Domenica 17 marzo 2024
V Domenica di Quaresima
San Patrizio, patrono degli Stati Uniti d’America
VELA A MOMPRACEM
IL SERGENTE E IL MAGGIORE
di Luigi G. de Anna
Il sole si era da poco levato. Il fragore era assordante. Da un altoparlante eretto chissà dove, ma sempre troppo vicino alle mie orecchie, proveniva un qualcosa che non poteva essere definito come musica, ma come punizione di peccati commessi in questa e nella vita precedente. La musica era accompagnata da colpi… bum bum… diritti al petto, anzi, al cuore.
Uscii cercando di capire che cosa stesse succedendo. Nel cortile c’erano già molti parenti e amici di Arnon, figlio di Anong, che quel giorno sarebbe stato consacrato monaco.
E il fragore?
– Serve ad avvertire i vicini che la cerimonia è iniziata.
La spiegazione di Anong non era corretta, perché la notizia fonica a mio parere stava arrivando ben oltre i confini della provincia. Protestai, era insopportabile.
– È la tradizione.
Fu la semplice risposta. A me le tradizioni piacciono, ma questa era veramente portatrice di catastrofe, o per lo meno di sordità permanente.
– Non sopporto questo fracasso, non ci riesco proprio.
Anong era imbarazzata. Da una parte non poteva far terminare il concerto urbi et orbi in versione siamese, ma dall’altra non voleva infliggermi una punizione che, come principale sponsor della cerimonia, circa cento invitati, non meritavo.
– Vado in un albergo.
– Non ce ne sono.
Ero chiaramente disperato, al limite della sopportazione.
– Vieni, di porto a casa di Pom.
Pom è la migliore amica di Anong, era lì con lei ad aiutarla.
Inforcammo lo scooter.
A ragionevole distanza dal micidiale apparato trasmittente c’era la villetta di Pom. In campagna la porta di casa è sempre aperta.
– Ecco, puoi dormire qui fino alle 12, quando inizia la cerimonia e portiamo Arnon al tempio.
E Anong tornò al suo compito di madre di un futuro monaco.
Mi stesi sul letto, un materasso posato sul pavimento. Il ronzio del ventilatore conciliava il sonno perduto. Ma il sonno non arrivava.
Osservavo la stanza dove mi trovavo, i muri dipinti di celeste, un tavolino basso di legno scuro. Mi incuriosiva la foto che stava di fronte al letto, su un cassettone. Pom era lì, nella foto, sorridente accanto a un uomo in divisa da sergente della polizia.
I poliziotti thailandesi non assomigliano ai simpatici vicini di casa nostra a Chiang Rai, sorridenti e allegri. Hanno il taglio dei capelli alto, lo sguardo truce da Khmer Rosso.
Riflettei sulla mia situazione, che mi parve subito piuttosto preoccupante.
Dunque, mi trovavo nel letto di una donna sposata, per giunta sposata con un poliziotto armato di pistola di ordinanza. Se lui tornava, e mi trovava lì disteso, con i pochi vestiti che il caldo mi obbligava ad indossare, lì nel suo letto nuziale, che cosa avrebbe detto? O che cosa avrei detto io? Già, in che lingua? Da quelle parti l’inglese non lo parlava praticamente nessuno e il mio thai non era certo in grado di esternare un pensiero abbastanza complesso del tipo: “Sono qui perché da noi non riesco a dormire, troppo rumore”. E i Thai sono notoriamente bonari ma molto gelosi; le donne sono famose per tagliare nottetempo quanto abbiamo di più caro se sospettano una nostra relazione adulterina, e gli uomini, se hanno lo stesso dubbio, non esitano ad esercitarsi al tiro. Le cronache sono piene di questi disgustosi episodi di intolleranza.
Non c’era che una soluzione ragionevole.
Mi alzai, fuori avevo notato un ciakajàn, la bicicletta. La inforcai e pedalai verso casa di Anong. La morte per infarto cardiaco era preferibile a quella per arma da fuoco.
E così, trovati i tappi di cera che avevo provvidenzialmente conservato dall’ultimo viaggio in aereo, resistetti fino al mezzogiorno.
