento alla terra e, quindi, come giustificazione dell’identità autoreferenziale ed esclusivista del popolo. Per il filosofo urbinate questo ultimo tipo di pensiero giuridico – si ha come l’impressione che egli abbia in mente la dimensione “völkisch” della giurisprudenza nazionalsocialista – porta inevitabilmente agli antichi “vizi” del razzismo, del tribalismo e del nazionalismo sciovinista.
Affascinante e grandioso quadro di insieme, quello di Italo Mancini, come si diceva. Dal quale traspare con forza il carattere “profetico”, quasi escatologico, del suo pensiero modellato, come afferma il sotto titolo di “L’ethos dell’Occidente”, sull’etica classica, sull’apporto universalistico dell’ebraismo e sul profetismo cristiano.
Una lettura non certo illegittima del Cristianesimo, e della sua eredità ellenistica ed ebraica, ma, a dire il vero, parziale. Essa ci appare dimentica del fatto che la “Nuova Gerusalemme” escatologica del futuro, la quale secondo il Libro dell’Apocalisse scenderà dal Cielo, pur trovandosi alla fine della vicenda storica ci riporta, trans-storicamente, ai suoi esordi, se è vero che nel Cristo della Seconda Venuta l’Omega finale coinciderà con l’Alfa iniziale – nella convergenza dell’Inizio e della Fine l’apparente linearità del processo storico della salvezza trova la sua “curvatura” nella prospettiva dell’Eternità – e se è vero che il ruolo soteriologico del Cristo della Prima Venuta consiste, mediante il Sacrificio della Croce, nella Redenzione, nel Riscatto, dell’uomo, con un chiaro rimando alla radice etimologica “re-ri” che indica piuttosto il ritorno, il ristabilimento, la restaurazione sebbene in modalità rinnovata di una condizione originaria e poi persa. Nella “Restaurazione” di un ordine violato, in fondo ed a ben vedere, consiste l’idea stessa della “Rivoluzione” che, come nel moto dei pianeti intorno al sole, si appalesa quale un tornare al punto di partenza, piuttosto che come sovversione dell’esistente decaduto per la costruzione ex novo di un ordine inedito.
Per questo, a nostro giudizio, la lettura manciniana del Cristianesimo va integrata, come diremo, con quella “katechontica” schmittiana, e viceversa.
Proprio in questa parzialità dell’approccio manciniano, che è in genere quello della teologia e della filosofia cristiane di segno “modernista”, alla concezione cristiana, intesa nella sua completezza tradizionale, si rivela ciò che, a giudizio dello scrivente, è il punto debole del pensiero, pur affascinante e grandioso, di Italo Mancini. Nonostante egli colga l’ethos non in astratto ma in connessione con la storia del pensiero occidentale – qui ci si imbatte poi in un altro problema, dato che il pensiero occidentale assurge ipso facto alla qualifica di pensiero universale, con pretesa che facilmente, anche al di là delle intenzioni, trova il suo rovesciamento nella affermazione della superiorità morale dell’Occidente –, il punto debole della riflessione manciniana sta nel ridurre l’Amore, fondamento dell’ethos, a qualcosa di estremamente vago e disincarnato. O almeno a qualcosa che tale rischia di essere. Non solo l’ethos del futuro ma l’ethos sempre necessario ad ogni epoca.
Questa aporia, a nostro giudizio, ha la sua causa in una concezione del Cristianesimo che, influenzata dal protestantesimo, tende a evaporare dalla concretezza “carnale” in una vaghezza disincarnata che alla fine slega l’ethos stesso dall’esigenza della grazia, della metanoia, per diluirlo in una estensione umanitaria e cristianamente anonima.
L’“Amore”, così disincarnato ed anonimo, rischia di prestarsi, al di là delle intenzioni, al ruolo di giustificazione “spirituale” della volontà di potenza, tecnica e finanziaria, della Cosmopolis Occidentale, come essa, negli anni successivi alla pubblicazione de “L’ethos dell’Occidente”, giungeva a maturazione e al compimento del suo secolare percorso di inveramento storico. In altri termini, il rischio è quello di fare dell’“Amore” anziché il fondamento di un ethos del futuro, già di per sé utopico nella misura in cui prescindesse dalla apertura spirituale del cuore, lo strumento propagandistico della globalizzazione tecnico-finanziaria mediante la quale l’Occidente, egemonizzato dal capitalismo finanziario, si è imposto al resto del mondo. In tal senso l’Amore rovesciato in “amore per l’uomo” senza altra specificazione, quindi rovesciato in umanitarismo, rischia di diventare, come effettivamente è diventato nella storia recente dei decenni post 1989, la copertura per le operazioni di polizia internazionale e per i bombardamenti volti ad esportare manu militari la democrazia.
La dinamica egemonica vieppiù mostrata dalla politica occidentale nella sua storia recente si è palesata, certamente, contro le intenzioni di Italo Mancini, che invece sono tra le più nobili che si possano immaginare, ma proprio in questo consiste il vero dramma, e la intrinseca contraddizione, dell’Occidente – come ben esplicitato da Franco Cardini nel suo ultimo libro[2] – ossia quello di aver raggiunto l’apice ideale della elaborazione teoretica della giustizia, della tolleranza, della pace, della fraternità, della libertà, del riconoscimento dell’altro da sé, e di aver costantemente praticato, nella sua espansione mondiale a partire dal XVI secolo, l’ingiustizia, l’intolleranza, l’aggressività, l’oppressione, la sottomissione dell’altro, la guerra più predatoria giustificata propagandisticamente in nome dell’Umanità.
Orbene, se la contraddizione dell’Occidente è questa, la sua radice sta innanzitutto in interiore homine, risiede in quella ferita originale bisognosa di redenzione, che porta l’uomo, occidentale o meno, a strumentalizzare tutto, anche il nome di Dio, per i suoi fini di egemonia individuale o collettiva.
Lo stesso Mancini, del resto, si imbatte nella contraddizione allorché acconsente alla fine a che “la filosofia da sola non basta”. È questione di metanoia. Questa, tuttavia, è possibile solo attraverso un salto ontologico di livello, esistenziale e cosmico al tempo stesso. Il salto che, nella storia, quella cristiana in particolare, si chiama “santità” e continua, ad esempio in Francesco d’Assisi, a mostrare la Realtà non dell’“Amore” vagamente inteso ma dell’Amore Incarnato.
Ma dire “salto ontologico” significa tornare a quella distinzione che Mancini, sulla scorta di tutta la teologia moderna, tende, se non a negare, quantomeno a sottacere e a sorvolare, in un pericoloso, perché ambiguo, riduzionismo tale da appiattire i diversi Piani del Reale. La distinzione tra Sovra-mondo e mondo, Grazia e natura, Spirito e creazione, Universalità e mondialità, Trascendenza e immanenza.
Senza una chiara consapevolezza della distinzione, la tentazione, magari con le migliori intenzioni, è quella di trasporre automaticamente e indebitamente ciò che è proprio dello Spirito, della Trascendenza, della Grazia, sul piano mondano, immanente, naturale, in un processo di riduzionismo pelagiano che trasforma la Caritas in mera filantropia. Ottenendo, così, non la “Civiltà dell’Amore” ma la sua contraffazione “anticristica”. Contraffazione che si manifesta nell’auspicio moderno ed occidentale dell’“unità immanente del mondo” che l’altro cattolico al quale vogliamo qui riferirci, Carl Schmitt, sulla scorta della più antica e sapienziale Rivelazione, paventava quale “manifestazione dell’Iniquo”. La quale, secondo la profezia di san Paolo (II Lettera ai Tessalonicesi), avverrà quando il Katechon, ossia ciò che trattiene quella manifestazione, sarà tolto di mezzo.
Non è possibile, sul piano immanente, prescindere dalla benedetta molteplicità di popoli e culture, quindi di radicamenti e identità, di patrie e nazioni, che l’Amore, quello Vero, unisce nella Trascendenza, riunisce sul piano dello Spirito, senza negare la legittimità naturale ed immanente del buon particolarismo. Buono perché insito nella creazione benedetta come buona dal Creatore (Genesi 1,31). L’unico modello/archetipo che, pur considerando tutti i limiti umani, nella storia si è dimostrato capace di realizzare la “unità di destino dei popoli nell’Universale” è stato l’Imperium. Ovvero il modello assunto dal Cattolicesimo romano, essendo stata la Chiesa stessa provvidenzialmente spinta, in Pietro e Paolo, fino a Roma per innestarsi, con la sua radice ebraica, nella romanità e per fare della sua eredità una cosa propria. Romano è in sé ogni Cristianesimo apostolico. Anche l’Ortodossia, per via bizantina, o il Cristianesimo copto, per via alessandrina, non possono, alla fine, non ritenersi romani.