Quando un giovane Thai diventa monaco, lo si porta al wat, il tempio. Vestito di bianco, seduto sul pianale di un pickup, preceduto dal solito assordante altoparlante che diffonde nella campagna e nel villaggio un ritmo che serve ad amici e parenti del giovane per danzare lungo l’itinerario che porta al tempio, se ne sta sotto il sole, impassibile come deve fare un bravo bonzo, anche se lo sarà solo per qualche mese. È l’iniziazione del giovane, che porta alla famiglia onore e rispetto.
Il corteo si avviò per la strada di campagna, costeggiando i paddy fields color smeraldo, poi si dipanò oltre il klong, il canale da dove saltarono fuori i bambini che ci stavano sguazzando. Imboccammo infine la strada che porta al tempio.
È un bel tempio, con il chedi dorato, la grande statua del Lord Bhudda, pure dorata, i truci, giganteschi guardiani e i naga che incorniciano la scalinata del tempio. Il sagrato era già pieno di bancarelle che aspettavano i festeggianti. I Thai non si negherebbero mai uno spuntino, neppure nelle più sacre ricorrenze. I monaci erano già dentro, e aspettavano.
La piccola folla avanzava sempre danzando, perché questa è la tradizione; si danza mentre si cammina al suono dell’altoparlante ora montato su un carretto, mentre una giovane canta chissà che cosa. Si devono compiere i tre tradizionali giri del tempio.
Mi fermai a guardare i giovani e meno giovani standomene all’ombra del grande bodi, l’albero sacro. Avevano quasi terminato il secondo giro.
– Tra poco faranno il terzo giro. È vero, è una nenia assordante, ma serve a tenere lontani gli spiriti maligni.
Accanto a me Allan stava osservando anche lui la piccola folla che marciava sotto il sole.
Allan è un australiano che vive a Banphot Phisai da anni, qualche volta lo vado a trovare, è l’unico farang nel giro di molti chilometri. Ha in fresco la birra.
Io e Allan eravamo rimasti in disparte, forse per timidezza.
– Guarda com’è felice.
Osservai con curiosità. Ecco il farang che Allan mi indicava in quella piccola folla; avanzava anche lui seguendo le convulse movenze della danza che a me appariva essere alquanto tribale.
– Non lo conosco, chi è?
– È un mio vecchio amico. Viene qui ogni estate, ci passa tre settimane e se ne torna a Bedford.
Lo osservo: alto, segaligno, con i baffetti a spazzola, gli shorts che arrivavano alle ginocchia ossute e la camicia militare.
– Sembra un ufficiale.
– Lo è, o meglio, lo era – confermò Allan. – Un maggiore in pensione. Ha prestato servizio a Londonderry, poi in Afghanistan e credo anche in Irak.
Il maggiore danzava, danzava, e sorrideva, felice, ma non a noi, neppure ci aveva notato.
E me lo immaginavo nella sua casa a schiera nella periferia di Bedford mentre taglia accuratamente l’erba del piccolo giardino e spunta le rose da poco fiorite.
– È sposato?
– Certo. Da qualche parte ha anche dei figli.
– E la moglie non dice nulla? Lo lascia venire qui?
Allan alzò le spalle. Evidentemente.
L’ufficiale stava terminando il terzo giro intorno al tempio, la pelle rosea leggermente arrossata dal sole, la fronte imperlata di sudore.
A casa sua, a Bedford, la moglie sta bevendo a nice cup of tea, che tiene delicatamente con due dita. I pasticcini sono ancora sul vassoio di porcellana.
Passata una settimana tornai a Chiang Rai.
Avevo bisogno di un nuovo paio di pantaloni, quelli tradizionali di qui, di cotone con dipinti gli elefanti. Giravo tra i negozietti del night bazar.
E, con mia grande sorpresa, vidi lui, il maggiore.
Si era avvicinato a una bancarella. Non era solo. Accanto gli stava una giovane thai; da come era vestita non sembrava né una turista né una che veniva da Pattaya o da Phuket, la carnagione scura, doveva essere della campagna.
Il maggiore e la giovane stavano contrattando, ma tra di loro.
Lui, posata una mano sul fianco della ragazza, aveva evidentemente avanzato una sua precisa richiesta riguardo al proseguimento della serata.
Lei ebbe un momento di esitazione, poi rispose con tono deciso e volitivo: “Yes, but you buy me underwear”.
Modesta pretesa di una modesta ragazza delle montagne.
Quando si inizia una relazione, tra un vecchio farang e una thai, è bene cominciare dall’essenziale.