La mistificazione umanitaria dell’Amore, invece, realizza la Cosmopoli che, nell’umanità indifferenziata, è parodia del Regno di Dio. Oggi, dopo quella del mercato mondiale che avrebbe dovuto consentire ai popoli pace e prosperità, questa parodia avanza nella sua forma ultima tecno-transumanista, già intravista nelle grandiose distopie di Aldous Huxley, Robert Hugh Benson e George Orwell.
Carl Schmitt, mentre un certo pensiero cattolico moderno andava alla deriva verso l’inconsistenza o l’utopia, ci ha lasciato una grande lezione di realismo storico che, nonostante l’antropologia negativa di stampo hobbesiano – in vero mai da lui assunta in modo acritico –, sulla scorta del pensiero controrivoluzionario di Donoso Cortes (anche questi, forse, eccessivamente incline ad un pessimismo troppo radicalizzato), ha saputo tuttavia mantenere saldo il legame con la fede non disincarnata. Questo legame appare, nel pensiero schmittiano, allorché egli, rivendicando alla concreta ripartizione della terra il fondamento originario del Nomos, del diritto, considera sempre possibile la sussistenza nella storia del rapporto tra Nomos ed Ethos, tra Autorità e Verità, allorché si assume che il Cielo riflette la sua immagine sulla terra e tra gli uomini che vivono, benché temporaneamente, in questo mondo.
Per Carl Schmitt il diritto è unità di ordinamento e localizzazione[3]. La ripartizione della terra, che consente il radicamento delle concrete identità dei popoli nel reciproco contemperamento della forza, diventa così, laddove si percorra la via politica, il vero fondamento del diritto internazionale e l’unica possibile “giustizia” mondana tra i popoli, come tali riconosciuti nelle loro specifiche identità senza essere dissolti in un vacuo diritto internazionale umanitario. Il filosofo di Plettenberg ci ha spiegato che lo jus publicum europaeum, conseguente alla Pace di Vestfalia (1640), con la sua ripartizione eurocentrica della terra, nell’età ormai globale delle grandi scoperte geografiche, ha consentito di contenere e ridurre le guerre e la violenza, rifuggendo non solo il romanticismo pacifista ma ogni letale astrattismo che invece, negando cosmopoliticamente le diversità, la violenza accresce perché nasconde in sé la legge della sopraffazione dei più forti sui più deboli spacciata, in modo luciferino, come “amore senza confini”.
La kantiana “pace perpetua”, cui si ispira l’universalismo immanente, mondano, e come tale non cristiano, del globalismo occidentale diventa lo strumento e la giustificazione della “guerra punitiva” nel misconoscimento non solo della condizione di parità giuridica dell’avversario ma addirittura della sua umanità. Colui che attenta alla Pace Mondiale, oggi diremmo al Nuovo Ordine Mondiale ossia all’ordine imposto dalla forza tecnica, economica e bellica dell’Occidente, è ipso facto il “nemico dell’umanità”, si pone “fuori dall’umanità”. Contro di lui tutto è lecito e possibile, anche la violenza più crudele, l’uso delle armi più micidiali, come anche trascinarlo davanti al Tribunale Internazionale quale criminale e come tale giudicarlo e condannarlo.
Mentre nelle antiche civiltà tradizionali la discriminazione poteva essere religiosa, distinguendosi tra “fedeli” ed “infedeli” e, quindi, escludendosi reciprocamente in quanto cristiani o mussulmani o ebrei o pagani – sicché Aurelio Agostino poteva tuttavia dire dei barbari che invadevano l’impero romano “Gentes licet barbarae tamen humanae” (De civitate Dei, I, 14), la discriminazione sulla quale si fonda il diritto umanitario moderno imposto dall’Occidente è, radicalmente, quella tra “uomini” e “non uomini”, a seconda dell’obbedienza o della refrattarietà mostrata verso l’Ordine Mondiale.
Lo jus publicum europaeum ha reso possibile “il fatto stupefacente che per duecento anni in terra europea non ha avuto luogo una guerra di annientamento”, laddove l’utopia dell’“unità del mondo” ha suscitato la libido dominandi occidentale che mette al bando, come “nemici ingiusti” dell’ordine mondiale, tutti coloro che fuggono dalla prospettiva dell’unificazione tecno-transumanista del modo.
La pace in terra necessita di rapporti diplomatici, di contenimento dell’ineliminabile conflitto, di ripartizione la più possibile equa dei beni a partire dalla terra. Sopra e in mezzo a questa pace naturale, inevitabilmente precaria, si manifesta, e sempre troverà modo di manifestarsi, attraverso gli uomini che aprono il cuore allo Spirito, la Pace, la Vera Pace. Quella della quale Gesù Cristo ha detto: “Vi lascio la mia Pace, vi do la mia Pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv. 14, 27-31).
Se Italo Mancini ha colto l’esigenza etica e mistica di Abele, Carl Schmitt coglie la medesima esigenza etica tuttavia attraverso la politica ed il diritto ponendosi nella visuale di Caino/Romolo. Entrambi gli approcci sono necessari nella loro complementarietà.

[1] I. Mancini, L’ethos dell’Occidente. Neoclassicismo etico, profezia cristiana, pensiero critico moderno, Marietti 1820, Genova, 1990; C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 1991.

[2] F. Cardini, La deriva dell’Occidente, Laterza, Bari, 2023.

[3]1. Il diritto come unità di ordinamento e di localizzazione. La terra è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto. Ciò allude a una triplice radice dei concetti di diritto e di giustizia. In primo luogo la terra fertile serba dentro di sé, nel proprio grembo fecondo, una misura interna. Infatti la fatica e il lavoro, la semina e la coltivazione che l’uomo dedica alla terra fertile vengono ricompensati con giustizia dalla terra mediante la crescita e il raccolto. Ogni contadino conosce l’intima proporzione di questa giustizia. In secondo luogo il terreno dissodato e coltivato dall’uomo mostra delle linee nette nelle quali si rendono evidenti determinate suddivisioni. Queste linee sono tracciate e scavate attraverso le delimitazioni dei campi, dei prati e dei boschi. Nella varietà dei campi e dei terreni, nella rotazione delle colture e nei terreni a maggese, esse sono addirittura impiantate e seminate. È in queste linee che si riconoscono le misure e le regole della coltivazione, in base alle quali si svolge il lavoro dell’uomo sulla terra. In terzo luogo, infine, la terra reca sul proprio saldo suolo recinzioni e delimitazioni, pietre di confine, mura, case e altri edifici. Qui divengono palesi gli ordinamenti e le localizzazioni della convivenza umana. Famiglia, stirpe, ceppo e ceto, tipi di proprietà e di vicinato, ma anche forme di potere e di dominio, si fanno qui pubblicamente visibili. Così la terra risulta legata al diritto in un triplice modo. Essa lo serba dentro di sé, come ricompensa del lavoro; lo mostra in sé, come confine netto; infine lo reca su di sé, quale contrassegno pubblico dell’ordinamento. Il diritto è terraneo e riferito alla terra. É quanto intende il poeta quando, parlando della terra universalmente giusta, la definisce justissima tellus”. Cfr. C. Schmitt, op. cit., “I cinque corollari introduttivi”. Partendo da tale visuale, Schmitt nega al mare, di per sé anarchico e libertario, qualsiasi capacità normo-poietica. Il mare non è solo la via dei commerci e degli scambi ma anche e soprattutto è il regno della pirateria, del predominio attraverso la forza. In questo sta lo scontro perenne tra il Leviathano terraneo ed il Behemoth marino ossia tra potenze di terra e potenze di mare. Il conflitto tra imperi terranei e talassocrazie trova, per Schmitt, un riscontro contemporaneo nella contesa tra sfera anglosassone, Stati Uniti d’America ed Inghilterra, e Europa continentale protesa verso l’Asia.